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Il “Principe” 500 anni dopo

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di Francesco Bausi*

Niccolo Machiavelli by Santi di TitoFare la storia con i se non è corretto, ma può essere divertente e a volte anche utile. Se Dante non fosse stato esiliato nel 1302 senza più fare ritorno in patria, non avrebbe mai scritto la Commedia. Se Petrarca non avesse dovuto emigrare in Francia da bambino al seguito del padre, non avrebbe mai scritto il Canzoniere. Se Machiavelli nel 1512 non fosse stato rimosso dai suoi incarichi in cancelleria a causa del ritorno dei Medici al potere, non avrebbe scritto il Principe. Non si tratta di frasi a effetto: alla radice di tutte queste opere – tre fra i massimi capolavori della nostra letteratura e della cultura di ogni tempo – stanno infatti situazioni personali di lontananza, di isolamento, di solitudine. Solo un uomo ormai privo di legami con la realtà municipale della sua città e avulso dalle lotte di parte poteva conquistare la prospettiva universale che muove la Commedia; solo un uomo costretto a passare la giovinezza in una città straniera e cosmopolita come Avignone, dove le lingue della cultura e della comunicazione erano il francese e il latino, poteva approdare alla suprema astrazione linguistica e concettuale della poesia del Canzoniere; solo un uomo che non aveva più niente da perdere, e le cui uniche carte erano la conoscenza storica e l’esperienza politica, poteva comporre un asciutto libretto in cui l’ex esponente di punta di un regime repubblicano delinea con crudo realismo compiti e comportamenti del principe.Competenza vera, maturata in anni di politica, interna ed estera, fatta “sul campo”: questo mise sul piatto Machiavelli, nel 1513, per convincere i sospettosi Medici a servirsi di lui. Scrivere uno dei soliti trattati retorici in cui si idealizzava la figura del principe “virtuoso” e “giusto” non gli sarebbe servito a niente, perché, con i suoi precedenti, nessuno lo avrebbe preso sul serio. E poi non ne sarebbe stato capace: Machiavelli non era un brillante umanista o un fine dicitore, né, fino ad allora, si era mai misurato con la vera e propria trattatistica politica. Prima del 1513, nei rari intervalli concessigli dal suo lavoro, si era dedicato quasi soltanto alla poesia, limitandosi, per il resto, a stendere relazioni di ambascerie o brevi scritti ufficiali legati a situazioni contingenti. E poi, soprattutto, era abituato ad aggredire i problemi senza girarci intorno con le parole: un’abitudine che gli veniva dal suo carattere spigoloso, ma anche dalla lunga pratica come cancelliere e inviato della repubblica, incaricato di delicate missioni in cui gli era richiesto di comprendere rapidamente le situazioni, informando i suoi superiori con precisione e agendo con risolutezza.

Non era nuovo, Machiavelli, alle scelte difficili. Fin dal 1503, inimicandosi larga parte dell’aristocrazia fiorentina, aveva promosso un progetto di ricostituzione delle milizie cittadine, ottenendo l’appoggio del capo della repubblica, il gonfaloniere Piero Soderini. In seguito, del Soderini sarebbe divenuto uomo di fiducia, al punto da legare a lui tutte le sue fortune: basti dire che quando la repubblica crollò e, nel settembre 1512, i Medici fecero ritorno a Firenze, in cancelleria Machiavelli fu il solo, insieme al suo collaboratore e amico Biagio Buonaccorsi, ad essere licenziato. Ogni volta, egli metteva in gioco tutto sé stesso, senza calcoli e cautele (il che può sembrare strano, visto il significato poi assunto dal termine “machiavellismo”): così fece anche dal 1512 in poi, diventando, da repubblicano, sostenitore dei Medici, perché in loro vedeva l’unico possibile argine contro lo strapotere e il conservatorismo delle vecchie famiglie nobiliari fiorentine. Ma solo nel 1520 la famiglia egemone lo riabiliterà: grazie ai Medici gli verranno affidate missioni politiche via via più importanti, una delle sue opere maggiori (il dialogo militare L’arte della guerra) sarà stampata a Fiorenze  nel 1521, nel 1520 si rappresenterà a Roma la Mandragola al cospetto di papa Leone X (Giovanni de’ Medici) e tramite il cardinale Giulio de’ Medici  gli verrà conferito l’incarico ufficiale di comporre le Istorie fiorentine.

Ma il suo destino è paradossale: quando nel 1527 Firenze torna a costituirsi come repubblica, cacciando nuovamente i Medici, nel ruolo di cancelliere che dal 1494 al 1512 era stato suo gli viene preferito l’oscuro Francesco Tarugi. Per i repubblicani, molti dei quali erano stati fra i suoi amici più stretti, Unknown-1Machiavelli, che morirà pochi giorni dopo, è ormai da tempo un mediceo, perché ai Medici ha votato fedelmente da anni la sua attività politica e letteraria. Infatti, fra 1531 e 1532, sarà il secondo papa mediceo, Clemente VII, a promuovere la pubblicazione, tra Roma e Firenze (una Firenze ormai definitivamente tornata ai Medici e ormai chiaramente indirizzata verso il principato), delle sue opere maggiori, compreso il Principe. Gli amici di un tempo gli voltano le spalle: Luigi Alamanni, uno dei due letterati cui Machiavelli aveva dedicato la sua Vita di Castruccio Castracani, compone prima del 1528 una satira in cui il Principe è aspramente condannato come un libro immorale, responsabile della politica scellerata dei regnanti che hanno ridotto l’Italia in schiavitù. Non meno paradossale, del resto, fu anche il destino del Principe. Scritto con l’idea di dimostrare ai Medici la propria competenza politica allo scopo di essere da loro “adoperato”, il libro pagò lo scotto della propria arditezza politica e morale, e si rivelò ben presto inservibile: lo stato principesco “nuovo” che papa Leone, fra 1513 e 1515, sembrava intenzionato a concedere al fratello Giuliano (e in vista del quale il trattato era stato inizialmente concepito, tanto che Giuliano avrebbe dovuto esserne il dedicatario) non vide mai la luce, mentre la situazione di Firenze – dove i Medici non disponevano di un potere assoluto – richiedeva la massima prudenza e non poteva certo essere affrontata con gli strumenti suggeriti nell’opuscolo. Qualcosa parve poter cambiare quando, fra 1515 e 1516, il giovane Lorenzo, nipote del pontefice e di Giuliano, assunse in città una maggiore autorità politica e militare, ottenendo anche il titolo di Duca d’Urbino e quello di capitano dell’esercito pontificio; per questo, Machiavelli decise di dedicargli il trattato, che però o non gli fu mai effettivamente consegnato, o in ogni caso non gli risultò gradito. Quando poi, nel 1519, Lorenzo morì, il Principe perse qualunque attualità: a capo della famiglia Medici restavano solo due alti prelati (papa Leone e il cardinale Giulio), nessuno dei quali ovviamente avrebbe potuto diventare “principe”, e che pertanto avevano tutto l’interesse a dar prova di moderazione nel governo cittadino. In tale contesto, l’apparizione di un libro come il Principe, dedicato a un Medici da parte di un uomo al loro servizio, sarebbe stata controproducente, cosicché Machiavelli dovette accontentarsi di veder pubblicate la meno “compromettente” Arte della guerra e una commedia come la Mandragola. A dire il vero, nel 1523 il Principe approda in qualche modo alle stampe, a Napoli, ma in forma davvero inconsueta: larghe parti dell’opuscolo, infatti, vengono riprese e “plagiate” nel trattato latino De regnandi peritia del filosofo aristotelico Agostino Nifo, che, dedicato a Carlo V, propone la consueta immagine “idealizzata” del regnante. Nifo, che era protetto da Leone X e che entrò in possesso del Principe tramite gli ambienti medicei fiorentini, normalizza, neutralizza o elimina molte delle parti più ardite dell’opuscolo machiavelliano; e se da esso ha talora ricavato la descrizione di certi comportamenti tirannici, afferma di averlo fatto solo affinché chi legge impari a conoscerli e ad evitarli. Una chiave di lettura, questa, che sarà recuperata nella dedica della seconda stampa del Principe (Firenze 1532), dove per la prima volta troviamo formulata quell’interpretazione “obliqua” del trattatello che tanta fortuna avrà nei secoli successivi, fino a Foscolo, secondo cui Machiavelli non ha voluto ammaestrare il tiranno, ma solo rivelare ai popoli i crudeli strumenti del suo potere. E sarà il prezzo che il Principe dovrà a lungo pagare per poter essere pubblicato e letto nell’Europa moderna.

Uomo dei paradossi, dunque, Niccolò Machiavelli, sempre in prima linea nel sostenere le sue idee, soprattutto quelle più “scomode”, tanto che l’amico Francesco Guicciardini lo definì ingegno “stravagante”, lontano dalle opinioni comuni e “inventore di cose nuove ed insolite”. Ma ciò che più colpisce in lui è altro: la disponibilità a mutare le proprie opinioni e le proprie posizioni nel corso degli anni, passando da strenuo repubblicano a sostenitore di Piero Soderini, diventando quindi fautore di un potere mediceo prima “costituzionale” (o civile, come egli lo definisce) e poi principesco, per concludere la sua parabola come teorizzatore di uno stato “misto” in cui convivessero elementi democratici, oligarchici e monarchici. Considerato per molto tempo, in passato, esponente di una visione rigidamente repubblicana, Machiavelli è in realtà esempio – utile e attuale anche oggi – di un approccio anti-ideologico che sa realisticamente adattare il proprio punto di vista, e le soluzioni politiche proposte, al mutare dei tempi e delle circostanze, anche a costo di risultare, in tal modo, sgradito ai vecchi amici e sospetto ai nuovi.

[La versione a stampa di questo articolo è uscita nel giornale fiorentino Cultura commestibile].

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20130501_104843_resized_3*Francesco Bausi (Firenze 1960) è professore ordinario di Filologia italiana e di Letteratura italiana medievale presso l’Università della Calabria. È direttore della rivista di studi quattrocenteschi «Interpres», membro delle Commissioni per l’edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli e di Giosue Carducci, coordinatore (con Vincenzo Fera e Silvia Rizzo) del «Progetto Poliziano», supervisore filologico dell’edizione delle Lettere di Lorenzo de’ Medici, membro dell’Advisory Committee della collana «I Tatti Renaissance Library» (pubblicata dalla Harvard University), membro del comitato scientifico delle riviste «Schede Umanistiche», «L’Ellisse», «Ecdotica», «Italian Poetry Review», «Per leggere». Filologo e storico della letteratura, ha studiato in prevalenza la civiltà letteraria del Quattro e del primo Cinquecento, le letteratura medievale, la storia della metrica italiana, la letteratura otto-novecentesca, pubblicando, su questi e su altri argomenti, oltre 250 saggi in riviste italiane e straniere, in volumi miscellanei o in atti di convegni. Inoltre ha curato le edizioni delle Silvae (1997), delle Poesie volgari (1997), di Due poemetti latini (2003) e delle Poesie (2004) di Angelo Poliziano, degli Epigrammi di Ugolino Verino (1998), della disputa epistolare tra Pico ed Ermolao Barbaro (1998), delle opere complete (in CD-rom, 2000) e della Oratio de hominis dignitate di Pico (2003), dei Discorsi di Machiavelli (2001, nell’àmbito dell’Edizione Nazionale), delle Invective contra medicum e della Invectiva contra quendam di Petrarca (2005). In volume ha pubblicato: La metrica italiana (con Mario Martelli, 1993), Nec rhetor neque philosophus. Fonti, lingua e stile nelle prime opere latine di G. Pico della Mirandola (1996), Machiavelli (2005), «Il poeta che ragiona tanto bene dei poeti». Critica e arte nell’opera di Severino Ferrari (2006), Petrarca antimoderno. Studi sulle invettive e sulle polemiche petrarchesche (2008), Dante fra scienza e sapienza (2009), Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano (2011).



Notizie samghiane (Machiavelli opere, Rinascimento a Firenze, Bembo a Padova, Pulci sonetti, Il caso Conrad)

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a cura della Redazione

Nuova edizione dei testi letterari machiavelliani per il Cinquecentenario del Principe

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Nella Edizione Nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli è uscito il volume delle Opere letterarie, tomo II,  Scritti in poesia e in prosa. In questo anno di celebrazioni è il vero evento, forse più importante dei molti convegni che si terranno in giro per il mondo e che avranno il merito di confermare come davvero il Segretario fiorentino sia ormai diventato uno dei due o tre autori italiani divenuti fondamentali nel canone condiviso a livello planetario. Tuttavia il primo e vero gesto per celebrarlo è quello di leggerne i testi in una versione finalmente affidabile e con commento nuovo e approfondito. Dai testi occorre partire e ai testi occorre tornare, è questa  la grande lezione che la presente edizione impartisce a tutti noi. Frutto di oltre 10 anni di studi condotti da un gruppo di specialisti di altissimo profilo guidati da Francesco Bausi, il volume consta di più di 700 preziose pagine e dell’edizione di tutti i testi poetici e in prosa (seguirà poi il volume dedicato al teatro) inclusi alcuni quasi sconosciuti e, comunque, pochissimo studiati. Qui il link all’edizione nel sito della Salerno Editrice: http://www.salernoeditrice.it/Scheda_libro.asp?id=1914&it=ok&categoria=27

a.polcri

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Rinascimento a Firenzepalazzo-strozzi-580x350

La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460 è il titolo di una delle più belle e importanti mostre dell’anno, visitabile a Palazzo Strozzi dal 23 marzo al 18 agosto 2013 e poi al Musée du Louvre dal 26 settembre 2013 al 6 gennaio 2014. La rassegna, realizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi, in stretta collaborazione con il Louvre,  raccoglie opere provenienti dai più importanti musei del mondo. L’esposizione illustra, in dieci affascinanti sezioni tematiche, la genesi del Rinascimento fiorentino entro un periodo che copre i primi sessant’anni del XV secolo, soprattutto  mediante capolavori di scultura e si apre con i padri della “rinascita” fra Due e Trecento, attraverso le meraviglie di Nicola e Giovanni Pisano, Arnolfo, Giotto, Tino di Camaino e dei loro successori, che assimilano anche la ricchezza espressiva del Gotico, in particolare di origine francese. Il “nuovo periodo” ha inizio con le opere di Ghiberti e Brunelleschi e prosegue, attraversando i momenti fondanti più significativi del Rinascimento, mediante la scultura pubblica monumentale di maestri quali Donatello, Nanni di Banco e Michelozzo, realizzata per i grandi cantieri della città. Nella galleria sono presenti, tra gli altri, esemplari di Masaccio, Paolo Uccello, Andrea del Castagno e Filippo Lippi, a dimostrazione di come le nuove forme scultoree abbiano influenzato anche  la pittura. Vengono delineati i nuovi canoni della scultura sacra di Donatello, di Ghilberti e di altri maestri e sono presenti preziose opere lignee, in bronzo, in bronzo dorato, in marmo, stucco e ceramica smaltata della bottega Della Robbia. Un’ultima sezione  presenta il passaggio dalla produzione artistica di pubblica committenza al mecenatismo mediceo. Il percorso espositivo  ha inizio con il modello ligneo della Cupola di Santa Maria del Fiore, progettata da Brunelleschi e simbolo per eccellenza della città, e si conclude con un altro modello ligneo, quello della più illustre dimora privata del Rinascimento, Palazzo Strozzi. L’evento testimonia il  clima spirituale e intellettuale che ha animato Firenze e  il fervore creativo legato al contesto socio-politico del tempo che ha dato vita al nuovo linguaggio dell’arte. La mostra è un’occasione unica, che raccoglie circa centocinquanta capolavori; si tratta di un viaggio alla riscoperta dell’antico nella città che ha dato vita al Rinascimento e che proprio dalla scultura prende i primi passi. Per informazioni dettagliate su orari e prenotazioni visita il sito http://www.palazzostrozzi.org/Sezione.jsp?idSezione=937 Per visualizzare il video sulla mostra clicca qui: https://www.youtube.com/watch?v=j5_hQRTArew

t.caligiure

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Pietro Bembo a Padova

Titian_-_Portrait_of_Pietro_Bembo_-_WGA22949Ricordiamo che restano due settimane per visitare la mostra Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento a Padova (Palazzo del monte di Pietà, catalogo Marsilio a cura di G. Beltramini, D. Gasparotto, A. Tura). Qui di seguito il link al sito della mostra: http://www.mostrabembo.it/. Nato di nobile famiglia veneziana, figlio di Bernardo, uomo politico e umanista in contatto con i maggiori intellettuali della seconda metà del Quattrocento, Pietro non seguì le orme del padre. Invece che abbracciare la carriera politica, Pietro preferì – cosa insolita per un patrizio veneziano – assecondare la propria vocazione letteraria. Si trovò così a peregrinare tra le più splendide corti del Rinascimento: Ferrara, Urbino, Roma prima di fare ritorno a Padova, dove possedeva una villa di delizie, il Noniano, nella quale aveva raccolto una mirabile biblioteca e una eccezionale raccolta di oggetti d’arte antica e moderna. Pietro fu certamente il letterato di riferimento per tutta la prima metà del secolo, il dittatore delle lettere, secondo una celebre definizione. Diede le regole della lingua italiana scritta, fornì un esempio di poesia fondato sulla rigorosa imitazione del modello petrarchesco, scrisse un fortunatissimo dialogo di materia amorosa, gli Asolani. Fu però anche un grande umanista, un uomo di vastissima e variegata cultura e un impenitente amante delle donne. Resta celebre la sua relazione con Lucrezia Borgia, la figlia di papa Alessandro VI. La mostra rende conto della lunga vita di Pietro, culminata nell’elezione al cardinalato nel 1539. Manoscritti, libri a stampa, quadri, bronzi, strumenti musicali perfino una treccia biondissima che, leggenda vuole, fosse appartenuta a Lucrezia e da lei mandata a Pietro con una lettera. Organizzata in sezioni che rendono conto del percorso biografico di Bembo, la mostra è sorprendentemente ricca. Vi si trovano i ritratti di amici e protettori eseguiti da Raffaello e Tiziano; il grande quadro di Mantegna raffigurante San Sebastiano; due tavole di Hans Memling appartenute a Bernardo Bembo, opere di Giovanni Bellini e Sebastiano del Piombo. E, ancora, medaglie, una delle passioni di Pietro; disegni architettonici risalenti al primo decennio, quando Raffaello, il grande amico di Pietro, stava rinnovando Roma restaurandone l’armonia classica. E poi busti marmorei e disegni, tra cui una splendida crocefissione di Michelangelo. La mostra è un sontuoso percorso attraverso quasi ottant’anni di storia, dal fulgore dell’Umanesimo, attraverso l’apogeo del Rinascimento, fino alle fosche nubi che, attorno agli anni Quaranta del Cinquecento, dopo la Riforma, la perdita della libertà d’Italia e il crescente controllo inquisitoriale, calano a soffocare i colori di quell’irripetibile stagione. Per visualizzare un video di presentazione della mostra, clicca qui: http://www.youtube.com/watch?v=HO1VpeDpeS8

m.faini

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Nuova edizione dei sonetti di Luigi Pulci

A cura di Alessio Decaria esce ora l’importante edizione dei sonetti extravaganti del Pulci (Luigi Pulci, Sonetti extravaganti, edizione critica e note di Alessio Decaria, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2013 “Quaderni Aldo Palazzeschi” Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze). Sono sonetti di3490_8230 finissima fattura (48 componimenti e altri 7 di attribuzione dubbia o improbabile) presentati in una raffinata edizione critica con un commento puntuale e ricchissimo.  Il volume ha il merito di proporre i testi meno noti di uno dei grandi poeti della nostra letteratura ancora poco letto e conosciuto. La sua scrittura esplosiva è fortemente caratterizzata da un totale coinvolgimento con la vita minuta vissuta ’tra la corte Medicea e la piazza’. Pulci, autore del Morgante, grande capolavoro del genere cavalleresco, fu anche un maestro nella polemica violentemente condotta in punta di sonetto.  Alle tenzoni poetiche - veraci testimonianze del bellicoso spirito letterario del tempo –  Luigi mai si sottrasse, sempre reagendo con acume e geniale ribalderia scrivendo affilati sonetti contro il filosofo Marsilio Ficino e l’umanista e cancelliere della Repubblica Bartolomeo Scala, ma soprattutto contro Matteo Franco a cui dedicherà, ricambiato con non minore ferocia, una gran quantità di poesie che spero Decaria pure pubblicherà con la consueta maestria ed eleganza, riportando alla luce opere ancora oggi capaci di parlarci di come il cuore umano, sempre agitato dalle medesime passioni, in fondo non sappia affatto cambiare. Qui trovate il link al volume nel sito della Sef Editrice: http://www.sefeditrice.it/scheda.asp?IDV=3490

a.polcri

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Nuove traduzioni, Il caso di Joseph Conrad

Joseph Conrad, Il caso, Adelphi, 2013.

Joseph Conrad, Il caso, Adelphi, 2013.

E’ uscito in questi giorni per Adelphi in una nuova traduzione Il caso di Joseph Conrad. Un capolavoro oggi poco studiato e menzionato, ma che nel 1913, anno della prima edizione, ebbe un enorme successo e avvicinò lo scrittore  anglo-polacco al pubblico popolare. Il caso racconta, mediante il personaggio-narratore Charles Marlow, ma con l’intreccio di diversi punti di vista che Conrad riesce magnificamente a ordire, la storia di Flora de Barral, giovanissima figlia di un banchiere danneggiato dalla speculazione che finisce in galera, dopo avere a sua volta  messo sul lastrico migliaia di investitori. La ragazza, una persona esile e silenziosa, si trova in preda all’emarginazione, ma lotta con ostinazione per conquistare la sua identità, affrontando le prove che il destino le ha riservato. L’incontro con il capitano Anthony le sembra un’ancora di salvezza che si rivelerà, prima nel lungo viaggio per mare e poi nel matrimonio, una tragedia. Nella traduzione di  Richard Ambrosini, studioso di spicco che da anni si occupa  dell’opera di Conrad, rivive, dunque, uno dei romanzi più importanti  del maestro di prosa inglese.  Un flusso linguistico incalzante coinvolge il lettore in atmosfere affascinanti  e al tempo stesso mette a nudo i dubbi e le incertezze dell’animo, narrando la solitudine dell’uomo dinnanzi alla violenza e ai ciechi colpi del caso, di cui il mare, che Conrad conobbe benissimo nei vent’anni di viaggi  precedenti la sua attività scrittoria, è uno dei simboli privilegiati.

t.caligiure


Translated poems of Giorgio Orelli

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Translations by Marco Sonzogni*

Giorgio Orelli (1-Yvonne Böhler)It is never an easy task to introduce a poet. When I need to do that, I like to think of T.S. Eliot, of his efforts to describe poets, understand their poetics, read their poems, and acknowledge their influence. So I think of, and face up to, those two heavy adjectives  – major and minor – and their ramifications to say that Giorgio Orelli (1921) is a major poet. His control of content and form, his mastery of language and rhythm, his ability to respond to and record emotions with compassion and lucidity, make him a poet of absolute purity. 
These characteristics are already (and remarkably) present in Orelli’s debut collection and he has continued to develop and perfect them since – he is still doing so now, in his nineties, as the two very recent poems presented here testify. Thus looking for appropriate isms to classify and introduce Orelli would mean to confine the breath of his sophisticated poetics inside the box of literary terminology and reduce the depth of his poetry to a list of prescribed categories. In any case, Orelli humbly but firmly eludes conventions and parameters in that his poetry always goes beyond – and therefore remains independent from – a certain place within literary schools, academic discourses and publishing trends. 
Indeed, Orelli does us all – readers, critics, and translators – a big favour: he provides us with a modus scribendi that is at all times ethically sound and artistically credible. From the very first encounter with his poetry I have considered Orelli a human being and a poet of clear vision and uncorrupted values in a world often conditioned by darkening and corrupting forces. A poet who looks at and understands the past, the present and future with a sympathetic but also resisting disposition; a poet who has the ability to bring the every day reality of living entities and their stories into the ur-time and ur-space of the poetic word, where they become exempla. 
This is why I always feel a sense of steadfast, righteous, and comforting familiarity when I read Orelli’s work. I hope that translating it into English has earned me the right to share the gift of his poetry [Marco Sonzogni]

*****

Giorgio Orelli

La buca delle lettere

Dove mirabilmente
giallo su prima mano
di rosso anche d’autunno
resistono ardite parole:
TI AMO
DI PIÙ
più non gialleggia la buca
delle lettere, a lungo appesa al muro
d’un giardino arruffato:
inghirlandata di glicine e fragili
roselline, in un folto d’ulivi,
palme, sambuchi, natura
naturale ove adesso si leva
un attro giallo, l’arancio dei cachi
che sfiorano la casa
dell’ultracentenario (con un braccio
più d’un frutto potrebbe raggiungere,
ma non si vede mai):
lì, come fosse
nel posto più giusto, più quieto,
sembrava riposarsi
in se stessa l’antica cassetta,
nel suo caldo colore.
Sparita anche la tortora
che dalla cima d’un lampione
ne lamentava la sorte.

Letter box

Splendidly
yellow on the best of
red even in autumn
the bold words stand out:
I LOVE YOU
MORE
no more does the mouth of the box show up yellow,
for a long time hanging from the wall
of an unkempt garden:
garlanded with wisteria and delicate
little roses, beset with olive trees,
palms and elderberries, just
nature where another yellow
appears now, the orange of persimmons
flowering over the house
of the man more than a hundred years old (with his arm
he could pick a lot of fruit,
but you never see him):
there, as if it were
in just the right, the quietest, spot,
the old box
seemed to settle within itself
in its warm colour.
The dove that bemoaned
its fate from a lamppost
has gone away too.

****

Ragni

Da quando? se da giorni
e giorni, mesi ormai,
mentre riposo li osservo
e scordo e non senza stupore
riscopro: ombre d’acheni,
più piccoli di mezza formichetta
smarrita nell’acquaio: sempre lì,
lontano quanto basta dalla lampada
che ha bruciato l’incauto calabrone,
diafani a furia di guardarli, quasi
trascoloranti in rosa:
chi sa mai se lo sanno
d’essere l’uno a una spanna dall’altro
come due nei su una schiena,
inquilini abusivi del soffitto,
strani compagni della mia vecchiaia:
sempre lì, sempre soli, senza preda,
una volta soltanto è arrivato dal Nord
un ragno d’altro rango,
quasi robusto, nerastro,
è passato col fare inquisitorio
d’un commissario
tra i due come se fossero
sorvegliati speciali,
senza distrarli, è sparito
in fretta nel gran bianco,
e dunque non li ha visti
sincronici calarsi,
sostare penzolando
nel vuoto dove nemmeno si sognano
di cercare un appiglio
per una tela: intenti aile filiere
troppo presto esaurite e come
saggiando il peso d’essere, il mistero,
già pronti a risalire divorando
filo e distanza: .
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me.

Spiders

Since when? If for days
and days, months by now,
while I rest I watch them
and I forget and not without wonder
I rediscover: shades of acorns,
smaller than half a little ant
lost in the kitchen sink: always there,
far enough from the lamp
that has burnt the careless hornet,
blurring after looking at them too long, almost
changing their colour to pink:
who knows whether they know
one is a hand’s breadth from the other
like two moles on your back,
squatting tenants of the ceiling,
strange companions of my old age:
always there, always alone, with no prey,
once only
there arrived from the North
a spider of quite another species beside,[1]
biggish, blackish,
it went by between the two
with the inquisitive manners
of a police inspector as if the two were
under strict surveillance,
leaving them untroubled, it hurried
away in the wide whiteness,
and so it didn’t see them
synchronise their drop,
hang dangling
in the void where they wouldn’t even try
to weave
a web: worrying that their glands
might dry out too soon and as if
pondering the weight of being, the mystery,
already ready to climb back up devouring
web and distance:
pretending to be once more
just two dots around
me.

[1] “beside” is a reference to a nursery rhyme about a spider and Miss Muffet (“Little Miss Muffet, sat on a tuffet, eating her curds and whey. |  Along came a spider and sat down beside her and frightened |  Miss Muffet away”).

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Marco Sonzogni*Marco Sonzogni (1971) lives in Wellington, New Zealand. He holds degrees from the University of Pavia (Almo Collegio Borromeo), University College Dublin, Trinity College Dublin, Victoria University of Wellington and the University of Auckland. A widely published academic, he is an award-winning editor, poet and literary translator. He is a Senior Lecturer in Italian with the School of Languages and Cultures at Victoria University of Wellington, where is also the Director of the New Zealand Centre for Literary Translation. His literary translation projects include Swiss-Italian poets (Oliver Scharpf, Alberto Nessi, Pietro De Marchi, Fabiano Alborghetti, Giorgio Orelli), New Zealand poets, and the collected poems of Seamus Heaney (Meridiano). Marco Sonzogni, in collaboration with Giorgio Orelli and Pietro De Marchi, is working on Giorgio Orelli’s Selected Poems in English. Translations will also appear in Contrappasso (Australia), La Libellula (Ireland), Legger…ti (Switzerland), Nuovi Argomenti (Italy), and PN Review (UK).   


Tuning in to the Frequencies of Life: The Poetry of Fabiano Alborghetti

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Fraancisco GoyaTranslations by Marco Sonzogni*

Fabiano Alborghetti’s Directory of the Vulnerable (Il registro dei fragili. Bellinzona: Edizioni Casagrande, 2009, 75pp) is unusual in terms of style and content. With allusions to Dante and Pound, Alborghetti tells a story in 43 cantos. The almost hypnotic rhythm of these understated yet pressing texts lulls the reader into following an apparently uneventful account of ordinary lives and events. But at the heart of this exploration lies an unexpected and tragic incident. By showing the reactions of a credible cross-section of contemporary society, Alborghetti seeks not universality but to stand in the shoes of his subjects. Thus Directory of the Vulnerable is just that: a book about vulnerable human beings whose feelings and experiences are watched and recorded. What makes the book particularly interesting – and challenging to translate – is Alborghetti’s use of rhythm: meters and cadences that contribute to conveying the modus operandi of the people in this story. I would like to thank Fabiano Alborghetti for his encouragement and contribution; and Bob Lowe, for his inspired and inspiring suggestions. I would also like to thank the editors of La Libellua, where earlier versions of cantos 1-10 were published (n. 4, 2012, pp. 123-135). [Marco Sonzogni]

*****
Fabiano Alborghetti
poems 
from “Directory of the Vulnerable” (“Registro dei fragili”)

Canto 1

Gli bastavano i ritagli le riviste che comprava in settimana per sapere
della vita e certe foto conservava per copiarne il buon vestire
la postura che allo specchio ripeteva in precisione:

il tre quarti dello sguardo, il sorriso di chi vince la partita…

Canto 1

A weeks’ worth of magazine clippings kept him up to date
with life and he kept some of the pictures so that he could choose his fine clothes
and the expressions he practised so precisely in the mirror:

the three-quarter pose, the champion’s smile…

Canto 12

Sulla spiaggia col costume con le forme in evidenza
il colore della pelle e la pelle tutta tesa si piaceva, era bella
come prima di sposare, sono bella ripeteva

e lo dice anche l’amica mentre insieme all’estetista:
quelle foto da sfogliare ripetevano la forma, rimandavano la prova
ch’era bella da morire e certi segni non vedeva

non i fianchi un po’ pesanti maturati in gravidanza, non la faccia
tutta tesa di chi accumula stanchezza, non le mani
consumate dai lavori dai bucati

era bella e si piaceva, si piaceva
ma lontana non presente in questo tempo
dove tutto ti rapina, dove il tempo è sottomesso

alle cose della casa. Là in albergo
era vita da signora: con la cena preparata con la stanza fatta bene
la piscina con le sdraio con il bar e l’ombrellone

col servizio di qualcuno che ti serve in ogni cosa
basta solo domandare e si esaudisce il desiderio.
Riponeva poi le foto nel cassetto del salotto

ritornava in questo mondo dove niente è come pare…

Canto 12

On the beach with a swimsuit to show off her figure,
her tan and her taut skin, she was pleased with herself, she was beautiful
before her marriage, I am beautiful she said again to herself,

and her girl friend says so too while they are at the beautician’s together:
a series of photos confirmed how her figure used to be, repeated the proof
that she used to be drop-dead gorgeous but she hadn’t noticed

the way her thighs sagged a bit after pregnancy,
or how her face was lined by weariness, or how her hands
were spoiled by housework and washing

she was beautiful and loved the way she looked, loved it,
but far away not here not now
where everything falls apart, where time

goes in housework. Back there at the hotel
that was the life of a lady; dining à la carte, and the room service
the pool with the deck chairs the bar and the sunshades

with someone at your service for anything
you only have to ask and there it is.
Then she put the photos back in the drawer

she came back to this world where nothing is the way it seems…

Canto 13

Divagava con lo sguardo nel mimare l’attenzione
le domeniche di fede, il vestito tra gli scranni
moglie e figlio giusto accanto

se devoti o ammaestrati non sapeva. Interrogando
il volto in croce interrogava il come il quando
e se qualcosa per preghiera gli venisse ritornato

e quanti occhi può contare chi dall’alto vede e veglia
e vede tutti per davvero? C’è premura di salvezza offerta in cielo?
Questa è vita da canile sussurrava non sentito:

siamo in mano alla pietà, ringraziamo dei frammenti
che pensiamo siano ascolto. Cosa resta della fame non saziata?
Imparare a comportare è la questione:

nel bisogno ognuno un credo, un estrarre un amuleto
che risveglia a giorni alterni un potere d’intervento.
Son diverso ripeteva a bassa voce, son diverso

e guardava gli esegeti di quel Cristo appeso in croce
reso quota per martirio: si chiedeva e se non basta?
Basta credere nell’uno si diceva calcolando

o più efficace l’occasione, tutto il caso degli opposti?

Canto 13

He let his gaze wander while seeming attentive
on those Sundays of worship, the best clothes in the pews
his wife and son right beside him

uncaring if they were pious or well brought-up. Questioning
the face on the crucifix, he asked when and how
he asked if prayer did anything in return

and how many eyes could he count, he watching awake from up there
and did he really see them all? And did he care about salvation offered in heaven?
It’s a dog’s life he muttered under his breath:

we depend on piety, we are grateful for any crumbs
that we believe have been heard. What about our insatiable hunger?
You have to learn how to behave:

when in need, each has his own credo, pulls out an amulet
which invokes half of the time some power of intervention.
I am different he repeated in an undertone, I am different

and he looked at the worshippers of that Christ up there on the cross
torn by martyrdom: he asked himself, what if that is not enough?
Is it enough to believe in a universal being he said calculating

or to believe in chance, the whole debate about opposites?

Canto 17

Stare attenti ad ogni gesto
cancellare la memoria al cellulare
era questo che premeva poco prima di rientrare

poco prima di rimettere le chiavi nel portone
risalire per le scale
ritornare col sorriso alla recita serale

con la cena, le notizie delle otto da seguire alla tivù
con i piatti già riempiti e mezza cena da finire
ritornare col sorriso, un accenno per un gesto

che veniva rifiutato….Si cenava con il film
gli occhi alti per lo schermo che aiutava a superare
almeno il tempo del contatto

delle forme messe accanto
a cibarsi d’altra forma, d’alimento e niente altro.
Lava i denti del bambino gli diceva a denti stretti

che sia a letto per le nove…

Canto 17

Be careful with every gesture
clear the mobile phone’s memory
that’s the most important before going in

just before inserting the keys in the front door
climbing the stairs
putting on the smile for the evening act

with dinner, the eight o’clock news to come on the telly
the plates filled already and the meal half over
returning with a smile, a hint of a gesture

rejected at once… They ate through the film
eyes looking up at the screen which did help
overcome the time in contact

of shapes side by side
eating another shape, food and nothing else.
Brush the child’s teeth she said to him through clenched teeth

he must be in bed by nine o’clock…

Canto 18

Altre sere era diverso, accadeva che il silenzio fosse rotto
dalle grida, dalle cose manovrate come fossero appendice
e si rompeva quel qualcosa

si rompevano i bicchieri mentre altro proveniva
dal livore che dell’odio era adiacente
che dell’odio aveva forma

come il fiato che si espelle dentro l’aria di dicembre
e altro fiato appena dopo
mentre il bimbo non dormiva, ad occhi fissi rimaneva

con l’ascolto e la paura e non basta neanche l’orso
non bastavano i robot a difendere lo spazio: messi in circolo a vegliare
messi intorno alle lenzuola

non distanti dalle mani…

Canto 18

On other evenings it was different, it happened that the silence was broken
by cries, by a trail of things shifted around
and that something broke apart

that the glasses smashed while something else rose
out of resentment bordering on hatred
and which was like hate

like the way you breathe out in the cold of December
and another breath just after
while the child couldn’t sleep, and stayed, his eyes staring,

listening scared and his teddy bear wasn’t enough,
and his robots weren’t enough to protect his space; on guard set in a circle
set around his bed

just out of reach…

Canto 19

Poi la spesa si contava controllando lo scontrino, controllando
che un errore non venisse addebitato:
la cassiera ci sa fare, batte cose non comprate

e chi paga sono quelli che non hanno l’attenzione
io lo so, io te lo dico che poi passa a ritirare, mette in tasca l’eccedenza
passa in mezzo agli scaffali con la lista delle cose

torna a casa con le borse delle cose che ho pagato.
Lo scontrino controllava fermo fisso a lato cassa
ricontava ogni battuta, lo scontrino in ogni voce con un occhio

alla cassiera che sapeva menzognera.
La guardava di sottecchi con lo sguardo inquisitore, le diceva
a forza d’occhi io lo so che tu mi fotti e controllava anche due volte

poi finito se ne andava, appagato di giustizia che sapeva tutelare…

Canto 19

Next the bill for the shopping gets checked,
checked that nothing’s been charged in error;
the check-out operator is up to it, ringing up items you haven’t bought

people who don’t pay attention, pay for it
I know all about it, I’m telling you she makes on the deal, she pockets the excess
she goes round the shelves with a list of things

she takes home bags of stuff that I’ve paid for.
He stands fixed checking the bill by the cash register
rechecking each item, every line with an eye

on the operator that he knew to be a cheat.
He watched out of the corner of his eye, he told
her by his expression I’m on to your conning me and he checked twice more

then finished at last he went off satisfied that justice had been done.

Canto 20

Certe volte giù al mercato con le mani messe in fila
innalzava il capo eletto, il vero affare che con l’euro si comprava
e non importa se il tessuto, non importa

se il colore è solo roba da cinesi
ciò che importa è che accostato altro stile posso fare: è firmato
si diceva ripetendo il nome oscuro all’etichetta

e comprava con la furia ne comprava ancora sette
di colori e tagli avversi che poi in casa li sistemo
si diceva ripetendo e domenica li indosso, la domenica al passeggio

dalla piazza lungo il corso
con gli occhiali da velina come ha visto alla tivù
con il panta con le trame che ricorda lo stilista e la borsa del natale

quella vera da mostrare con orgoglio e noncuranza. Tutto insieme
era perfetto era emblema di quel gusto che denota un certo stile
lei la moda l’ha imparata, lei la moda la conosce

e camminava con il figlio messo accanto, si fermava
alle vetrine si specchiava ammirandone il riflesso
e più perfetta del servizio da rivista che ha sbirciato al parrucchiere

si guardava mentre il figlio insofferente già tirava
per andare, proseguire o almeno camminare non restare
fermo al sole senza che la mamma guardi che son bravo ripeteva:

posso andare giù al campetto che m’aspettano, gli amici?

Canto 20

Some times at the market, hand over hand,
she picked up the selected goods, the good stuff she bought with her Euros
and it doesn’t matter if the fabric, it doesn’t matter

if the colour is shoddy Chinese
what matters is that using it I can create a different style: it’s got a brand name
she said to herself repeating the unknown name on the label

and she bought eagerly she bought seven versions
in different colours and sizes that I’ll set out at home
she said to herself again and Sunday I’ll wear them on the Sunday walk

from the square and going up the avenue
with the starlet’s sunglasses like she had seen on the telly
and her trousers with the exclusive pattern and a genuine designer shopping bag

one you could show off with nonchalance and pride. The whole ensemble
was perfect was the emblem of the taste which produced a certain style
she has learnt fashion, she knows fashion

and she stepped out with her son by her, she paused
by shop windows and looked at her admiring self in the reflection
and even better than the magazine photo she had glanced at in the hairdresser’s

she kept on looking while her impatient son pulled at her
to move on, to continue or at least to walk and not hang about
standing in the sun and mummy not noticing how good I’ve been and he asked again:

can I go to the football ground, my friends are waiting for me?

Certe cose vanno fatte per trovare il giusto spazio
e serviva i piatti pronti ferma in mezzo alla cucina
con la luce innaturale della lampada a soffitto:

come fosse quella vita un qualcosa passeggero…

Canto 37

Some things have to be done to make enough room
and she got the plates ready and set in the middle of the kitchen
under the artificial light of the lamp in the ceiling

as if this life were something fleeting…

_________________________

Marco Sonzogni*Marco Sonzogni (1971) lives in Wellington, New Zealand. He holds degrees from the University of Pavia (Almo Collegio Borromeo), University College Dublin, Trinity College Dublin, Victoria University of Wellington and the University of Auckland. A widely published academic, he is an award-winning editor, poet and literary translator. He is a Senior Lecturer in Italian with the School of Languages and Cultures at Victoria University of Wellington, where is also the Director of the New Zealand Centre for Literary Translation. His literary translation projects include Swiss-Italian poets (Oliver Scharpf, Alberto Nessi, Pietro De Marchi, Fabiano Alborghetti, Giorgio Orelli), New Zealand poets, and the collected poems of Seamus Heaney (Meridiano).

Fabiano Alborghetti*Fabiano Alborghetti (1970) lives in Canton Ticino, the Italian-speaking region of Switzerland. Besides numerous limited editions and pamphlets (the most recent, Supernova, by L’arcolaio, 2011), he has published collections of his verse: Verso Buda (LietoColle, 2004), L’opposta riva (ibid., 2006), Registro dei fragili, 43 Canti (Edizioni Casagrande, 2009), L’opposta riva, dieci anni dopo (Edizioni La Vita Felice, 2013) and, in translation, Registre des faibles (translated by Thierry Gillyboeuf; Editions d’en bas, Lausanne, 2012) and Directory of the Vulnerable (translated by Marco Sonzogni; Guernica Editions, Toronto, 2014). His poems have appeared in journals and anthologies in over ten languages. As a promoter of poetry, he has published literary criticism in journals as well as online. He founded literary reviews and has designed literary features, events and programmes for the radio, for prisons, schools and hospitals. He is the Swiss artistic director for the festival PoesiaPresente. Sponsored by the Swiss Arts Council, Pro Helvetia, and by the Swiss Federal Department of Foreign Affairs, he has represented Switzerland and the Italian language at literary festivals worldwide.  www.fabianoalborghetti.ch


Mario Luzi, Natura-Nature

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photo by Alina Savin

photo by Alina Savin

Alina Savin (2)

photo by Alina Savin

Translated by Theodore Ell* and Marco Sonzogni*

Natura

La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare
più giocondo
per la veloce fiamma
dei passeri
e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto
che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l’amore.

Alina Savin (3)

photo by Alina Savin

Nature

The earth and with her in unison the sea
and above everywhere
a sea more joyful
for the quick flame
of sparrows
and the path
of the soothing moon and of the sleep
of sweet bodies half-closed to life
and death on a field;
and for those voices that come down
eluding mysterious doors and leap
above us like birds crazy to return
above the original islands singing:
here is made
a resting place of purple and a lulling
song
for those who could not sleep
so hard was the stone,
so sharp the love.

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May 2013 007*Theodore Ell earned a doctorate in Italian at the University of Sydney in 2010, with a thesis on the Second World War poetry of the Florentine Piero Bigongiari, a member of the terza generazione of ermetici. Theodore’s main interests are the philology and history of modern Italian poetry, with an emphasis on ermetismo as a voice for Italy’s emotional and existential conflicts, and with special attention to poets’ personal philosophies, aesthetic evolution and working processes. He has conducted primary research in archives in Florence, Pistoia, Pavia, Siena, Pienza and Milan, transcribing the unpublished manuscripts and correspondence of Piero Bigongiari and contemporaries Mario Luzi, Alessandro Parronchi and Alfonso Gatto, among  others. His monograph A Voice in the Fire: Piero Bigongiari’s Poetry of War and Survival will be published in 2013-2014 by Troubador. Theodore also translates Italian literature and has produced English editions in the genres of Italian travel writing, philosophy, narrative prose and Enlightenment science. His own poetry has been published by The Sydney Morning Herald and Sydney University Press. In 2012 he completed a Masters degree in Publishing, accredited by the Australian Publishers’ Association. Theodore is Poetry Editor of the biannual magazine of international writing Contrappasso. He is a Socio accademico corrispondente (Academic associate member) of the Accademia Pistoiese del Ceppo.

Marco Sonzogni*Marco Sonzogni (1971) lives in Wellington, New Zealand. He holds degrees from the University of Pavia (Almo Collegio Borromeo), University College Dublin, Trinity College Dublin, Victoria University of Wellington and the University of Auckland. A widely published academic, he is an award-winning editor, poet and literary translator. He is a Senior Lecturer in Italian with the School of Languages and Cultures at Victoria University of Wellington, where is also the Director of the New Zealand Centre for Literary Translation. His literary translation projects include Swiss-Italian poets (Oliver Scharpf, Alberto Nessi, Pietro De Marchi, Fabiano Alborghetti, Giorgio Orelli), New Zealand poets, and the collected poems of Seamus Heaney (Meridiano).


Il furbesco letterario: un problema aperto

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di Antonello Fabio Caterino*

Il Frontespizio del Nuovo modo

Il Frontespizio del “Nuovo modo”

«Lo studio del gergo può divenire qualcosa più che una semplice ricerca di curiosità erudita»: così Rodolfo Renier nei suoi Svaghi critici concludeva il suo saggio sull’antico furbesco[1] , che – per quanto non privo di imprecisioni – è un nodo cruciale (e spesso sottovalutato) per lo studio di tale lingua. Il  furbesco, detto anche semplicemente gergo o lingua zerga, era la lingua utilizzata storicamente   dai furbi[2], e cioè dei vagabondi, dei ladruncoli, di coloro che dovevano giorno dopo giorno aguzzare l’ingegno per sopravvivere, ed hanno avuto per questo chiaramente bisogno di cifrare la loro comunicazione. Per di più, a seconda delle categorie di pitocchi, il gergo oscillava, pur conservando una struttura più o meno stabile. Alcuni gerghi sono giunti alle soglie del ventesimo secolo, altri sembra  abbiano lasciato tracce nei dialetti e nelle parlate locali, ma per determinare con maggior precisione le cronologie servono ancora studi approfonditi. Il funzionamento di tale linguaggio è in teoria semplice: il gergo per lo più conserva grammatica e sintassi del volgare, mentre ne stravolge completamente il lessico, criptando il significato di nomi, aggettivi e verbi, non senza creare espressioni complesse, usate in sostituzione dei termini originari.Si prenda, ad esempio, il campo semantico del sostantivo Dio. Nell’antico furbesco Dio si dice sant’Alto, il sole è detto ruffo di sant’Alto (ruffo sta per fuoco), mentre la luna è la mocolosa di sant’Alto (mocolosa è la candela); il cielo è il cosco di sant’Alto (cosco si traduce casa), mentre gli angeli sono detti calcagni di sant’Alto (calcagno è compagno). Il sole diventa dunque il fuoco di Dio, la luna la sua candela, il cielo la sua casa, gli angeli i suoi compagni. Pur di oscurare il lessico, il furbesco non teme certo complicazioni. La tradizione ci tramanda alcuni dizionari, ovvero liste di parole appartenenti ai vari gerghi antichi tradotte in italiano. Si aggiungono a ciò diversi repertori lessicografici, ricostruiti in epoca recente, inerenti a gerghi sopravvissuti nel tempo e spesso legati a luoghi specifici e specifiche professioni.[3]. Eppure, nonostante tramite questi repertori sia possibile interpretare i testi in furbesco conservati dalla tradizione, la maggior parte degli studi focalizzano principalmente sulla formazione del lessico e sul funzionamento prettamente linguistico di tale linguaggio[4], senza dare il giusto spazio ad un aspetto interessantissimo e fondamentale: l’uso letterario e poetico del gergo (specialmente in ambiente rinascimentale). Gli approfonditi studi linguistici non sono, dunque, controbilanciati da altrettanti contributi critico-letterari. A questo proposito, non può essere ignorato ulteriormente il canzoniere contenuto nel codice Modena BEU Campori γ.X.2.5, forse il più grande esperimento poetico interamente costruito in furbesco, di cui al momento non esistono edizioni o commenti di sorta. Antonio Brocardo, all’inizio del cinquecento, è di certo l’autore di quel fortunatissimo libretto anonimo, dalla tradizione assai complessa, intitolato Nuovo modo de intendere la lingua zerga, vocabolario volgare-furbesco e furbesco-volgare comprensivo di alcuni componimenti poetici esemplari, esaminati ed interpretati da Franca Ageno[5]. Non è certo il primo ad aprire la propria produzione letteraria a toni ed inserti fuberschi, ma  – come si evince dallo stesso titolo –  il suo è di certo un approccio innovativo verso il gergo: rendere la lingua zerga un vero e proprio linguaggio poetico, col quale costruire interi componimenti o addirittura canzonieri.

I testi poetici presenti nel Nuovo modo sono traditi anche dal manoscritto Campori, contenente a sua volta una raccolta di lemmi furbeschi ed un intero canzoniere in lingua zerga. Se è complesso stabilire il rapporto filologico tra il libello e il manoscritto per quanto riguarda la parte lessicografica, è impossibile non notare in quest’ultimo due sonetti  polemici nei confronti di Pietro Aretino, col quale Brocardo fu coinvolto in una pesante querelle nel 1531. Per di più i componimenti sono tutti stilisticamente e linguisticamente simili, tanto da far pensare ad un unico autore. Non sarebbe, dunque, così azzardato attribuire l’intero canzoniere alla persona di Antonio Brocardo. Ciò premesso, leggere un sonetto del canzoniere Campori non è di certo leggere un testo, per esempio dello Strazzola[6], con qualche lemma gergale, ma comunque d’impianto volgare: ci si trova di fronte ad un componimento integralmente costruito in furbesco, dove le allusioni e i prestiti lessicali cedono il passo ad una composizione pensata e scritta totalmente in gergo. Questo è il primo sonetto contro Pietro Aretino.

La ludovica calca vil baccone
masca che il capuan Pietro Aretino
con il suo canzonar vago e divino
l’altri fama imbrunisca da Marone.

Amor, perchè il cavato e ver dragone
d’ogni osmo di campagna pellegrino
fratengamente travaglia e il lodesino
al sfoglio di grandi s’il rippone.

Però di salso lui canzona e frappa
di maggi soi ch’hanno già smarrita
la calca d’ogni virtude e fatti goi.

Acciò ch’a più fratenga et onta vita
ritrucchi ognun li loffiosi suoi
errori imbianca con la mista unita.

Pisanello - studio per impiccati

Pisanello – studio per impiccati. I vagabondi rischiavano spesso di “andare in Picardia” (finire impiccati).

La traduzione dovrebbe essere, all’incirca, questa: La brutta gente dice che, coi suoi versi alti e delicati, Pietro Aretino, quel porco, oscuri ogni altro, quasi fosse Virgilio. Amore, tieni però presente che il buon dottore è al servizio di ogni uomo, mentre quello malvagio è al soldo dei ricchi. Eppure quello canta solo i suoi signori, che da tempo hanno smarrito ogni virtù cristiana. Si ritorni, ordunque, a vita migliori: ognuno riconosca i suoi errori.[7] Come è chiaramente visibile la quasi totalità del lessico è di natura gergale, eppure è possibile affrontare una traduzione soddisfacente. Ad oggi, a parte i testi presenti anche nel Nuovo modo (traduzioni però solo funzionali alla descrizione della semantica gergale), nessuno ha mai pensato di tradurre il canzoniere in questione. È vero che i vari dizionari d’antico furbesco, presi singolarmente, non contengono tutte le entrate necessarie per ricostruire il testo da cima a fondo, eppure usando tutti i repertori in nostro possesso sinotticamente possono essere sanate non poche lacune[8]; ciò che rimane può essere semplicemente dedotto analizzando i meccanismi di creazione lessicale del gergo, ampiamente studiati.  E’ possibile, per di più, sfruttare le raccolte lessicografiche dei gerghi più recenti, poiché comunque sono evoluzioni di linguaggi precedenti. Essendo, per di più, il gergo per eccellenza la lingua dei vagabondi, per quanto si possa specializzare come linguaggio professionale o locale, un minimo di struttura comune è logicamente la conserva. Nel sonetto succitato, per esempio, ci si imbatte nel termine loffo, che in buona parte dei gerghi conosciuti significa brutto, cosa brutta, ma che è assente dal Nuovo modo. Nello Speculum cerretanorum di Teseo Pini, altro dizionario di gergo in nostro possesso, tradito dal Codice Vaticano Latino 3486 (cc. 72v-77v), il termine loffedate è tradotto malum. Il termine loffio è poi anche attestato nel gergo fiorentino, e dei vagabondi e della malavita, sempre indicante qualcosa di brutto o turpe. In conclusione, tradurre il canzoniere Campori e ricercare altri testi scritti totalmente in antico gergo (se il Nuovo modo ha avuto una così grande fortuna, questi tipi di composizioni non dovevano essere poi così isolate) potrebbero essere un primo passo per restituire all’antico un giusto spazio poetico e letterario, oltre che storico-linguistico, nel panorama storico della letteratura italiana.


• Questo breve contributo non ha affatto la pretesa di risolvere una questione letteraria di ampia portata; va considerato – piuttosto – come un momento di riflessione teorica, che tracciando uno status quaestionis, si prepara ad affrontare, nel prossimo futuro, il problema con ordine e metodo.

[1] R. Renier, Svaghi Critici, Bari, Laterza, 1910 pp. 29-30 (liberamente consultabile all’indirizzo http://tinyurl.com/cfcx2f7 ).

[2] Cfr. l’etimologia gergale dell’aggettivo furbo all’interno del Vocabolario Online Treccani (http://tinyurl.com/chelxwv).

[3] Raccoglie magistralmente i corpora lessicali traditi sull’uso del’antico furbesco P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1973. Molti vocabolari utili, di gerghi antichi e recenti, sono comunque disponibili online all’indirizzo http://tinyurl.com/cef2jxy

[4] Ripercorre i vari studi L. Cerretini, Il gergo nella letteratura del Cinquecento: definizione e nota storica http://tinyurl.com/d43x5u8

[5] Cfr. F. Ageno, A proposito del “Nuovo Modo de intendere la lngua zerga”, Giornale storico della letteratura italiana, 135, 1958, pp. 370-391,  Un saggio di furbesco del Cinquecento“, Studi di filologia italiana, 17, 1959, pp. 221-237 e  Ancora per la conoscenza del furbesco antico, Studi di filologia italiana, 18, 1960, pp. 79-100.  Per quanto riguarda la tradizione del novo modo rimando a A.F. Caterino, Nuovo modo de intendere la lingua zerga, scheda TLIon, http://tinyurl.com/bn6g57j

[6] Cfr. V. Rossi, II canzoniere inedito di Andrea Michieli detto Squarzola o Strazzola in Giornale storico della letteratura italiana, n. 26, 1895, pp. 1-91. Il testo è interamente disponibile online all’indirizzo http://tinyurl.com/nvltl9q

[7]    Traduzione  di chi scrive.

[8] Un ottimo esempio di armonizzazione di quanto trasmessoci dalla tradizione lessicografica furbesca è l’opera di Marco Bassi, interna ad un sito internet utilissimo e davvero ben fatto sui gerghi italiani. Il tutto è consultabile, tra l’altro, in pdf (http://tinyurl.com/ozdwz2l).

____________________________

s200_antonello_fabio-caterino*Antonello Fabio Caterino   (San Giovanni Rotondo, 10/12/1988) è attualmente dottorando di ricerca presso la Scuola Dottorale Internazionale di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Laureato alla Sapienza, con due tesi (triennale e specialistica) riguardanti la tradizione poetica umanistica e rinascimentale, ha scritto contributi su Antonio Brocardo, argomento del suo progetto dottorale, e Tito Vespasiano Strozzi.  I suoi campi di interesse includono la storia intellettuale rinascimentale, la filologia umanistica e le digital humanities, con particolare riferimento al rapporto tra ricostruzione del testo e nuove tecnologie, come dimostrato dal progetto «Filologia – Risorse informatiche» (http://tinyurl.com/ch84t7a), da lui ideato e curato.


Poetry That Doesn’t Let Go: The Rhymes and Reasons of Paolo Febbraro

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Translated by Marco Sonzogni and Theodore Ell

Paolo Febbraro (foto)Paolo Febbraro has a very distinct and very strong voice. Reading his poetry is like looking at painting whose contours and characters become more defined and captivating the more one steps away from it. Febbraro draws one in deeper each time, his thoughts and his words seizing the reader’s attention like an unforgiving elastic band of meanings, allusions, questions, answers. The third poem in this short sequence from his remarkable debut collection ends with a question: “Can you hear me?” The translators could hear him loud and clear – and, hopefully, have managed to respond to such a beguiling and demanding voice. [Marco Sonzogni].

****
Paolo Febbraro*
«Disse la voce»
da Il secondo fine, Milano, Marcos y Marcos 1999

Disse la voce:
«Sono colui che tolse
il senno a Kant
e gli occhi a Omero.
Fui io che volli incerti
i tratti
al padre di Amleto,
son io la febbre irresponsabile
che colse Alessandro,
il sogno felice
che scatenò Attila
e lo sguardo traverso
che tradì Orfeo.
I piani di battaglia
sussurrai
al vincitore di Waterloo,
Leonardo tormentai
col più folle degli amori.
Con sfavillio di fuoco
persi nel buio
ad Alessandria
secoli di parole,
corsi
sulle trentatré lame
che vollero rosse e famose
le idi di marzo.
Per invidia ho operato
con fredda intelligenza.
Ora me ne vado
in un luogo né bianco né nero
al riparo da ogni profumo
e da ogni pensiero».
«Dèmone, vipera, serpe,
debole amante del nulla,
a te sia dato, infido,
l’irrevocabile oblio».
«Non chiamarmi diavolo,
uomo. Sono Dio».

«Non vi saranno altre voci.
Già sorge il sole e cancella
Nell’aria i resti dell’incubo
che pure fu cena, parole e mani.
Altri giocheranno sulla rima
capovolta fra sepolcro e ascensione,
fra morte propria e sua resurrezione.
Voi liberatevi dalla salvezza.
Risorge a tempo il sole e vi cancella
con bianche dita l’aspra tenerezza».

E all’ultima porta,
al penultimo passo,
quando ancora il pensiero
se spunta ha un dove per ritornare,
un attimo prima che il cielo
si sveli per sempre o si copra
non lo daresti un seme
dellatua eternità
per ritornarci sopra,
non cercheresti il fiato
per poche parole diminuite
tipo buongiorno quattro tre sì d’accordo mi
sentite?

*
The voice said:
“I am the one who sent
Kant insane
and Homer blind.
It was I who willed
undefined
the features of Hamlet’s father,
I am the reckless fever
that seized Alexander,
the happy dream
that let loose Attila
and the backward glance
that betrayed Orpheus.
I whispered
the battle plans
to the victor at Waterloo,
I tormented Leonardo
with the most deranged love.
With twinkling of fire
I lost to the darkness
in Alexandria
centuries of words,
I ran
along the thirty-three blades
that willed the Ides of March
red and famous.
Out of envy I have worked
with cold intelligence.
Now I am going away
to a place neither white nor black
sheltered from every scent
and every thought.”
“Demon, viper, serpent,
weak lover of nothing:
irrevocable oblivion
be granted you, perfidious one.
“Do not call me devil,
man. I am God.”

“There will be no other voices.
The sun is already rising and erases
from the air what is left of the nightmare
that was, too, supper, words, hands.
Others will play on the overturned
rhyme between sepulchre and ascension,
between one’s death and the resurrection.
Free yourselves from salvation.
Timely, the sun is rising and with white
fingers erases tart tenderness from you.”

And at the last door,
at the last step but one,
when thought, if it comes up,
still has somewhere to go back to,
a moment before the sky
forever reveals or covers itself,
wouldn’t you give one seed
of your eternity
to go over it again,
wouldn’t you search for breath
for a few diminished words
like good morning four three yes right can you
hear me?

_________________________________________________

*Paolo Febbraro, born in Rome in 1965, is a poet and essayist. He works as a teacher in secondary schools. His first collection was Disse la voce [The voice said], which was included in the collected volume Poesia contemporanea. Quarto quaderno italiano edited by Franco Buffoni [Contemporary Poetry: Fourth Italian Notebook, Guerini e associati, 1993]. His verse collection Il secondo fine [The second ending, Marcos y Marcos, 1999] was awarded the Mondello prize for a first full-length work. There followed the short mixed collection of poems and prose Il Diario di Kaspar Hauser [The Diary of Kaspar Hauser, L’Obliquo, 2003] and Il bene materiale [Material good, Scheiwiller, 2008]. More recent is the small edition Deposizione [Deposition, Lietocolle, 2010], which in part anticipates the new poetry collection Fuori per l’inverno [Out for winter], to be published soon. Febbraro’s poems have been translated into English, French and Spanish. As an essayist, he has edited the collection Poeti italiani della «Voce» [Italian Poets of «La Voce», Marcos y Marcos, 1998] and a large anthology of Critica militante [Militant criticism, Istituto Poligrafico dello Stato, 2001]. From 1995 he was an assistant editor and from 2006 chief editor of the Annuario Critico di Poesia [Critical Yearbook of Poetry] founded by Giorgio Manacorda, the latest volume of which appeared in 2012. He has published the monographs La tradizione di Palazzeschi [The tradition of Palazzeschi, Gaffi, 2007], Saba, Umberto [Gaffi, 2008] and Primo Levi e i totem della poesia [Primo Levi and the totems of poetry, Zona Franca, 2013]. His most important critical work, however, is L’idiota. Una storia letteraria [The Idiot: a literary history, Le Lettere, 2011], a large historical survey which identifies in numerous major works of the Western tradition the figure of the outsider, from the Greeks to the Twentieth Century. Also in 2011 he published the short e-book Perché leggere poesia a scuola [Why read poetry at school?, Garamond]. He is preparing another short monograph intitled Caproni scrittore [Caproni the writer]. A long-time collaborator on «Manifesto», he works primarily in literature and in particular for the cultural pages of «Sole 24 ore».

Marco SonzogniMarco Sonzogni (1971) lives in Wellington, New Zealand. He holds degrees from the University of Pavia (Almo Collegio Borromeo), University College Dublin, Trinity College Dublin, Victoria University of Wellington and the University of Auckland. A widely published academic, he is an award-winning editor, poet and literary translator. He is a Senior Lecturer in Italian with the School of Languages and Cultures at Victoria University of Wellington, where is also the Director of the New Zealand Centre for Literary Translation. His literary translation projects include Swiss-Italian poets (Oliver Scharpf, Alberto Nessi, Pietro De Marchi, Fabiano Alborghetti, Giorgio Orelli), New Zealand poets, and the collected poems of Seamus Heaney (Meridiano).

May 2013 007Theodore Ell earned a doctorate in Italian at the University of Sydney in 2010, with a thesis on the Second World War poetry of the Florentine Piero Bigongiari, a member of the terza generazione of ermetici. Theodore’s main interests are the philology and history of modern Italian poetry, with an emphasis on ermetismo as a voice for Italy’s emotional and existential conflicts, and with special attention to poets’ personal philosophies, aesthetic evolution and working processes. He has conducted primary research in archives in Florence, Pistoia, Pavia, Siena, Pienza and Milan, transcribing the unpublished manuscripts and correspondence of Piero Bigongiari and contemporaries Mario Luzi, Alessandro Parronchi and Alfonso Gatto, among  others. His monograph A Voice in the Fire: Piero Bigongiari’s Poetry of War and Survival will be published in 2013-2014 by Troubador. Theodore also translates Italian literature and has produced English editions in the genres of Italian travel writing, philosophy, narrative prose and Enlightenment science. His own poetry has been published by The Sydney Morning Herald and Sydney University Press. In 2012 he completed a Masters degree in Publishing, accredited by the Australian Publishers’ Association. Theodore is Poetry Editor of the biannual magazine of international writing Contrappasso. He is a Socio accademico corrispondente (Academic associate member) of the Accademia Pistoiese del Ceppo.


La vita in versi al Teatro di Gualtieri (con dossier fotografico)

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ARizzi_Teatro_Gualtieri_05di Guido Monti*

La rassegna La vita in versi, ha ricercato il contatto con una poesia capace di saper interrogare in profondità i tempi incerti che viviamo. Ecco l’interrogazione che i poeti ci pongono, è molto varia per parlato, tono, approccio verso le cose del mondo, ma sempre capace di fornirci degli strumenti autentici di interpretazione del reale; ci sorprende altresì per l’emotività profonda che sembra venire da vissuti eterogenei, territorialmente distanti ma così univoci nel trasmettere quello scarto di senso proprio del poetico rispetto alla lingua comune. Ciò che la lingua non sa esprimere nel senso di una non definizione logica, non rappresentazione materiale o mentale o empirica, lo fa la poesia. Il suo proprio è l’alterità di senso. E mi piace ricordare ancora cosa diceva Mallarmè: “la poesia corregge i difetti della lingua”. La lingua che noi parliamo e scriviamo, ha dei difetti che possono essere quelli dell’ambiguità, falsificazione o incomprensibilità. Alcuni dicono che la poesia, in quanto poesia, sia ambigua ma se così fosse, sarebbe linguaggio comune ma “non c’è bisogno di nessun linguaggio poetico per praticare l’ambiguità o l’ambivalenza”. Ecco allora che nella società dell’approssimazione linguistica, del kitsch esasperato, dello zapping nevrotico mass mediologico, dell’homo videns, riprendendo il titolo del libro di Giovanni Sartori uscito nel 2000 per Laterza, dove appunto si dice che “nella nostra società, il visibile prevale sull’intelligibile; la capacità di astrarre, di capire e dunque di distinguere tra vero e falso è oramai atrofizzata..”, la parola precisa, la parola che non vuole consolarci ma porci davanti al “reale veramente assoluto”, che non vuole adularci, che non è istrionica, e ci invita perentoriamente a cambiare dopo averla “sentita”, è quella più antica e mirabilmente più nuova: la poetica. E di fronte alle magnifiche sorti e progressive del moderno, dove tutto è misurabile, calcolabile, la vera poesia, e qualsiasi altra seria forma d’arte, è un fare invece senza alcuna garanzia, senza protezione, “in terra straniera, là dove non mi portò alcun seno materno” ci ricorda Rainer Maria Rilke con parole folgoranti ed ineluttabili.

gianpiero neri-massimo raffaele

gianpiero neri-massimo raffaele

giampiero neri

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bertoni-annino

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cristina annino

maurizio cucchi

maurizio cucchi

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milo de angelis

milo de angelis

fine evento del 15 maggio 2013

fine evento del 15 maggio 2013

antonio riccardi

antonio riccardi

veduta teatro

veduta teatro

LA VITA IN VERSI. Cinque serate di grande poesia italiana

progetto e direzione artistica
Veronica Costanza Ward e Guido Monti
organizzazione
Associazione Culturale “La parola, il verso”

Programma
8 maggio 2013 – Poesia italiana
Omaggio a Giampiero Neri
dialogherà con l’autore
Massimo Raffaele

15 maggio 2013 – Poesia italiana
Cristina Annino
Maurizio Cucchi
Milo De Angelis
Vivian Lamarque
introduce
Alberto Bertoni

22 maggio 2013 – Poesia italiana
Alba Donati
Antonio Riccardi
Gian Mario Villalta
introduce
Roberto Galaverni

29 maggio 2013 – Giovane poesia italiana
Carlo Carabba
Lucrezia Lerro
Alberto Pellegatta
Laura Pugno
introduce
Guido Monti

5 giugno 2013 – Poeti per l’Emilia
Alberto Bertoni
Emilio Rentocchini
Stefano Simoncelli
Emilio Zucchi
introduce
Roberto Galaverni

guido monti

*Guido Monti è nato a San Benedetto del Tronto nel 1971. Laureatosi a Bologna, nel 2007 pubblica Millenario inverno (book editore) il suo primo libro, con postfazione di Alberto Bertoni, finalista ad Orta S.Giulio; esce nel 2008 una sua plaquette fuori commercio dal titolo Eri Bartali nel gioco per le Grafiche Fioroni a cura di Eugenio De Signoribus. È presente nell’Almanacco dello specchio a cura di M.Cucchi e A.Riccardi (Mondadori, 2009). Collabora con la Gazzetta di Parma e ai blog poesia del corriere della sera e di rai news24



Perché la fiaba (con due testi dell’autore)

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di Rosa Tiziana Bruno*

La fiaba ci salverà dai nuovi barbari (Tolkien)

Illustrazione di Francesca Reinero.

Illustrazione di Francesca Reinero.

La fantasia è il diritto di modificare la propria vita, un diritto per il quale ognuno di noi dovrebbe battersi. Tuttavia, essa viene spesso confusa con l’illusione e, per tale motivo, repressa e mortificata.  Eppure la fantasia è tutt’altro che illusione. È un’attività umana razionale, fondata sulla consapevolezza della realtà e sul rifiuto di divenirne prigionieri. Senza fantasia non potrebbe esistere il desiderio, ma soltanto la brama, ovvero quell’avidità incontenibile e smodata che ci costringe ad un’insoddisfazione perenne, rendendoci schiavi. Il luogo privilegiato dove la fantasia trova maggiore espressione è la fiaba, che non riguarda il possibile, ma il desiderabile. La fiaba è la creazione di un mondo in cui il desiderio riesce ad aprirsi un varco nell’aspro destino dell’esistenza[1], una miniera di creatività collettiva. Per tale ragione essa risulta affascinante ed attraente da sempre. Eppure, forse per il medesimo motivo, la fiaba ha subìto molti attacchi negli ultimi tre secoli, ovvero da quando è diventata letteratura. Attacchi che si sono rafforzati man mano che il sistema sociale ha sposato l’idea di una realtà naturale intoccabile, alla luce di un razionalismo sfrenato che impone di adeguarsi alla realtà così com’è.
La creatività è in apparenza scomoda: «Nella comoda artificialità della nostra vita, i nostri poteri creativi si sono atrofizzati», afferma Wendy Griswold.[2] Il racconto fiabesco rompe con ogni comodità poiché evidenzia la realtà senza censure, anche nei suoi aspetti peggiori e meno accettati dalla società. La fiaba, con la sua trama regolata da leggi minuziose, ci pone a contatto con la verità e proprio per questo ci consente di allontanarci da essa per riscoprirla e reinventarla, mostrandoci che è possibile ribaltare il nostro mondo interno, risvegliare il desiderio, ricrearlo e  soddisfarlo. Pensiamo  alla storia di Cenerentola, che ha fatto il giro del mondo nei suoi tremila anni di vita, proprio in quanto sintesi della capacità prodigiosa del desiderio. La protagonista vive intrappolata in un destino avverso, ma possiede il dono di saper desiderare ardentemente, vive il suo desiderio come magico abbandono, traendo da esso forza e idee.
In tutte le fiabe, inoltre, c’è sempre spazio per l’assurdo, ma ciascun personaggio, anche quello più bizzarro segue una sua logica. Infine, in ogni fiaba è racchiusa una chiave magica, ovvero la possibilità di essere liberi, attraverso il desiderio. Il desidero più antico e profondo è la sconfitta della Morte. Nelle fiabe vi sono un gran numero di esempi e forme diverse di tale desiderio. Esse sono un’ottima palestra per allenare il cervello e le emozioni, per comprendere meglio se stessi e il mondo.

Gli adulti e la fiaba
Un’idea molto diffusa è che la fiaba appartenga alla “Letteratura per l’infanzia”. In realtà la fiaba non è nata per i bambini, ma piace loro solamente per una questione di corrispondenza emotiva.[3] La trama fiabesca, infatti, non è un testo semplice, poiché richiede la comprensione di diversi livelli di significato riguardanti la storia, le qualità caratteriali dei personaggi e altro.
Del resto basti pensare alle sue origini per capire come essa non fosse destinata all’infanzia. La fiaba non è altro che il materiale grezzo delle leggende popolari incastonato in trame narrative articolate. Tali leggende erano ovviamente racconti per un pubblico adulto. A partire dall’Alto Medioevo, queste storie vennero trasmesse ai figli dei nobili mediante i racconti dei contadini a servizio nelle loro case, che descrivevano la vita della povera gente, le credenze, le paure, il modo di immaginare i re e i potenti. Sul finire del 1600 i nobili cominciarono a manipolare quei testi con la loro fantasia[4] e a pubblicarli. Fu allora che la fiaba popolare divenne letteratura creata dagli adulti per gli adulti.[5]
La letteratura fiabesca possiede una qualità che nessun’altra forma letteraria detiene, ovvero offre l’opportunità di indagare temi profondissimi con estrema leggerezza. Questo significa che riesce a farci scendere nel nostro inferno, ci aiuta a risalire, evitando di essere sopraffatti dall’angoscia  durante il viaggio narrativo. Gli adulti non hanno mai smesso di aver bisogno delle fiabe, per questo motivo frequentano i cinema e si abbandonano alla pubblicità, alimentatrice di sogni ingannatori. Tuttavia di questo bisogno non hanno sempre  piena consapevolezza.

I nuovi barbari
L’umanità ha realizzato una serie di progressi straordinari, inoltre ci vengono ancora promesse scoperte e novità assolutamente grandiose. Ma questo favoloso progresso avanza con un sottofondo di infelicità, di tristezza e di rabbia latente. Non a torto, la nostra è stata definita l’“epoca delle passioni tristi”. Un forte sentimento di insicurezza e di vulnerabilità accompagna l’esistere. Il futuro spaventa, invece di incuriosire. Le cose sconosciute hanno mille declinazioni: dalla paura dello straniero a quella del diverso, fino ad arrivare al timore delle proprie emozioni. Davanti alle cose mai affrontate si è generalmente disarmati. Ed ecco i nuovi barbari: gli insicuri cronici. Coloro che avanzano senza avanzare, in una condizione di timore rispetto alla vita.

2

Illustrazione di Marta Farina

Per quale motivo definirli barbari? Semplice, perché la paura paralizza la civiltà e la fuga diventa la reazione dominante. Si fugge a gambe levate dalla propria insicurezza. I moderni barbari si affidano ai consumi, soprattutto di tipo tecnologico, illudendosi di trovare in essi l’aiuto necessario per risolvere le difficoltà del percorso. Eppure la tecnologia e il mercato non possono medicare la sofferenza globale che ci investe. Non resta che sviluppare un meccanismo difensivo di chiusura per evitare il rischio, rintanandoci in noi stessi, nella paura. Succede che vengono fuori personalità sostanzialmente ansiose, che preferiscono non crescere, molto limitate nella loro capacità di far fronte al mondo. Non reggono neanche una minima frustrazione e schiantano. Oggi quasi nessuno accetta i limiti, perché ogni limite può essere superato comperando o consultando l’esperto che sa come risolverlo. I nuovi barbari diventano preda di questo meccanismo della ricerca ossessiva di sicurezza e diffondono la paura dello “sconosciuto”.
E in questo clima vengono educati i bambini, con tale contraddizione interna, con il sentimento della paura  e della perdita. Insicurezza, precarietà e paura: questa sembra essere la formula dominante della vita quotidiana. Paura di perdere quel che si possiede,  soldi, salute e affetti. La fiaba allora diventa un ponte prezioso che consente di passare dal conosciuto allo sconosciuto, senza angoscia, ma con curiosità, restando guardinghi, ovvero non completamente sconsiderati, ma senza farsi bloccare dal terrore. Collegare le sicurezze acquisite con l’ignoto. Questo “passaggio” è l’elemento trasversale delle fiabe che va la di là dei continenti e delle culture. Non a caso Gianbattista Basile conclude una delle novelle, nel suo Lo cunto de li cunti, con la massima: «Chi ‘ntroppeca, e non cade, avanza de cammino» (Chi inciampa e non cade avanza nel cammino). [6]
La fiaba è utile, dunque, anche a noi adulti, perché ci sgancia da meccanismi che rappresentano la rinuncia ad evolverci, a costruire altri pensieri. Dal conosciuto allo sconosciuto c’è di mezzo la foresta, le prove, però c’è anche la possibilità di trovare cose che prima non possedevamo.
Dentro la fiaba si snoda il sentimento della costruzione graduale di un percorso. I protagonisti fanno molta fatica: camminano sotto le tempeste, attraversano i mari, affrontano bestie feroci. Non stanno fermi a girarsi i pollici, conquistano ciò che desiderano. Nel nostro immaginario attuale la fatica è spesso collegata alla sofferenza. Ma è una connessione errata. La fatica produce endorfine e può risultare perfino piacevole, se spendiamo energia nelle cose in cui ci riconosciamo. L’ansia del risultato è un problema del nostro tempo, ed è proprio quest’ansia che trasforma la fatica in sofferenza, quando invece dovrebbe essere soprattutto orgoglio e slancio. La nostra società, soprattutto quella del Nord del mondo, ha dimenticato il vero senso della fatica,  che è una tappa indispensabile del percorso umano. Le fiabe, invece, ci raccontano che ad un certo punto bisogna svezzarsi e faticare e che questo può anche essere piacevole.[7]

Fiaba e magia
La magia che tutte le fiabe del mondo raccontano è quella del cambiamento. Cos’è un incantesimo se non una trasformazione radicale? Mentre accadono eventi di ogni genere, il protagonista si trasforma, diventa qualcos’altro e riesce poi a modificare il mondo esterno. Il nuovo, però, non è ben accetto nella società attuale che anzi mette in atto una perenne manovra difensiva nei suoi confronti. Il diffuso sentimento di insicurezza ci priva di molte esperienze. L’unico cambiamento vagamente accettato è quello di tipo omeostatico, ovvero trovarsi davanti ad un problema e riuscire a tornare indietro e ripristinare la situazione precedente. Ma se Cappuccetto Rosso fosse tornata a casa e non avesse incontrato il lupo, non avrebbe imparato niente. La fiaba è un paradigma dei passaggi evolutivi dell’essere umano. Se tutto funziona sempre e solo com’era, non si impara nulla, si vive nella stagnazione. Quando un equilibrio si spezza, quando una situazione diventa complessa, c’è l’occasione per cambiare.

Illustrazione di Daniela Giarratana

Illustrazione di Daniela Giarratana

La fiaba non ci illude che tutto vada bene subito, non è come la pubblicità. La differenza tra le immagini di cui siamo nutriti ogni giorno e l’immaginario che invece possiamo alimentare con la fiaba è enorme. Nella pubblicità le difficoltà sono già risolte, nella fiaba, invece, alla presentazione del problema segue il cammino verso la soluzione. All’inizio il protagonista vive un momento complesso, perdendo i suoi riferimenti,  ma non aspetta che il mondo gli porti a domicilio quel che gli piace, piuttosto si attiva per conquistarlo. Tutto questo insegna una differenza: lo scarto tra la disperazione e la speranza. Al protagonista tocca fare delle scelte. La casina illuminata o il buio della foresta? Per fortuna ci sono anche gli aiutanti e arrivano le risorse, ma anch’egli si considera in qualche modo capace: non sa se porterà a termine il compito, ma è capace di iniziarlo. E allora c’è il passaggio, tra la vecchia immagine di protagonista inadeguato e la nuova immagine di “capace di”.
Nelle fiabe succede che appena l’eroe si confronta con le sue paure, incontra gli alleati, dalla buona vecchina alla fata, così la storia insegna che nel momento in cui riusciamo a vedere i nostri limiti, vengono fuori delle possibilità risolutive. Ciò che può salvarci, dunque, non è fuori, ma dentro di noi. Ecco cos’è la magia presente nelle fiabe: la magia del cambiamento possibile.

Il finale delle fiabe
Le fiabe in realtà non possiedono un vero finale. Quello che comunemente viene chiamato “lieto fine” non è altro che un improvviso capovolgimento felice, che possiede un forte potere consolatorio. Ma tale capovolgimento avviene quasi miracolosamente e dunque, per tale ragione, contiene un monito: non si può contare sul suo ripetersi di frequente.Nessuna fiaba nega l’esistenza del dolore e del fallimento e, dunque, l’esito felice non rappresenta affatto una gioia evasiva. In buona parte delle fiabe addirittura il lieto fine viene ignorato. Però, anche in quel caso, ogni apparente sconfitta è l’espressione di una catarsi liberatoria, o addirittura, in alcuni casi, di un malinconico trionfo.

La fiaba mediatica
Cosa sta accadendo alla fiaba nel panorama attuale? Se la fiaba è cibo indispensabile per la formazione di ogni essere umano, allora vale la pena di prestarle attenzione.
La multimedialità e il proliferare di trasmissioni televisive, insieme alla diffusione della scrittura digitale, sono fenomeni che hanno influito sulla letteratura fiabesca. Le narrazioni si spostano sempre più su format audiovisivi e pertanto i testi letterari classici vengono modificati e adattati a questa nuova tipologia. Ai bambini, e solo ai bambini (perché gli adulti non sono ritenuti più i destinatari naturali della fiaba), vengono proposti racconti e storie privi della loro originale anima. I testi subiscono adattamenti che li mortificano trasformandoli in versioni spesso banalizzate, in film e fiction televisive. Il finale molte volte è completamente alterato, i fatti narrati vengono edulcorati attraverso l’eliminazione degli episodi più forti e significativi, il linguaggio semplificato enormemente, per cui si perde il senso profondo di parole ed espressioni.
Ma perdere il significato delle parole equivale a perdere interi concetti, pezzi di pensiero. Chi ha detto che ai bambini (ma anche agli adulti) bisogna proporre necessariamente concetti semplici? Perché correre? La velocità, propria dell’epoca in cui viviamo, che si ripercuote perfino sul nostro linguaggio e sulla nostra letteratura, dove ci condurrà? Riprendiamoci il nostro tempo. Il diritto alla lentezza e al desiderio sono fondamentali per essere felici, come insegna Cenerentola.

Filastrocca dell’autostima[8]

Sono questo, sono quello
sono sotto il mio cappello.
Spiritosa e vanitosa
guardo intorno senza posa,
per cercare di capire
se alla gente so piacere
Sono forse troppo bella?
Sì, lo so, sono una stella.
Ho deciso, non m’importa
se a qualcuno sembro storta.
Oggi sono molto occupata
a sentirmi una gran fata.

Mini fiaba  (Premio H. C. Andersen – Tweet da favola 2013)

Tenere per mano, ma non incatenare.
Chiedere, ma non obbligare.
Questo imparò Lara dal vento,
che tutto accarezza ma nulla imprigiona.

Bibliografia di riferimento

Tolkien J. R. R.  (1966), On Fairy-Stories in The Tolkien Reader, Ballantine Books, USA.
Barchilon J. (1975), Le conte merveilleux français de 1960 à 1790. Cent ans de ferie et de poésie  ignorées de l’histoire littéraire,  H. Champion, Paris.
Raymonde R. (1982), Le Conte de fées littéraire en France de la fin du XVII° à la fin du XVIII° siècle, Press universitaires de Nancy.
Bettelheim B.(1982), Il mondo incantato della fiaba, Feltrinelli, Milano.
Basile G. B. (1995), Lo cunto de li cunti, a cura di Michel Rak, Garzanti, Milano.
Blezza Picherle S. (1996), Leggere nella scuola materna, Editrice la Scuola, Brescia.
Griswold W. (1997), Sociologia della cultura, trad. M. Santoro, Il Mulino, Bologna.


[1] S. Blezza Picherle (1996), passim

[2] W. Griswold (1997), pag 57

[3] J. R. R. Tolkien (1947), passim

[4] Barchilon J. (1975), passim

[5] R. Raymonde (1982), passim

[6] G. B. Basile (1995), pag. 181.

[7] B. Bettelheim (1982), passim

[8] Testo parzialmente edito in Parole come stelle, di Rosa Tiziana Bruno, Ed. Mammeonline, 2013.

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tiziana1*Rosa Tiziana Bruno è autrice di saggi sull’educazione e  libri fiabeschi. Membro dell’Italian Children Writer Association (ICWA – Associazione italiana scrittori per ragazzi), è specializzata nell’insegnamento dei Diritti Umani e si occupa dell’uso della fiaba nella didattica, soprattutto interculturale. Scrive in riviste pedagogiche e sulla testata Education 2.0 del gruppo Rizzoli. Organizza workshops di lettura e scrittura creativa per insegnanti, genitori e bambini. Alcuni dei suoi progetti sono citati nella rivista “L’educatore” (Fabbri Editore). Ha pubblicato in Italia e all’estero per Einaudi, LaMargherita, Mammeonline, Il Ciliegio, Alfasessanta, Aljibe, IGIglobal. Il suo esordio come scrittrice è avvenuto con un saggio sul ruolo dei libri di testo nell’educazione e le sue opere sono risultate finaliste in diversi premi letterari, da ultimo il Premio H. C. Andersen-Tweet da favola 2013.


L’amore in tre parti di Paolo Aldrovandi

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1010247_10151498636474537_797597498_ndi Paolo Aldrovandi

L’amore in tre parti

Prima parte

Lasciamo le incertezze scivolare
dove il loro merito muore
che a me piace partire
con il bagaglio pieno zeppo
di sbagli che puzzano d’amore
in mezzo a scarpe vecchie
in compulsiva conservazione
del desiderio trattenuto
che vuole scendere dentro te
avido di non solitudine
e orfano di protezione decisa
capace di donar fiato
all’intimità perduta
del mio amore di stella
che ha un ruolo nuovo
tra costole sottili come lische
sospese nel rimbombo grave
della mia cassa toracica
sempre più ladra malsana
come una marionetta scura
nel mio teatro personale
cha ha grandi teli viola bucati
a fare da sipario agitato
durante l’arrivo di chi
si presenta torvo
e si siede a guardare.

Seconda parte

Attento alle mosse stanche
chi è seduto vuol capire
se il cuore batte rovescio
con la faccia soffocata
dal cuscino della noia

nel mentre e nel dopo

l’assassino mette in scena
questo cuore che salta
che va raccattando un calorifero
aspettando radianti comunioni
a forma d’abbracci dimenticati
ma  l’assassino non si preoccupa

nel mentre e nel dopo

sbatte le porte alzando polvere
in totale “ chi se ne frega ? “
e vede il cuore che si schianta
come quelli sulle lastre lucide
dei macelli con operai attenti
con cuffie guanti tutto bianco
con un pieno di puzza gelida
che solo l’acciaio emana

nel mentre e nel dopo

esplode e si divide tacendo
arrancando calore e vita
spurgando sangue misto
e depositando massa rossa
in violenta ricerca sognante
del senso che possiede
il freddo tagliente
che il cuore tra i denti tiene.

Terza parte

Egoismo vincente sterilizzato
mi aspetto l’assoluzione parentale
dopo la scoperta dei vizi
che hanno sbattuto nei bauli
come ricordi in agguato
il consumo esagerato di desiderio
stracciato dal quotidiano
e andato in disuso come il Flit
e io osservo i tuoi occhi spariti
mi allungo dove piove sempre
a prendere la tua carne
che mi metti davanti
libera da giustificazioni scontate
ricoperta di fiori e amor proprio
della tua vita spesa ovunque
e dove ci sia da spendere
lo conosce solo il tuo cuore
che esce dal freddo dei macelli
capace di recuperare sul finire
quel filo fatto di sapore e pelle
una volta cappio impietoso
e l’altra
-tenera seta su di me.

__________________________________________

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Paolo Aldrovandi

 

That man with the white hair. Gabriella Sica translated by Anthony Oldcorn

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seamus_heaney-461x338 Gabriella Sica*

  da Le lacrime delle cose, Moretti & Vitali, 2009

Seamus

Seamus si chiama quell’uomo dai capelli candidi
seduto quieto nella confusione di un aeroporto
nel luogo degli attraversamenti fuori campo
viene dalla campagna del Derry in Irlanda
dal mondo verde dove la terra è terra e la poesia
poesia per un invito: “piantatelo, piantatelo l’ontano”.

Scems si pronuncia come sciabordio d’acqua antica
è un poeta mentre il suo pungente sorriso si apre
agli spettatori tranquilli in attesa da due ore
mentre gli annunci frenetici s’alzano sulle voci
e gli aerei faticano ad alzarsi nel cielo torvo
dove le nuvole si ammassano e viene un nubifragio.

Ti alzi. “Tutto può succedere” ci dici con Orazio
il fulmine senza il tuono a cielo sereno
la sorte crudele che senza un avviso s’avventa.
Non vediamo la scia degli aerei in volo
dai vetri bagnati non un chiurlo sopra la pista
non è questo un bosco di querce o di betulle.

Poeta frugale in bilico nella nebbia come uccello
con i piedi sulla terra e la testa gentile e arruffata
lasci di passaggio la tua orma dell’infinito
qui a Fiumicino dove il fiume corre per finire al mare.
Che effetto fa, mi chiedete, incontrare Seamus Heaney?
Il corpo, umile argine al proprio tempo, un corpo.

11 settembre 2005

***

Seamus

Seamus is the name of that man with the white hair
sitting quietly amid the confusion of the airport
in this hall of offstage crossings
he comes from the Derry countryside in Ireland
from the green world where earth is earth and poetry
poetry for an invitation: “Plant it, plant the alder”.

Scemus they say it like the splash of ancient waters
he’s a poet and he turns his searching smile
on the patient audience waiting for two hours
as frantic bulletins resound above the chatter
and airplanes lumber off into a sullen sky
where the clouds gather and a cloudburst threatens.

You rise. “Anything can happen” you tell us with Horace
a clapless thunderbolt out of a clear blue sky
cruel fate that strikes without a warning.
We see the contrails of the planes in flight
through rain-smeared windows no curlew on the tarmac
this is no wood of oaks and birches.

A frugal poet poised like a bird in fog
feet on the ground a kind and ruffled head
your passing leaves its trace of infinite
here in Fiumicino where a small river runs into the sea.
What was it like, you ask me, meeting Seamus?
The body, humble levee against time, a body.

Translated by Anthony Oldcorn**

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*Gabriella Sica was born in Viterbo. She has been living in Rome – her adopted town – since she was ten years old. From 1980 to 1987 she had edited thePrato pagano” review, in which a lot of modern literary generation writers brought out their works or made their own debut. After publishing some works in reviews and anthologies such as “Almanacco dello specchio” in 1983, in 1986 her first book of poetry La famosa vita was published; then, in 1992, Vicolo del Bologna, and in 1997 Poesie bambine, and in 2001 Poesie familiari (winner of International Poetry Prize Gabriella Sica (foto-sergio-cristallini)“Camaiore”). Le lacrime delle cose went out in 2009 (Prize Garessio-Ricci, Prize Alghero Donna and Prize Giuseppe Dessì).  She edited the anthology La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana (1995), Scrivere in versi. Metrica e poesia (1996), now available in a new updated and extended edition (2011). In 2000 she published Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi. Sica’s last work is Emily e le Altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (Roma, Cooper, 2010) where sections are dedicated to Margherita Guidacci, Cristina Campo, Nadia Campana and Amelia Rosselli. Her poems have been translated in Spanish, French, English, Romanian, Croatian e Turkish. Some of her poems are available on YouTube and she has a Facebook page.

prof.anthony.oldkorn

**Anthony Oldcorn was born in Lancashire, England and studied Modern Languages with Richard Sayce at Worcester College, Oxford. After getting a B.A. degree, he moved to the USA and studied and taught at the University of Virginia and Harvard University, where he obtained a Ph.D. He taught for several years at Wellesley College before going on to Brown University, where he eventually retired as chair of Italian Studies. He continues to teach on occasion at the University of Bologna. He is widely published academic and literary translator.

 


Italy from Without

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di Giuseppe Gazzola* 

Bruno Catalano

There is no doubt that current debates on Italian national identity, and on the meaning of Italian history, are very lively; of late, these discussions have been effective in questioning the many clichés and many established paradigms concerning nationalism and nation-building. But it is equally true that reflections on Italian national identity have, over time, been mired in a narrow internalist perspective that has neglected the larger historical and geopolitical processes which shaped the emergence of the nation before and during the first one hundred and fifty years of its existence. It is only recently that scholars interested in the many aspects of Italian nationalism have begun to account for the international dimensions of Italy’s creation. Indeed, if our idea of the Italian nation is “a cultural artifact of a particular kind,”[1] as Benedict Anderson defines it (encouraging us to look at the concept of national identity not as an inherited or inevitable happenstance, but as a deliberate and artificial creation linked to the emergence of a new ruling élite), we need to expand our critical field to ask how such a cultural artifact has been created from both inside and outside of the geographical and conceptual borders of the nation.

However, attention to the European – indeed global – aspects of the Italian nation has not always been central to nationalist expressions, celebrations, histories, and historical reconstructions of the Risorgimento, which have generally focused on the fight for unification and the figure of proverbial and quintessentially Italian heroes, Garibaldi above all. This is perhaps hardly surprising, since the process of Italian unification was, in significant part, a proxy battle against attempts by competing external interests to intervene in and control the peninsula. The history of the Italian Risorgimento has consequently been constructed as fundamentally a history from within, one founded on a myth of an essential Italianità, that binds together the diverse communities of the region to produce an integral national whole.[2]

This belief in the existence of an ancient Italianità, understood as a historical entity shaped by the native populations of the peninsula through successive generations, was the presupposition shared by all the patriots of the Risorgimento; it served to affirm the right of Italians to a unified State that was independent, sovereign and free from foreign rule. The consequent symbiosis between Italianità, geographical and linguistic unity, and political unification, precipitated the birth of the State in 1861, which in turn has developed a revisionist history of Italians over the following one hundred and fifty years. These years of Italian statehood have been punctuated by three major anniversaries: in 1911, 1961, and most recently, 2011. Each time, the birth-anniversary of the State has been celebrated by a historically distinct “Italy,” each marked by difference, change and political antitheses.[3]

In 1911, the fiftieth anniversary of Italian unification was celebrated by a liberal and secular monarchy intent on foregrounding its own power, but its interpretation of Italianità was bitterly contested by all others forces who had competing conceptions of the patria and the State: Catholics, republicans, socialists. For the crown, about to initiate its colonial adventure with the Italo-Turkish war, the first landmark anniversary of the nation was an occasion to demonstrate its growth in economic, cultural and scientific spheres. Commemorative celebrations were held in Turin, Florence and Rome – that is, in the three cities that had been capitals of a unified Italy. Rome, the long-desired capital, that has been stripped from the control of Papal forces only in 1871, received the lion’s share: apart from a “Rassegna internazionale d’arte contemporanea,” there were mostly exhibits devoted to local and regional matters, including an “Esposizione etnografica delle regioni italiane,” an exhibition on “Topografia romana” and a similar “Retrospettiva su Roma medievale e moderna.” Among the permanent monuments, the citizens of the Eternal City would celebrate the inauguration of a bridge across the Tiber dedicated to the first King of Italy, Vittorio Emanuele II, and dulcis in fundo, the inauguration of the monumental Vittoriano degli italiani, built to overlook the Roman Forum, thereby symbolizing an ideal continuity between Imperial Rome and the imperial ambitions of the young kingdom of Italy.[4]

Fifty years later, during the centennial celebrations of 1961, a nation steadily governed by the Christian Democratic Party and definitively reconciled with the Catholic Church in the person of the Papa buono Johannes XXIII,[5] was enjoying an unprecedented period of economic growth. Looking back on these celebrations, the official government website highlights important distinctions between 1911 and 1961: “L’Italia che si apprestava a celebrare il centenario dell’unità era una nazione completamente diversa da quella del 1911. Le due guerre mondiali, il fascismo, la resistenza, la nascita della Repubblica e l’approvazione della Costituzione avevano modificato in maniera sensibile la coscienza storica e le condizioni del paese. Allo stesso tempo il “miracolo economico” ne stava rapidamente cambiando la geografia e le strutture sociali.”[6] [“The Italy, which was preparing to celebrate the hundredth anniversary of unification was a nation completely diverse from that of 1911. The two world wars, Fascism, the Resistance, the birth of the Republic and the approval of the Constitution had transformed the historical conscience and condition of the country. At the same time, the “economic miracle” was rapidly changing the geography and social structures.”] Scholars agree in discerning, in the Italy of 1961, the formation of a new collective notion of Italianità developed through massive internal migrations, television and the diffusion of mass media, which finally de facto equalized Italians (in a sociological sense). This new Italianità  was dissociated from the nation-state, towards which it was at best indifferent, at worst diffident or in active rebellion: the collective sense of shame derived by the memory of the Fascist Ventennio and the consequent defeat in WWII did little to sustain any kind of national pride among Italians, and the celebrations of the Centennial made little use of the fanfare of the nationalistic tones.

In 2011, on the eve of the one hundred and fiftieth anniversary of unification, the presence of a secessionist movement within the government, which denied the very existence of an Italian nation and proposed a dismantling of the country’s political unity, raised questions about the basis for the official celebrations. Nevertheless, despite such doubts, the celebrations did take place, accompanied by hymns to a rediscovered Italian national pride and with a level of popular participation that was probably greater than during the anniversaries of 1911 and 1961. Once again, the nation celebrated itself and its heroes from within: the Palazzo del Quirinale held a self-reflexive exhibit entitled, “Il Quirinale: dall’Unità d’Italia ai nostri giorni,”[7] while the Palazzo di Montecitorio put forward “Rappresentare l’Italia: 150 anni di Storia della Camera dei Deputati.”[8] Between March and December 2011, hundreds of monuments across Italy dedicated to the heroes of the Risorgimento (Vittorio Emanuele II, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Verdi, Giuseppe Garibaldi, and Giuseppe Mazzini are the most recurrent names) were restored, and the statues of Garibaldi in every Italian city received a flaming mantle in red velvet. Yet for the first time there were also traces of a celebration ‘from without:’ the exhibit in Turin of four hundred photographs by nine international artists echoing the tradition of the Grand Tour, suggestively entitled, “L’Italia e gli italiani”[9] is symptomatic of the ramifications of a rethinking of the national identity that includes solicitations and suggestions from the outside.[10] Thus, for the first time, this one hundred and fiftieth anniversary has also been the occasion for a renewed, revisionist reflection on Italian identity over the historical long durée.

Now that the third celebration is behind us, it is time to overcome the interpretation of the movement for Italian unification as a movement internal to the history of Italy. To do so is to conceive of the Italian nation as, paradoxically, not only a strictly “national” entity contained by its borders, but as a fluid product of the contamination and commingling of ideas that derive from the experiences of individuals who have crossed those frontiers in various ways. As a result, we are now beginning to recognize how Italian national identity is shaped as a constellation and synthesis of diverse, plural experiences. Thus, at the beginning of the twenty-first century, as Italy struggles to maintain its place within the European Union and within the rapidly shifting currents of a global, interdependent world, scholars of Italian nationhood are being forced to rethink conceptions of national identity through a larger perspective.[11] We are ready to consider reframing “Italy from Without.”

The international conference of the same title, held at the Center for Italian Studies of Stony Brook University on October 14 and 15, 2011, responded to precisely this imperative. Drawing scholars from across the globe, the conference’s theme focused on examining the forces that have contributed to Italian unification  from the outside. In its focus on the international networks of encounter and exchange that grew out of the Italian peninsula, the conference aimed to provide a new, multifaceted approach to imagining the Italian nation. The shaping of Italy from without has a long history full of unexpected turns. From the French cultural polemicists of the seventeenth century, to the German archaeologists of the eighteenth century, to the Italian emigrants at Ellis Island of the nineteenth century, the idea of Italy emerges among Italians who travel abroad and foreigners who travel within the shifting geographic space known as “Italy.” To the Grand Powers fighting over territorial control of the peninsula, Italy was a geo-political prize which conferred strategic and symbolic gains on the victor. For the grand tourists traveling to Italy in the sixteenth, seventeenth and eighteenth centuries, the Bel Paese was both museum and mausoleum, and they contributed to a vision of the country defined by both cultural antiquity and alterity. This long-standing tension between geographic and cultural integrity on the one hand, and political fragmentation on the other, is captured resonantly by the Prince Klemens von Metternich, chancellor to the Austrian state, who wrote to the Count Dietrichstein, the Austrian ambassador in Paris in April 1847: « The word ‘Italy’ is a geographical expression, a description which is useful shorthand, but has none of the political significance the efforts of the revolutionary ideologues try to put on it, and which is full of dangers for the very existence of the states which make up the peninsula.» As Metternich perceived, the political unification of Italy founded on the idea of Italianità would spell the end of Italy as a political pawn in the hands of foreign powers by unifying the many, small warring states that littered the region. Ironically, this trenchant observation by a foreigner hostile to Italian nationalism, itself becomes a powerful shaping force in the making of the nation-to-come, for it articulates – through its very denial – the vision of an integral “Italy” that few could even hope for in the late 1840s.

At the same moment, as the expanding European empires looked at their southern neighbor with calculating eyes, the first waves of the migration by Italians to the New World had begun. For these emigrants, seeking refuge from the squalor of their lives in the old world and dreaming of possibility in the new, Italy was a post-facto memory, the trace of a past left behind. The power of the limen, of the margin as a threshold, thus gave an Italian identity to the millions who had never been Italian in Italy, and who would shape the nation’s future by their contributions from afar. The present volume ranges across these various registers, exploring particular international vantage points on the Italian national experience.  The contributions, organized in three distinct sections, respond to both geographical and conceptual criteria. Beginning with a more regional lens, the first section, “Italy from Europe,” gathers together essays that explore European perspectives on Italy, while the second part, “Italy from a Global Perspective,” moves further afield. A final section, “Italian Identity across the Disciplines,” shifts from particular geographic interconnections to examine how Italian identity has been theorized from different disciplinary stances, such as political economy, art history, and the social sciences.

At one end of the volume’s diachronic spectrum, the article by Ayesha Ramachandran (“Montaigne’s Tasso: Madness, melancholy and the enigma of Italy”) examines the question of the French humanist Michel de Montaigne’s view of contemporary Italy and Italians in the late sixteenth century by focusing on textual references and allusions to the figure of Torquato Tasso in the Essais. Placing Montaigne’s Italianism in the context of the virulent anti-Italian polemics in France in the 1570s and 1580s, the paper argues that the strategic choice of Tasso as an emblem for Italy points to a conflicted, deeply ambivalent perspective on Franco-Italian relations in the early modern period.

Jonathan R. Hiller’s article, “The negation of God erected into a system of disaster relief: The British press, Household Words and the great Neapolitan earthquake of 1857,” derives its title from a famous quote. For in a letter to his wife in 1845, the British Prime Minister William E. Gladstone had defined the Kingdom of Ferdinand II as the “negation of God erected into a system of government.” Hiller recounts the story of the earthquake that, in 1857, flattened five cities in the region of Basilicata causing the loss of at least 10,000 lives, and explains how the Bourbon king’s failure to provide substantive relief to the affected population had been amplified and criticized in the British press (and specifically in Charles Dickens’ literary journal Household Words), ultimately shaping British sentiment and public opinion into a powerful an anti-Bourbon weapon that would become instrumental in the subsequent struggle for Italian unification.[12] The next three articles form a thematic nucleus within the volume. The first, Luigi Fontanella’s “Poesia e Risorgimento fuori d’Italia,” examines the poetry written by famous (Ugo Foscolo, Giovanni Berchet) and less famous (Giuseppe Andreoli, Tito Speri, Pier Fortunato Calvi) patriots who had to undertake the path of exile. Arguing that these writers represent the most valuable aspects of the canon of Italian Romanticism, Fontanella reflects on how the cosmopolitan poetry of the Italian exiles effectively contributed to the achievement of Italian unification. In the following essay, “Giovanni Ruffini’s Doctor Antonio and the healing power of the Italian landscape,” Tullio Pagano rediscovers the English romance of a political exile which enjoyed great success when it was first published in Edinburgh in 1855. In discussing this novel written in English by an Italian author, Pagano explores the place it merits in both the Italian and English literary canons. In a third reflection on the relationship between literature and nation-building in the nineteenth century, Giuseppe Gazzola’s “A false edition of the Comedy, and its truth,” recounts Foscolo’s last years in London in order to uncover why Giuseppe Mazzini did not write his long-anticipated biography of Ugo Foscolo, and instead, completed and published under Foscolo’s name, the edition the Divine Comedy that the latter had merely begun to sketch.

The final essay in the first section, Thomas Harrison’s “Istrian Italy and the homeland: The lessons of poetry,” moves the volume’s temporal axis into the twentieth century, taking Eugenio Montale’s poem Dora Marcus as a pretext to reflect upon the volatile condition of the eastern Italian national border. Harrison recalls the most dramatic Italian diaspora in history through a close reading of Montale’s text, as he meditates on how the relationship between geographic landscapes and their distillation into abstract concepts (such as homeland, origin, or place of belonging) can and must be processed into existence by art.

Traveling further away from the patria, the second section of the volume explores the making of “Italy from Without” in a global perspective. Daria Valentini provides “A view from Africa” with her “Edmondo De Amicis and the formation of a national identity in post-unification Italy.” Analyzing the travelogue Morocco, she investigates how De Amicis’ representation of the country is an ideological construct that provides its author with the opportunity to shape a notion of ‘Italianness’ based on a comparison between European traditions and the Muslim world. In this account, the encounter with an ethnic and religious alterity powerfully frames the formation of an Italian national identity. In contrast, the subsequent article by Patricia Vilches, “Monumental Italians: Machiavelli, Risorgimento and nation-building in Chile” uses the conceptual frame of Machiavelli’s Prince to narrate the accomplishments of Italian emigrants in Chile and their local nation-building efforts. Here, the movement of Italians abroad and their enacting of key Machiavellian values (such as virtù and fortuna) in turn amplifies an underlying sense of Italianità.

The concluding essays of this section, by Ernesto Livorni and Nick Ceramella, complement one another: while the former talks about “American writers in Rome during the Risorgimento,” the latter is concerned about the depictions of Italian- Americans by North American writers. Livorni discusses the discovery and engagement of American writers with Italy over a quarter century through the work of Margaret Fuller, Nathaniel Hawthorne, Mark Twain and Henry James, who lived and wrote in Rome through the troubled period of Italian revolution that paralleled the years of the American Civil War. In contrast, Ceramella traces the portrayal of Italian-American immigrants in North America and the development of sterotypical cultural markers over the nineteenth and twentieth centuries.

These reflections on Italian identity are further theorized in the volume’s final section, which offers four distinct disciplinary paradigms for analyzing the foundations of Italian nationhood. A delicate theme concerning the relations between the governors and the governed is the subject of Eugenio Mazzarella’s essay, “Picturing oneself: Politics and Society in Berlusconi’s Italy.” A representative in the Italian Parliament as well as a professor of theoretical philosophy at the Università Federico II di Napoli, Mazzarella echoes the sentiments of the eleventh and twelfth President of the Republic, Giorgio Napolitano, in lamenting the decline of national pride in the ideal of the Italian nation. Analyzing the voting habits of the Italian electorate, and by way of a quote from the famous newspaper editor, Piero Ostellino, Mazzarella claims that Italy did not fall into a political vacuum while the rest of the country continued to make progress, rather that the existence of a social and moral vacuum has precipitated the political crises of the last twenty years.

Alessandro Vanoli’s “The Muslim World and the Italian Identity: New Directions for Historical Research” offers historiographical critique and wonders whether it is in fact possible to write a history of the relationship between Islam and Italy. Rejecting an uninterrupted grand narrative that extends from the Middle Ages to the present day, Vanoli instead identifies specific spaces and topics that can serve as the basis for cross-cultural historical study: war and politics, diplomatic relationships, and trading history across the Mediterranean. Focusing on these points of contact, he suggests, is an effective means to interrogate the relationship between these two seemingly opposed worlds.

Opening an art historical perspective on the imagination of Italy, Sharon Hecker focuses on the Italie, a series of mixed-media scultural installations by the arte povera artist Luciano Fabro, which feature the iconographic geographical boot. Tracing the development of Fabro’s curious mappings of Italy, Hecker explores how such works question the contradictory terms of Italy’s emergence by playing on a range of imaginative expressions. The volume’s final essay, Gianpiero Bianchi’s, “It was not only the Cold War: Italian and American trade unionism for the economic development of the country (1947-1960),” recounts the history of the trade union CISL. Bianchi claims that CISL marked a new direction for Italian labor relations because it drew on the influence of American economic theorists and union activists, insisting on an “American” model of productivity, industrial democracy, and complete autonomy from the state and political parties.

Each of these articles seeks to balance the existing, traditionally Italo-centric approach with a new internationalist frame that brings into view new dimensions of the Italian experience. Thus, by the conference’s end, participants of the final roundtable agreed that the study of the forces that contributed to building the unitarian state ‘from without’ is not in competition with the study of the forces that have contributed to the creation of the state ‘from within’ the geographical and imaginary boundaries of Italy. Indeed, the two aspects are complementary and are inextricable. Such consideration is not limited to the Italian case, of course: every community can, and by certain regards has, been imagined as the product of collective networks of ideas and experiences that transcend particular geopolitical boundaries.[13] Yet the contributors to the present volume hope to demonstrate how, in the study of Italian nationalism, the widening of perspectives will open a pathway to new, broader connections and new directions for research.

* The present essays proposes, with minimal variations, the introduction to the collected volume Italy from Without (Sage: New York and London, 2013) and is reproduced with the consent of the publisher.

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References:

Acciaresi P (1911) Giuseppe Sacconi e l’opera sua massima: cronaca dei lavori del monumento nazionale a Vittorio Emanuele II, illustrata da 300 incisioni. Rome: Tipografia dell’Unione Editrice.

Anderson B (1991) Imagined Communities (revised edition). New York and London: Verso.

Bouchard N (ed.) (2011) “Special Issue on the 150th Anniversary of the Unification of Italy.”  Italian Culture 30 (1).

Brera M and Pirozzi C (eds.) (2011) Lingua e identità a 150 anni dall’Unità d’Italia. Florence: Cesati.

Croce B (1928) Storia d’Italia dal 1871 al 1915. Bari: Laterza.

Fleres U (1911) Roma nel 1911. Rome: Amministrazione della rassegna “Roma.”

Gellner E (1983) Nations and Nationalism. New York: Wiley and Sons.

Gentile E (2011) La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo. Bari: Laterza.

Gramsci A (1949) Il Risorgimento. Turin: Einaudi.

Hobsbawm EJ and Ranger TO (eds.) (1983) The Invention of Tradition. Cambridge: Cambridge UP.

Isabella M (2009) Risorgimento in Exile. Italian Emigrés and the Liberal International in the Post-Napoleonic Era. Oxford: Oxford UP.

Macry P (2011) Unità a Mezzogiorno: Come l’Italia ha messo assieme i pezzi. Bologna: Il Mulino.

Roncalli AG (Pope Johannes XXIII) (1959) Scritti e discorsi Vol. 1. Rome: Edizioni Paoline.

Verdecchia E (2010) Londra dei cospiratori. L’esilio londinese dei padri del Risorgimento. Milan: Tropea.


Notes

[1] See Anderson (1991), pp. 4 et passim.

[2] Even the two most influential –and conflicting- accounts of Italian unification, by Benedetto Croce (Croce 1928) and Antonio Gramsci (Gramsci 1949), which reconstruct the historical events between the Council of Vienna and the rise of Fascism according to a liberal and Marxist paradigm respectively, draw on ideologies that were developed ‘without’ and then applied internally to the Italian context. Both thinkers are emblematic of distinctly “Italian” political visions, and yet broader consideration must position their thought within the international networks of the time.

[3] Here and infra, see Gentile (2011).

[4] See Acciaresi (1911).

[5] Cfr. Roncalli (1959), pp. 162 et passim.

[6] Quoted from the official Governmental website for the 2011 celebrations, http://www.italiaunita150.it/le-celebrazioni-passate/celebrazioni-1961.aspx, accessed on May 23, 2013.

[7] Rome: Palazzo del Quirinale, Nov. 30, 2010 – Mar. 17, 2011.

[8] Rome: Palazzo di Montecitorio, Oct. 17, 2011 – Dec. 10, 2011.

[9] Turin: Palazzo Reale, Nov. 25, 2011 – Feb. 26, 2012.

[10] See as an example Verdecchia (2010). Furthermore, Bouchard (2011) and Brera and Pirozzi (2011) are collections of essays actively engaged in such paradygmatic shift.

[11] Cfr. Isabella (2009). Isabella, for instance, studies the theme of Risorgimental exile not with a narrative approach, but by devoting attention to the international dimensions of the exiles’ conceptualization of Italy, developed through their cosmopolitan experience.

[12] Hiller’s essays resonates, in topic and methodologies, with Paolo Macry (Macry 2011), a book that investigates the reasons of the collapse of the Bourbonic kingdom.

[13] Besider the mentioned Anderson (1991), other essential texts on the topic are Gellner (1983) and Hobsbawm and Ranger (eds.) (1983).

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beppe Center*Giuseppe Gazzola is Assistant Professor of European Literatures and Cultures at Stony Brook University. He holds a Ph.D. from Yale University and an M.A. from the University of Notre Dame; his research focuses on European literature and cultural history of the Nineteenth and Twentieth century. He has published articles on Foscolo, Petrarch, and Italian Orientalism in various international journals. His most recent books include Versi e Prose: Marinetti traduce Mallarmé (forthcoming); Futurismo: Impact and Legacy (2011); Ugo Foscolo: Essays über Petrarca (with Olaf Muller, 2008)He is currently completing a book project on the analysis of landscape in the poetry of Eugenio Montale.


“Orecchie ed occhi”. Racconto inedito di Renato Grilli

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di Renato Grilli*

"Angelus meus" autoritratto di Renato Grilli

“Autoritratto con angelo” di Renato Grilli

ORECCHIE ED OCCHI   
(racconto sotto gli occhi – al mio Sigmundo)  

Per cominciare, guardami. Stammi a sentire. Lascia che ti racconti tutto, senza interrompermi. Lasciami cominciare e lasciami finire. Quando avrò finito il mio racconto, allora ti starò a sentire. Potrai farmi tutte le domande che vuoi, anche le più acute, o le più inutili o più sceme. Ti prometto che ti starò a sentire comunque e ti risponderò, con precisione, con totale sincerità e dedizione. Ma adesso lasciami cominciare. Non ti chiedo di stare lì, come un paralitico, a sentire tutto quello che ti racconto. Non mi basta la tua immobilità, la tua impassibilità, la tua simulata assenza. I tuoi occhi parlano lo stesso, la tua bocca la vedo premere le labbra o aprirsi un poco, anche il leggero piegarsi della tua testa per me ha un significato, senza parole precise, ma con un puntuale, registrabile riflesso emotivo; alla fine preferisco non guardarti, mentre ti racconto, e questo mi fa male. E cambia il racconto.

Sarà stato un paio di anni fa. Forse di più. Leggevo, con quell’anima svogliata da lettore che ormai si aspetta poco dal leggere. Come darmi torto? Leggevo una rivista, di quelle super giovani, perciò super fiche, super tutto. Ad un certo punto un soprassalto. Uno dei supergiovani scrive un raccontino dal titolo “Undici”. Racconta gli undici: dice che il primo è il portiere, poi il secondo, terzino destro, poi il terzo, terzino sinistro; che sono così o cosà, parlando come fosse il loro allenatore. Ammetto che mi scappa un malizioso torcilabbra. Ho scoperto il giochetto, rido, ho capito il rebus; faccio il professore, ho chiaro che si tratta di parodia, che volutamente banalizza. Parodia di che cosa? Ma come, maledizione, del nano gigante novecentesco massimo, del Franz praghese; ma che vi fanno leggere a scuola? Quel suo racconto magnifico e misterioso, Undici Figli, quello che alla fine l’undicesimo è il preferito, perché è andato via, è tornato, ma non si capisce perché. Si capisce che qui non si trova bene. Ma il padre lo ama più di tutti gli altri. Così me lo ricordo, a memoria. Ma adesso non ho il tempo di andare a controllare. Mentre il sorriso sarcastico del solutore di sciarade va sfumando, subentra un certo imbarazzo. Tengo il racconto sotto gli occhi. Alla fine delle poche banali pagine del supergiovane fino all’undecimo, nessuna nota. A piè di pagina, nessun commento o riferimento. Torno indietro all’introduzione del curatore, niente. Rimango bloccato, stranito, per lunghi secondi. Ma come è possibile? È incredibile! Non viene citato da nessuna parte il prototipo, il racconto di Kafka! Non può essere una svista; come fai a non conoscerlo, se sei un editore? Ma di più: è evidente che lo scrittorino lo sa, la copiatura è davvero a calco; ma la sua decisione di non dirlo – perché niente accenna nel testo della sua operina – è una bastonata ai suoi stessi coglioni: in sé non vale un fico secco, il suo raccontino, né carne né pesce; se almeno dicesse il gioco di parodia, qualche cosa si potrebbe apprezzare. Ma senza, proprio niente di niente vale il suo temino, il suo esercizio di stile!

Autoritratto, Renato Grilli

Autoritratto, Renato Grilli

Lo vedo che hai accennato un sorriso. Ma come mi succede sempre non riesco a decifrare se ridi della storia, o dello scrittorino, o di me che, raccontando questa storia, faccio trapelare, dici tu, le mie frustrate ambizioni. Così non ti guardo più e vado avanti.  Esaurita la premessa, entro in argomento. Te lo racconto perché è stato un attimo di coscienza, una cognizione precisa, che no mi ha più lasciato: me la sono portata dietro, dentro, per giorni, settimane, mesi, ormai. Ed è stato un attimo solo, in un secondo, un picco di conoscenza. Di solito per far emergere qualcosa sto lì ore  giorni e alla fine traggo una certa conclusione, magari parziale, ma sintetica, utile, articolata. Stavolta no. È arrivata e s’è seduta; ha detto e se n’è andata, lasciando tutto inciso nella pietra della mente. Non voglio che torci gli occhi, così non ti starò a spiegare per che e per come e per quando, come andassero le cose con lei, come mi sentissi io in quel periodo, e tutta quella lagna melassa in cui mi tocca di affondare appena mi azzardo ad aprire la porta ai “problemi sentimentali” . No. Ti dirò solo che, in un attimo, quella volta s’è concentrato il senso del tempo, della vita e del cuore, dell’ora e del tempo tutto. Il sentimento preciso, puntuale, di aver raggiunto un segno chiaro di conoscenza. E la conoscenza era un dolce, straordinario, sereno come mai, desiderio di morire. Niente di drammatico, bada, niente da gridare, niente da recriminare. Solo vero profondo desiderio di concludere la vita: ero pronto a salutarla, ringraziarla, dirle addio per sempre. Mi guidava la certezza che la vita che avevo così com’era, non era da tempo più sopportabile, e che contemporaneamente nessun’altra vita era possibile; non per negativa opinione, ma per acquisita prova, per caduta e definitivo sterminio di ogni speranza. Ma quel senza speranza, quel sentimento nuovo che mi dava una minima, ma forte e serena certezza di questo desiderio nuovo, mi saliva su da dentro, come un respiro dal profondo, mai, ti giuro, sentito prima. Come se la conoscenza fosse proprio quell’aver inteso che è la speranza stessa la belva rinchiusa che ti spaventa e ti gela, era lei che aveva reso vano ogni tuo passo, ogni tuo amore, lei che annebbiava e confondeva ogni tuo proposito. Era la certezza invece che ti consolava, ora. La certezza che era venuta l’ora bella, quella di andarsene per sempre.

Lo vedo, ti ho sorpreso. È strano vedere quel tuo sguardo fisso. Questa non te l’aspettavi. E adesso che ti guardo anch’io, dopo averti detto, vedo qualcosa di nuovo. Vedo che anche tu sei un pezzo della grata della mia cella, una torre della mie antiche speranze. E devo confessarti che l’odio che provo per la mia prigionia comprende anche te, i tuoi occhi belli, i tuoi movimenti armoniosi, il tuo sorriso promettente.
L’odio mi invade come una disperazione confusa, come una presa d’atto della verità più profonda. La conoscenza certa mi dice che se qualcosa posso fare per te, ora, è salvarti dal mio odio, quello travestito da desiderio nei tempi della speranza. E non sai come mi ravviva tutto il poter con certezza affermare lo splendore della tua bellezza, ora che sono lontano, al sicuro da te.  Lo vedo dai tuoi occhi: anche tu ti sei accorto che … non ho più vergogna. Non mi vergogno più, ora che non mi vergogno più di voler morire. Vedo quante fatiche ho accumulato nel cercare di nascondere questo osceno e limpido desiderio, come fosse la bestemmia la più grande, l’insulto apostata ad ogni vivente e al Santo.

Ora invece (lo vedi come mi muta il viso in una beatitudine da idiota?) appare la speranza vera, l’unica, dopo la certezza. La speranza profonda che, travestita da mille e mille altre, io vivente vivo ho condiviso, confuso con la folla di Babele, quella che davvero ho professato in ogni attimo vivo del mio poco vivere, la speranza estrema: che dopo la dipartita, il Santo, vedendoti per caso ascendere, dica gridando ai diavoli e agli angeli:
“Ma che state facendo.? Lasciatelo quello, che venga da me. Non lo vedete nel suo sguardo che non ha mai vissuto, lui? Che ha sempre solo atteso questo momento, tutta la vita? Lasciatelo, il suo desiderio è appagato. La sua speranza certa realizzata. Viene a stare nella mia casa!”

Per finire, non guardarmi più. Grazie per avermi ascoltato, senza interrompermi, per tutto questo tempo. Adesso, come ti ho promesso, mi metto in ascolto. Dimmi, chiedimi, interrogami, accusami anche, se vuoi. Ora sono pronto a tutto, non ho più timori, niente mi può più accadere. Sto sulla soglia di casa, col mio bagaglio più leggero. Vieni a prendermi, quando te la sentirai; io ti aspetto, sereno. Anzi nemmeno aspetto: semplicemente sto seduto sui gradini, mentre i miei occhi si sollevano verso ogni luogo, verso ogni direzione da cui tu potresti arrivare. Ma non ho fretta, né impazienza alcuna. So con certezza di avere tempo, finalmente, per finire.

(23 agosto 2008)

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Grilli*Renato Grilli è nato a Nereto (TE) il 31 dicembre 1953. A Pescara, mentre frequenta il liceo classico, incontra il teatro e debutta con Alienus, regia di Gianfranco Varetto e Ida Bassignano. Al  DAMS di Bologna studia storia e critica dello spettacolo, regia e drammaturgia, con Squarzina, Gozzi, Scabia, Celati e altri. Si laurea con lode nel 1983 con la tesi Ricerche di idolatria moderna – Flipper the beautiful, relatore Paolo Fabbri, semiotico, presidente Umberto Eco. Attore e aiutoregista lavora con varie compagnie, tra cui Teatro Stabile dell’Aquila, T. Regionale Toscano, ATER-ERT, Teatro Poesia Bologna, Doppio Teatro Roma.  Al cinema è il sosia muto di Kafka in “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Negli ultimi anni ha scritto testi originali e adattamenti per la scena per spettacoli e recital. Ha partecipato a reading di poesia, presentando le sue inedite “ballate balbuzienti” e altre sillogi; ha messo in scena e in musica poesie di Leopardi, Petrarca, Carducci, Marin, S. Toma. Insegna tecnica teatrale e lettura poetica in corsi, laboratori e stage. Collabora con quotidiani e riviste. Attualmente lavora al Progetto “Canzoniere Italiano”, poesia italiana in musica, spettacolo “da esportazione” e su “Viva la poesia viva!”, laboratori didattici di poesia “giocosa”. Vive nel  Salento, nei pressi di Otranto, dal 2002.


Notizie sul Diario postumo di Montale

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di Alberto Casadei*

 41oFS6tc9LL._SY346_Non ha suscitato le polemiche, che sarebbero invece scoppiate al momento del ‘parapiglia’ filologico-attributivo del 1997-98, l’uscita del libro di Annalisa Cima Le occasioni del “Diario postumo”. Tredici anni di amicizia con Eugenio Montale (Milano, Ares, 2012). L’ispiratrice del Diario, e poi curatrice delle edizioni montaliane secondo i legati testamentari (fortemente contestati dagli eredi), ricostruisce qui la propria verità, rievocando l’inizio della sua consuetudine con il poeta, nel 1967-68, e poi i loro rapporti anno per anno, sino al 1981. Le informazioni fornite sono in buona parte inedite, specie per quanto riguarda la genesi di quasi tutti i testi del Diario postumo: con una precisione a dir poco sorprendente, essendo passati più di quarant’anni, vengono citati eventi minimi che avrebbero fornito a Montale l’occasione per scrivere i componimenti, poi pubblicati postumi al ritmo di sei all’anno sino alla raccolta completa nel 1996, in concomitanza con il centenario della nascita. Ma proprio quell’edizione, curata da Rosanna Bettarini, scatenò i sospetti di Dante Isella, sostenuto, riguardo alla non autenticità dei presunti autografi, da uno specialista quale Armando Petrucci.

Molte sono state le prese di posizione, forse non risolutive. Più di recente è stato fatto notare che l’idea di una preparazione in vita per un’opera postuma era già contenuta in alcuni racconti montaliani sicuramente sconosciuti alla Cima: ma ciò non era sufficiente a garantire che l’intera raccolta del Diario fosse stata organizzata dall’autore. Molte infatti erano (e sono) le incongruenze materiali e stilistiche che restavano inesplicabili. E soprattutto, quasi tutti i presunti autografi esibivano una vistosa somiglianza con i testi giovanili montaliani, e una notevole diversità con tutti quelli dell’ultima fase, quanto meno dalla fine degli anni Sessanta in avanti.

Ora la Cima risponde direttamente o indirettamente a molte delle obiezioni che le sono state mosse: per esempio, veniamo adesso a sapere che un giudizio piuttosto negativo espresso da Gianfranco Contini su Incontro Montale, interviste al poeta della stessa Cima pubblicate da Scheiwiller il 9 aprile del 1973, sarebbe da ricondurre a uno scherzo ordito da Montale stesso al suo grande critico, al quale avrebbe detto telefonicamente, in presenza della curatrice, che si trattava di repêchages da Auto da fé, e Contini avrebbe riprodotto questo giudizio nel suo Una lunga fedeltà (Torino, Einaudi, 21 settembre 1974, secondo il colophon: si veda in effetti p. 109). Tuttavia, il critico vide il volumetto, come è dimostrato dal riferimento allo schizzo di Marino Marini che si trova sulla sua copertina, e sembra singolare che, a distanza di un anno e mezzo dall’uscita, non abbia controllato minimamente il contenuto; la Cima avrebbe poi immediatamente contestato il giudizio in una lettera, riportata nel volume (p. 57) del 9 settembre 1974, cui Contini avrebbe risposto, ma il 20 maggio 1976 (p. 58), riferendosi a quella missiva come se gli fosse arrivata qualche giorno prima anziché da quasi due anni. Insomma, nella ricostruzione proposta parecchie cose sembrano piuttosto singolari: il ricordo esatto delle parole dette da Montale in una telefonata del 1973, che infatti sono virgolettate (p. 56), sinora mai citata in nessuna occasione dalla Cima; il testo della sua lettera, riportato per esteso, di cui evidentemente l’autrice doveva aver tenuto una minuta (ma bisognerà vedere se l’originale è rimasto fra le carte di Contini), e che comunque sarebbe addirittura antecedente all’uscita in libreria di Una lunga fedeltà, che pare essere stato distribuito a partire dalla fine e non dall’inizio del settembre 1974; la risposta di Contini, che forse si riferisce a un momento o a un contatto successivo.

Tutto il libro si basa su affermazioni difficilmente verificabili e su ricostruzioni di dialoghi che dovrebbero risultare addirittura fedeli, dato che le parole di Montale sono riportate sempre fra virgolette, ma tali ovviamente non possono essere. Soprattutto sorprendono, in tanta abbondanza di riferimenti minuti, alcune strane omissioni. Non si dice, per esempio, quando esattamente il poeta avrebbe concepito l’idea della pubblicazione postuma, e nessun accenno viene fatto a quei testi che invece avrebbero potuto senz’altro corroborarla, come il raccontino In un albergo scozzese, risalente al 1946. Possibile che Montale abbia rinunciato a far presente, fra così tante, infime notizie fornite, la lontana matrice del progetto, mentre invece esso deriverebbe da un’idea sorta all’improvviso (e oltretutto prima alla Cima), quella di un diario parallelo fra l’anziano poeta e la sua giovane interlocutrice (cfr. p. 34)?

Quando si tratta di giustificare la notevole differenza di tratto rispetto agli autografi sicuri degli anni Sessanta e Settanta, la Cima segnala che Montale scriveva ancora spedito quando si trovava in una condizione psicologica di sicurezza, in particolare con lei e con Vanni Scheiwiller (p. 35): ora, a parte il fatto che bisognerebbe trovare altri autografi, oltre a quelli del Diario postumo, con le medesime caratteristiche, il che per ora non pare sia accaduto, risulta singolare che l’autrice non ricordi che questa stessa affermazione era stata fatta da Maria Corti in un’intervista uscita su “Repubblica” il 4 settembre 1997 (tuttora rintracciabile in rete: http://ricerca.repubblica.it/ repubblica/archivio/repubblica/1997/09/04/montale-dopo-il-parapiglia. html): la studiosa ricorda appunto un incontro con il medico di Montale che supponeva che egli non fosse affetto dal morbo di Parkinson, bensì da una forma di tremolio nervoso in presenza di estranei o di persone poco gradite. È esattamente quanto ricorda anche la Cima, solo che la diagnosi sarebbe stata chiesta appositamente a un non meglio precisato “amico medico” (p. 36). Fra le due versioni esistono alcune incongruenze, ma soprattutto: perché la Cima non ha avvalorato all’epoca l’affermazione della Corti e perché non la cita ora? E dovremmo credere che tutti gli altri autografi di poesie dell’ultima fase siano stati scritti in momenti di particolare tensione, visto che in genere appaiono molto tremolanti?

Ma ancor più sorprendente, rispetto all’intervista alla Corti appena citata, sembra il fatto che la Cima non ricordi, in mezzo a una pletora di dettagli insignificanti, un fatto davvero decisivo. Infatti, nell’autunno del 1973 la Corti avrebbe visto consegnare un “notevole gruppo di fogli manoscritti”, che dovevano costituire una buona parte del futuro Diario. Ora, se si vedono le pagine della Cima dedicate al 1973 (pp. 55-65) nessun accenno riguarda questo evento così importante, che non viene menzionato nemmeno in altre pagine del volume. Come giustificare una simile distrazione? Proprio un fatto così significativo viene omesso, forse perché già citato dalla Corti? Ma allora il testo della Cima contiene solo e soltanto la sua personale, circoscritta, idiosincratica verità, sebbene risponda puntigliosamente a tante obiezioni che le sono state mosse?

Purtroppo, come si vede anche da questo minimo esame, il volume non viene a chiudere definitivamente la questione del Diario postumo: e altri dubbi, paradossalmente, si ricavano confrontando il testo con alcune vecchie affermazioni del prefatore Cesare Cavalleri riportate in rete (http://www.ares.mi.it/index.php?pagina=evento&id=295), per esempio riguardo alla conoscenza esatta o meno, da parte della Cima, delle lettere-legato che le cedevano i diritti sulle pubblicazioni delle opere montaliane. Continua a rimanere uno iato fra l’ideazione dell’iniziativa, che sembra autentica, e la sua realizzazione, riguardo alla quale permangono molti buchi neri. E a una ricognizione minuziosa dei testi, si scopre che alcuni particolari che possono assumere il valore di indizio non quadrano: per esempio, stando agli autografi e all’edizione critica, Montale solo qui avrebbe usato alcune grafie o forme mai impiegate in nessun altro testo in poesia o in prosa (su ciò tornerà la dott.ssa Veronica Ribechini, autrice di una tesi di laurea sull’argomento, discussa presso l’Università di Pisa nel 2009-10). Si può ipotizzare che solo nei testi del Diario Montale abbia cambiato alcune abitudini scrittorie tenute costantemente per tutta la vita?

In conclusione, il testo della Cima può senz’altro contenere notizie esatte e può essere utile (facendo i dovuti controlli) a ricostruire la genesi e quindi a spiegare molti componimenti del Diario, altrimenti enigmatici: certo, le circostanze rievocate sono del tutto personali, e quasi sempre maggiormente inerenti alla biografia della Cima, che è la vera protagonista del libro. Montale sembra aver risposto alle sue molte sollecitazioni, anche quando gli venivano citati pensatori o scrittori non molto graditi (come Teilhard de Chardin, viceversa carissimo alla Cima: cfr. p. 139): e in ogni caso il Diario postumo dimostra, così stando le cose, la sua natura di libro nato casualmente e senza nessuna fisionomia, anche rispetto a quelli coevi inseriti nell’Opera in versi. Restano però parecchi interrogativi, specie sull’organizzazione dei materiali (e sulla loro autografia), che il libro, nel suo scialo di triti fatti, contribuisce ad aumentare o a rinforzare anziché a sciogliere.

*Si ripubblica il testo uscito in «Italianistica», XLII,1, gennaio-aprile 2013, pp. 288-290 (sezione Notiziario).

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OLYMPUS DIGITAL CAMERA*Alberto Casadei, nato a Forlì nel 1963, vive e lavora a Pisa, dove ha studiato presso la Scuola Normale Superiore. Come docente di Letteratura italiana ha pubblicato numerosi studi, fra cui Poesia e ispirazione (2009), Poetiche della creatività (2011), Dante oltre la “Commedia” (2013). Come poeta, ha pubblicato numerosi testi su rivista e le raccolte I flussi vitali (2005) e Le sostanze (2011), vincitrici o segnalate in vari premi nazionali. Coordina il premio letterario “Stephen Dedalus”.


La mezzanotte di Spoleto

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di Guido Monti*

show_image.phpIl libro La mezzanotte di Spoleto di Paolo Valesio, edito da Raffaelli (2013), ha una compattezza visionaria forte di memoria quasi espressionista; un grande occhio guarda gli spazi metastorici di certe chiese e teatri della città di Spoleto e due figure che dentro vi transitano tutte tese all’ascolto di cori e rappresentazioni: “ …/A Spoleto non passeggiavano,/ ma si trasferivano: da una strana/occasione in un’altra./ Ogni angolo un deserto palcoscenico/da cui erano appena via guizzati/i fantasmi degli attori/(fantasmi di fantasmi)/…”. Non è un caso che nella chiesa di San Giovanni e Paolo, i due visitatori si imbattano nella raffigurazione del vescovo di Canterbury Tommaso Beckett martire di tutti i tempi contro i poteri costituiti e violenti “…/Discesero poi cauti una scaletta/di legno lungo il muro di sinistra/coi resti di un affresco…/”, e non è un caso che Francesco d’Assisi serpeggi tra le navate e gli spazi circostanti; l’uno e l’altro in modi molto diversi, sono uomini della resistenza, delle resistenze ma anche delle supreme solitudini che vestono di ascesi chi veramente sa coltivarle; ed allora come non avvicinare queste nitide visioni spoletine a quelle che l’autore tratteggia perso nella New York di fine novecento. Perso dico esistenzialmente ed è in questa elementare equazione lontananza-mancanza-perdita, che ad ogni uomo è data la possibilità di giocare la carta dell’arte come strumento di riconquista, di riconoscimento autentico del sé: “ …/Nato secondo anagrafe in Italia-/ e a quella radice, fedele-/ lui sa però di essere/Renatus a New York./ Si sente a casa soltanto/quando cammina impolverato e solo/lungo certi isolati di Manhattan/…”.

E proprio tra questi camminamenti diacronici che percorrono tutto il libro, non importa se al museo metropolitano o in certi luoghi di Spoleto, si addensano le domande provocate e provocatorie : “ Che cos’è mai un uomo spirituale?//..” ed ecco, dagli spazi appunto del postmoderno o da quelli dell’evo antico le rade ma forti risposte: “ …/Ciò che importa è restare fedeli/ all’anima del passo/ che chiama un altro passo/ e così via e sia/”. La minuzia poi dei transiti interiori, si compatta con i corpi naturali ed arborei che si vestono appunto di accenti estenuati, quasi petrarcheschi ed anche luziani: “ …/egli quando distende/sopra gli occhi il ricamo delle palpebre/la vede:/…./la morbida la dolce/ più di ogni segno, la rada/l’insenatura oltre fiume/ l’accennante, insensibil/ mente declinante- la riva buia/…” divenendo storie che sono quasi lo svolgimento moderno di quelle classiche affrescate nelle chiese che fanno a loro volta da proscenio al coro dei cantori: “ Oggi dietro le femmine del coro,/dietro le cristiananti americane,/si vede un altro e differente ploro:/ i volti di due tragiche estranee/…”

Ed in questa spinta emozionale esistenziale, Valesio ci restituisce il fare di Francesco che continua a parlarci della sua scandalosa modernità così dentro il mondo, che pare ultramondana e quindi inservibile all’uomo mondano di ogni tempo; ma l’autore và oltre, si spinge e ci spinge con gli occhi dello stesso povero d’Assisi dentro le spinte centripete dei luoghi umbri, che del suo genius sono piene reinterpretando nuovamente il grande quadro delle Laudi con tutte le cose animate e care al Santo. Chi parla mi domando Valesio o Francesco: “ Gli animali sono canonizzati/dalla mite processione/del loro sguardo/forse curioso forse no/…” ed ancora: “…Gli animali, tutti, sono/agli uomini quasi uguali. /Ma i confini non sono cancellati:/…”. E tornano ancora memorie luziane: “…/A che mai giova il moto,/ a che la quiete?/” e come Luzi nel Viaggio terrestre e celeste con Simone Martini così Valesio continua ad entrare in ogni pagina nel gesto di Francesco: “ Ogni giorno che vola, egli sente/dentro di sé un rombo premente:/son le parole che vorrebbe dire/ prima che scocchi l’ora del finire,/…” ed ancora: “Preferisci la rosa oppure le spine?/Si chiede quando guarda le rovine/della sua a volte vita sorridendo/come dentro se stesso discendendo//…”.

Nel finale ecco che l’autore viene come ridefinito nella sua identità, torna la distanza discreta del discepolo dal maestro: “Ha seguito le orme di Francesco/lungo un erto sentiero secco bresco…” distanza tutta tesa all’avvicinamento nei tempi lunghi dello spirito che si da per fede e non per ragionamento, come sembra ammonire l’ombra del santo al suo inseguitore-camminatore nel dialogo finale: “…//fatti disindividuo, fatti cervo/che non ha occhi per il santo idolo/ma segue solo il richiamo e lo stimolo”. Ecco La mezzanotte di Spoleto è un libro sugli interrogativi primari del vivere e come dice Alberto Bertoni in prefazione è un libro escatologico, cos’è l’uomo? dove va? quali i nessi che regolano i rapporti regalando a volte, in questo mondo, vicinanza agli uomini di buona volontà?.

La mezzanotte di Spoleto è tra i volumi segnalati al premio Guido Gozzano 2013

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guido monti*Guido Monti è nato a San Benedetto del Tronto nel 1971. Laureatosi a Bologna, nel 2007 pubblica Millenario inverno (book editore) il suo primo libro, con postfazione di Alberto Bertoni, finalista ad Orta S.Giulio; esce nel 2008 una sua plaquette fuori commercio dal titolo Eri Bartali nel gioco per le Grafiche Fioroni a cura di Eugenio De Signoribus. È presente nell’Almanacco dello specchio a cura di M.Cucchi e A.Riccardi (Mondadori, 2009). Collabora con la Gazzetta di Parma e ai blog poesia del corriere della sera e di rai news24



Marco Sonzogni: “ESEMPÎ. Bestiario minimo” (6 poesie)

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 di Marco Sonzogni*

image001esempio (dal latino exemplum, der. di eximere ‘prender fuori’) s.m. 1.Fatto particolarmente illustrativo di una generalità teoricamente scontata…  Nella letteratura devota medievale, racconto a scopo edificante… 2. Qualsiasi individuo che rappresenti intera tutta la sua specie… 3. Caso individuale proposto all’altrui ammirazione o imitazione o riprovazione… · Ammaestramento, ammonimento… [Devoto-Oli, Il dizionario della lingua italiana]

1. Epifanie agostane

 I

 Come ’l ramarro sotto la gran fersa
del dì canicular cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa

—Dante, Inferno XXV 79-81

Due del pomeriggio di ferragosto, quando anche il silenzio suda, sono stranamente vicino al riflesso verdeblù di un ramarro che sfila sulla graticola grigia dell’asfalto. Che sia la mia sfida, il mio destino?

II

le scarpe di chi cerca sull’asfalto
chissà che cosa

—Alberto Nessi, ‘Roveto’

L’afa da queste parti in questa stagione liquefa l’asfalto in uno specchio molle e malefico: metto a fuoco solo il margine di un fosso e solo dopo lo scatto scuro di una folaga. Cosa mi sono perso?

2. Quello che succedeva poi

 I

 Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato

Missale Romanum

Intrise di vin santo e saliva s’ammorbidivano sulla lingua e s’incagliavano al palato. Ma nell’armadio in sacrestia prima della messa sembravano sottili monete di carta che di carta sapevano e di tarme. Quello che succedeva poi sull’altare era traduzione: l’altra parola troppo vicina a un miracolo per trovare spazio in questi versi già condannati dalla mia terrestre incapacità.

II

om tad vishnoh paramam padam sada
pashyanti surayo diviva chakshur-atatam
tad vipraso vipanyavo jagrivamsaha
samindhate vishnor yat paramam padam
Rig Veda 1.22.20

Non importava con quanta perizia e con quanta intensità scrutassi ogni increspatura e ogni sfumatura di uno stagno torbido di segreti e di sfide. Contava solo stare fermi e aspettare. Sì perché sotto succede sempre molto di più di quanto sopra possano predire occhi seppure esperti. Sceso da tempo il sole, la fronte perlata di luna, lo sguardo rassegnato alla sconfitta, finalmente uno strappo scuoteva il nulla di fatto. Quello che succedeva poi era un tira e molla finché sfinito affiorava di traverso un pesce gatto.

3. Così

I

Ha il colore ineffabile del tufo
il geco che sul muro apre di scatto
le micidiali mandibole
—Pietro De Marchi, ‘Cena con geco, a Montepascali’

Tra le lapidi al cimitero
o nella ghiaia in giardino
ho inseguito tante volte invano
l’ombra bruna di una lucertola:
e quella sola volta
che ne ho fortunosamente fermato
gli scarti furba mi ha lasciato
in palmo di mano: la sua coda
un virgola giustamente espunta
da un fraseggio non suo.

II

birdf51v

…i pipistrelli sono oscurità in miniatura

—Les Murray, ‘Ultrasound di pipistrello’

Come l’ombra che a volte anticipa
veloce la pupilla alla prima luce, così
compariva il pipistrello al primo buio.

In un’umida sera d’estate qualsiasi
lo metto a fuoco per un istante:
non più il diamante scuro

assopito alle travi di un portico
nel silenzio pieno di mezzogiorno
ma una mezzaluna siluettata

sulla nuvola epilettica di moscerini
che orbitano illusi al sole diafano
di un lampione – ultimo testimone

nella piazza ormai sfollata che anche
qui oggi come ieri e come l’altro ieri
ci sono stati inizi e ci sono state fini.

4. Status quo

I

Niente da fare.

—Samuel Beckett, Aspettando Godot
 

Negli annali dell’afa un altro agosto asfittico.
che ribolle e ricorda l’inferno dantesco.
Raccolgo il messaggio: e non mi dà conforto
sapere che sono di qui. Eppure la vista di un airone,
immobile sentinella degli specchi d’acqua
che qui covano il nuovo riso mi rende un’ombra
di sorriso: a volte stare fermi è il modo migliore
di muoversi.
Corsi e ricorsi
e ricordi che uso come corda per impiccare la noia.

II

 corse e, correndo, li parve esser tardo

Dante, Paradiso XI 81

Anni di correre eppure sei sempre
indietro. Così mi dico da tartaruga
quando da lepre m’arresto esausto.

5. Spunti

I

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quando non ci sarai più né io
sarò più con te
insieme sciolti nelle acque
un altro airone, un altro sguardo
altre parole simili a queste

                        —Antonio Porta, ‘Airone’

Un airone cinerino
per i campi di prima mattina:
dal treno lo distinguo appena
tra arabeschi di brina.

II

si è sfatta
la trama dei giorni
ciò che stagna
ha forza immensa
regna la biscia

—Roberta Borsani, ‘Il rosaio d’inverno’

Nello specchio sporco di un fosso
i dintorni di una giornata esaurita.
Sguscia una biscia ma non posso
fare mia quella promessa di vita.

6. Glosse

I

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un grosso bue
or ora m’è salito sulla lingua

―Eschilo, Agamennone

Le mie digressioni
posti di blocco
sull’autostrada
di tanta ignoranza.

II

pietà lo muove: ora dovrà tenere la mano
come un ramo a sole e pioggia per settimane
finché i piccoli schiusi sapranno volare.

                        —Seamus Heaney, ‘San Kevin e la merla’

La merla o il santo? Non saprei.
Ma avendo le ali, credo, volerei.

________________________________________

Marco Sonzogni*Marco Sonzogni (1971) lives in Wellington, New Zealand. He holds degrees from the University of Pavia (Almo Collegio Borromeo), University College Dublin, Trinity College Dublin, Victoria University of Wellington and the University of Auckland. A widely published academic, he is an award-winning editor, poet and literary translator. He is a Senior Lecturer in Italian with the School of Languages and Cultures at Victoria University of Wellington, where is also the Director of the New Zealand Centre for Literary Translation. His literary translation projects include Swiss-Italian poets (Oliver Scharpf, Alberto Nessi, Pietro De Marchi, Fabiano Alborghetti, Giorgio Orelli), New Zealand poets, and the collected poems of Seamus Heaney (Meridiano).


“Racconto sotto il naso” di Renato Grilli

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di Renato Grilli*

«Gli Angeli» di Ulisse Sartini

«Gli Angeli» di Ulisse Sartini

Ecco, vedi, ti ho ascoltato. A lungo, senza interromperti. Ed ora che hai finito ti dico. Ti dico: niente. Perché davvero niente, dopo quello che hai detto, posso aggiungere. Perché tu ci ragioni e dici: ma chi è dunque quel lui che dice, chi l’altro, o l’altra, che stanno ad ascoltarlo. Scusa, ma posso solo dirti che non lo so, non me lo sono mai chiesto. Se a te sembra importante saperlo, o indovinarlo, bene, ti dico, ma sono problemi tuoi, io non ho davvero niente che possa farti luce, che sappia guidarti nel tuo mistero. Per me è tutto più semplice, uno parla e (forse) uno ascolta. Erano in due, d’accordo, ma non so chi, è solo che ci vogliono entrambi, quando una voce dice. Io che penso e parlo so? No, io trascrivo solo. Entro e dipingo con parole quel mondo, in cui sono appena capitato. Piuttosto, se senti l’affetto con cui lo dico, è a te che chiedo: quali fantasmi ti si sono svegliati dentro? E ancora: che cosa volevano quei fumi d’ansia, quelle carcasse d’amore, da te? Che tormenti vani e falsi volevano proporti, come a un bel gioco? Ci sei cascato? Scusami, lascia che ti dica, allora. Se quelli si sollevano ancora dai comodi, benefici depositi dell’oblio, tu non tremare. Mettiti tranquillo e parlagli, spiega loro tutto, se ti serve usa la tua stessa fantasia contro di loro. Ma senza contrastarli, anzi porgi loro con cura e grazia la Grande Consolazione, la tua, la nostra, Certa Salvezza.

… Ma no, credimi, non c’è altra strada. Non dirlo a me di quel perfido gusto impaziente che ti prende di chiamarli e chiamarli ancora e ancora interrogarli. Lo conosco, non dirlo a me, che ho provato così bene a fondo il folle piacere che la strenua lotta, il continuo conflitto con loro ti regala. Te lo ripeto: rinuncia. E tu ripetilo a te e ripetilo a loro. Rinunciate. Lasciali perdere quei messaggeri perduti, quei pedanti avversari. Canta loro la gioia fine che le certezze conquistate ti hanno dato, la vita dolce e ariosa, il sorriso pieno, il cuore sollevato e libero che oggi, da allora, corrono a balzi sulle cime del tuo montuoso paesaggio.

Sì, ecco, lo vedo, va meglio ora. Qualcosa nel movimento lieve del tuo volto me lo dice. Anche se non so bene descrivere che cosa esattamente. Forse lì, quegli angoli delle narici, lì sotto il naso, che s’arricciano un poco. Molto meno di un sorriso, va bene, ma sembra proprio che lì, da lì nasca il segno del tuo nuovo sentire. Proprio sotto il naso, chi l’avrebbe mai detto? E ora vuoi che ti racconti ancora. Vuoi davvero che lo faccia? Va bene, ascolta allora, solo pochi minuti.

Saranno state le tre di notte, l’ora dei morenti. E, come spesso succede, ero ancora sveglio. E se sei ben sveglio ed esci di casa a quell’ora t’assicuro che la provi davvero, dentro quel profondo e largo silenzio del mondo, quella strana sensazione che tu sei quel qualcuno che sta vegliando, perché bisogna che qualcuno lo faccia il lavoro di vegliare sul mondo. E nel silenzio quieto s’era ad un tratto alzato un sibilo, un rumore. Era il vento, un alitare

«L'angelo ferito» di Hugo Simberg

«L’angelo ferito» di Hugo Simberg

sostenuto, uno di quegli zefiri incostanti che fanno mulinare cartacce e foglie e suonare le fronde degli alberi e oscillare le luci dei lampioni, flebili e lontane. Ed ecco che d’improvviso al silenzio di una piccola piazza deserta si udirono passi, affrettati e incerti, lontani. Nessuna ombra li accompagnava e, per quanto rivolgessi lo sguardo ad ogni angolo, niente appariva. Qualcosa, mi dissi, bisogna pure che si mostri, e mi fermai sospeso in ascolto. Allora lo scalpiccio si fermò anch’esso, e dopo poco riprese più lento e guardingo. L’ombra apparve infine nell’angolo più scuro e remoto della piazza, ma l’ombra sola, solo quella, osava affacciarsi da uno spigolo. Non comparve

nemmeno appieno, ma io la sentivo. Percepivo da quell’ombra di quel nascosto vivente persino lo sguardo, teso e pieno di timore. Un altro sonnambulo, un collega, un fratello, dunque? O peggio un suicida, un furente bestemmiatore, schiavo di amara vita e di biechi fantasmi? Chi sei, pensai senza chiedere. Mi giunse in risposta un pensiero, mi raggiunse come un odore fin sotto il naso, un che di acre di sudore e di umido del bosco. Il pensiero diceva qualcosa, ne decifrai pian piano il senso. Stai lì fermo, stai quieto, diceva, rinuncia al tuo voler sapere. Queste parole mi pareva scandisse nella mente. Allora acconsentii: respirai a lungo il vento che mi veniva addosso, allungai un poco le braccia tese, mi misi a sedere e distesi le gambe. Chiusi gli occhi e, come un pensiero buio, risposi, come una voce più forte della voce, senza parlare. A che altro? Azzardai. A te, a te. Io rimasi muto, che altro potevo fare? Non sei qualcuno, non sei nessuno. Se vuoi libera il tuo pianto, lascialo andare, ma non c’è fiume che non abbia corrente, che non conduca infine al mare aperto. Che potevo fare? Dissi sì, e ancora sì. Allora l’ombra si ritrasse, e quello che mai avevo visto si rivelò, scomparendo. Mi rimase forte tra le narici e il labbro solo il sapore sottile di una scintilla di sudore. Poi più niente e meno ancora tornando a casa, nessun pensiero m’accompagnava nella notte. Ero solo e sollevato. Tremavo e non temevo nulla.

Sentinelle e nient’altro. Messaggeri di nulla, chi vuoi che sappia, chi pensi che possa ascoltare davvero? Solo sentinella dunque, a custodia di che, questo solo tu puoi saperlo. A te tocca custodia e messaggio. Ma ti prego non rivelarlo, non è tempo di allievi, se mai c’è stato, non è tempo di maestri, se mai è tornato. Non hai nulla da gridare, da dire ad altri, da far giungere a chi ami. Le sentinelle sono sole, non per scelta o maledizione, ma per insondabile ambiguo destino. A loro tocca guardare lontano, senza perdersi d’animo, anche se può accadere che, intenti come sono allo sguardo verso il mondo, capiti loro di dimenticare quello che, alle spalle, difendono. Viene allora una strana, profonda malinconia, che toglie loro le forze, al punto che anche voltarsi per tornare a vedere, per abbeverarsi nuovamente alla fonte, diviene un’impresa titanica. Sentinella, non badarci, non voltarti! Potresti rimanere delusa, ti dice una voce. Oppure peggio: potresti rimanere accecata, persino potresti – e sarebbe la catastrofe – rimanere così, senza più la forza di tornare alla tua vita, al conforto triste della tua missione eroica di sentinella … Ma non senti come la voce cambia tono, dicendolo? Non senti che ti sta come prendendo in giro? O sfidando ancora? Che in fondo si vuole una sentinella che sappia essere lieve, che sappia anche sorridere, che, se capitasse a qualcuno di guardarle il viso, possa vedere intatto quel mezzo sorriso, quella piega viva della bocca, quell’incerto sguardo, che ha imparato dalle immagini degli angeli?

E adesso vieni, avvicinati. Siedi qui accanto a me, alla mia destra. Non pensare a nulla, saluta la tua, così la chiami, anima. E sciogli i brividi che ti percorrono il corpo. Abbandona la tua testa qui, sulla mia spalla, e chiudi gli occhi. Vorrei tanto sentire il tuo respiro placarsi pian piano, fino a che dal profondo del busto giunga a farsi sempre più rado quassù, sul petto, sul collo, sulla bocca. E quando il più fine sospiro t’avrà raggiunto sotto il naso, allora, solo allora io ti bacerò. Labbra su labbra, lingua più lingua, sereni e assenti come cieli stellati, immensi e bui come galassie infinite.

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Grilli*Renato Grilli è nato a Nereto (TE) il 31 dicembre 1953. A Pescara, mentre frequenta il liceo classico, incontra il teatro e debutta con Alienus, regia di Gianfranco Varetto e Ida Bassignano. Al  DAMS di Bologna studia storia e critica dello spettacolo, regia e drammaturgia, con Squarzina, Gozzi, Scabia, Celati e altri. Si laurea con lode nel 1983 con la tesi Ricerche di idolatria moderna – Flipper the beautiful, relatore Paolo Fabbri, semiotico, presidente Umberto Eco. Attore e aiutoregista lavora con varie compagnie, tra cui Teatro Stabile dell’Aquila, T. Regionale Toscano, ATER-ERT, Teatro Poesia Bologna, Doppio Teatro Roma.  Al cinema è il sosia muto di Kafka in “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Negli ultimi anni ha scritto testi originali e adattamenti per la scena per spettacoli e recital. Ha partecipato a reading di poesia, presentando le sue inedite “ballate balbuzienti” e altre sillogi; ha messo in scena e in musica poesie di Leopardi, Petrarca, Carducci, Marin, S. Toma. Insegna tecnica teatrale e lettura poetica in corsi, laboratori e stage. Collabora con quotidiani e riviste. Attualmente lavora al Progetto “Canzoniere Italiano”, poesia italiana in musica, spettacolo “da esportazione” e su “Viva la poesia viva!”, laboratori didattici di poesia “giocosa”. Vive nel  Salento, nei pressi di Otranto, dal 2002.


Sciugarfrì di Rosario Mastrota

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                                                                                                                di Ernesto Orrico*

9788896859872 - Copia

“Le mani vanno sempre tenute lavate e pulite”, diceva mio nonno. Un calabrese d’altri tempi, tozzo e rozzo. E lo ripeteva mio padre: cosentino testardo. E io, figlio e nipote di calabresi, sono nato a Milano. E mò sono un calabrese-milanese con le mani pulite. 
Così ha inizio il racconto Panenostro che fa parte dell’ultimo volume di Rosario Matrota, Sciugarfrì,  Loquendo editore, Mortara, 2013.   Con  Panenostro  Rosario Mastrota si è classificato terzo al concorso per monologhi teatrali “Per Voce Sola” indetto dal teatro della Tosse di Genova. Lo spettacolo tratto dall’omonimo racconto, per la regia dello stesso Mastrota e interpretato da Ernesto Orrico, debutterà a febbraio 2014 nella stagione del Teatro Tordinona di Roma

***

Rosario Mastrota è un attore di teatro. Non solo, è un autore di teatro. Sì ma scrive anche racconti. O sono i suoi testi teatrali sotto mentite spoglie? Semplicemente tutte queste cose e altre ancora. Mentre scrivo, sfoglio la sua raccolta di poesie “Chiassi” e ricordo il delizioso e acerbo cortometraggio Rosso. Per dirla in breve, e senza girarci ulteriormente intorno, Rosario è uno scrittore. Uno che il mondo lo affronta in punta di penna. Uhm no di questi tempi forse si potrebbe dire, in punta di tastiera.

Scrivere, riscrivere, modificare, cancellare, adattare e via così a cercare spazio nell’angusto mondo della “produzione culturale” italiana. Perché anche di questo si tratta, farsi spazio, erompere con personalità e gusto in questo mare magnum di italiani tuttiautori, tuttiregisti, tuttiattori, tuttimusicisti, tuttipolitici, tuttitutto. È la contemporaneità baby e tu non puoi farci niente. Puoi solo abitarla con coscienza o indifferenza, con disincanto o attaccamento morboso e Mastrota nei suoi scritti la contemporaneità decide di attaccarla proprio alla gola. Prima la acchiappa in maniera morbida immergendo il lettore in scenari che appaiono consueti, consegnandogli personaggi che pare di conoscere da sempre, ma all’improvviso arriva il morso dell’autore e tutto cambia. Quella che sembrava una realtà conosciuta, familiare, rassicurante e definita diventa abisso, caduta in una realtà geneticamente modificata, aumentata di estrogeni narrativi, gonfiata da artifici linguistici che arrivano diritti diritti dal mondo dei media. Dalla televisione, madre-cagna di una generazione che negli anni ’80 e ’90 del Novecento si è nutrita alla sue oscene, voluttuose e calde mammelle.

E non è forse questo il compito della letteratura? Altrimenti ci troveremmo davanti alla cronaca, magari anche ben fatta, ben scritta, minuziosa e precisa, ma quando leggiamo un racconto, un romanzo, una fiction cosa cerchiamo veramente? Un inabissamento, una caduta verticale in un buco nero che paradossalmente è lì per svelarci la complessità del mondo che respiriamo, per costringerci ad aprire gli occhi, un buco nero che acceca con la sua potenza, che dopo lo stordimento del buio ti rivela la luce della conoscenza, quella vera, quella che solo la fantasia più sfrenata è capace di animare. È una realtà problematizzata, quella che si para davanti all’occhio di chi legge questi racconti, per il lettore, le certezze si smontano e gli interrogativi si moltiplicano, la catarsi è allontanata inesorabilmente, e il gusto post-moderno, gravido di confusione stilistica e formale,  conduce verso una narrazione come forma di conoscenza.

Questi scritti sono come fari accesi sulla società italiana degli ultimi anni, c’è tanto territorio, ci sono i nostri spazi comuni, le nostre vie, le nostre case, le nostre piazze, dalla provincia alle città, passando dalle amate montagne del Pollino si srotolano davanti ai nostri occhi frammenti spaziali popolati da personaggi che esplodono fuori dalla pagina per ricordarci il nostro vicino di casa taciturno, la nostra compagna di scuola persa di vista, il nostro lontano parente da tutti definito “pazzo”… o semplicemente per metterci davanti parti di noi stessi, noi sempre più precari, sempre più attaccati alla possibilità di sopravvivere solo grattando un biglietto o prendendo un aereo per fuggire in Australia.

Prove per la rappresentazione di "Panenostro"

Prove per la rappresentazione di “Panenostro”

Oppure sognare, sembra essere questa l’altra chiave di lettura che Mastrota traccia sulla carta, sogni allucinati dagli esiti ora comici e rassicuranti ora violenti e tragici. Una ricerca continua dello spiazzamento, del colpo teatrale, ancora della luce che stordisce o rivela; forte della sua pratica di palcoscenico, l’autore dissemina i suoi racconti di scene in cui la quarta parete è inesorabilmente abbattuta, ci porta dietro le quinte e ci fa respirare la stessa aria degli attori/protagonisti dei suoi scritti.  In quest’epoca di crisi economica strisciante, in cui l’investimento economico per produrre teatro va via via assottigliandosi, l’autore teatrale trova il modo di produrre i suoi spettacoli, una produzione a bassissimo costo manifatturiero e ad altissima intensità culturale, il racconto.

Non ci troviamo difronte a testi intimisti e autoreferenziali, anzi, questi racconti sono tutti proiettati verso fuori, anche quelli dove l’attività onirica dell’autore è più evidente/invadente, nella gran parte si ritrovano elementi “critici” riferibili alla società contemporanea, come piccole pietruzze messe lì  a fermare l’ingranaggio narrativo e a riportare il lettore ad un ricordo, ad un immagine che riguarda in maniera prepotente qualcosa di già visto, di già vissuto, ma filtrati attraverso la lente deformante dell’invenzione finzionale e ci si ritrova sbattuti davanti ad un mondo in cui più nessuna famiglia è normale, in cui ogni nucleo sociale è vittima di un errore di sistema, in cui ogni individualità è sottoposta ad un fallimento ineluttabile.

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mastrota fotoRosario Mastrota ha studiato filosofia all’Unical di Cosenza. Contemporaneamente si forma presso i Corsi di Formazione Teatrali di Scena Verticale, con la Compagnia Scena Verticale è interprete negli spettacoli Hardore di Otello, Kitsch Hamlet, Elettra, Le tre male bestie e ‘U Tingiutu. Nel 2008 fonda Compagnia Ragli, per la quale scrive e dirige Otello-sugarfree, N.O.M., Ragli, L’imperatore, Fine, Salve Reggina!, Ragli pour femme, L’Italia s’è desta. Si perfeziona con Gigi Gherzi, Motus, Yves Lebreton, Massimiliano Civica, Emma Dante, Alfonso Santagata, Riccardo Caporossi, Enzo Moscato, Pippo Delbono. Scrive e dirige Rosso e Cultura (cortometraggi). Scrive diversi testi teatrali, tra cui Fine, Salve Reggina! e L’Italia s’è desta, finalisti o vincitori di alcuni premi nazionali per la drammaturgia (Premio Hystrio, Premio Dante Cappelletti, Premio Centro alla Drammaturgia). Collabora all’organizzazione del festival sui nuovi linguaggi Primavera dei Teatri (edizioni 1999-2009). Pubblica una silloge di poesie Chiassi, per Pellegrini Editore.

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ern orr*Ernesto Orrico. Attore, autore e regista, laureato al Dams dell’Università della Calabria, ha studiato con Maurizio Grande, Valentina Valentini, Marcello W. Bruno e Francesco L. Gigliotti. Ha frequentato laboratori teatrali con Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi del Teatro Valdoca, Lyudka Ryba del Cricot 2, Francesco Scavetta, MK, Vincenzo Pirrotta, Peppino Mazzotta. Ha fatto parte di Teatro Rossosimona. Ha lavorato con Scena Verticale e Centro RAT – Teatro dell’Acquario. Dal 2003 collabora con il Teatro della Ginestra di Cosenza. Ha curato il libro Nuovo Teatro Calabria (le Nuvole 2008), ha pubblicato il monologo ‘A Calabria è morta (Round Robin 2009) e la raccolta di poesie Appunti per spettacoli che non si faranno (Coessenza 2012).


L’anguilla sfuggente dal poeta al traduttore (in memoriam Giorgio Orelli, 1921-2013)

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di Marco Sonzogni

UnknownDue grandi poeti come Eugenio Montale (1896-1981) e Seamus Heaney (1939-2013) – entrambi vincitori del Premio Nobel per la Letteartura (nel 1975 e nel 1995 rispettivamente) – hanno dedicato versi importanti a un animale che in apparenza di poetico ha ben poco: l’anguilla. A loro va aggiunto, senza ombra di dubbio, un altro grande poeta che ci ha appena lasciato: il ticinese Giorgio Orelli (1921-2013), una delle voci più alte della poesia italiana dei nostri tempi. Nella poesia che segue Orelli descrive una scena, per così, tipica di un mercato di pesce: avvitandosi con tutte le forze che le sono rimaste, una piccola anguilla sottratta ad acque fluviali si catapulta fuori dalla cassa di polistirolo in cui è stata adagiata su un sottile letto di ghiaccio, cadendo sul porfido della piazza, dove è però subito riacciuffata, il suo destino segnato. Queste immagini in un certo senso descrivono anche gli sforzi del poeta e di chi prova a tradurne i versi.

 
Giorgio Orelli 

Le anguille del Reno

Le anguille che ci arrivano dal Reno
sono dure a morire. Stimolate
dal pescivendolo s’agitano
nerastre in scarso ghiaccio
tra un bianco di polistirolo.
Il compaziente fatto compratore
ne chiede due. Le pesa una donna
che a un tratto grida: è scappata.
Con un guizzo più certo la più piccola
è balzata dal piatto sui porfido
della piazza, ma è subito calma,
è facile riprenderla.
Tagliarle a pezzi non basta
per farle cessare di vivere.
*
The Eels from the Rhine

They die hard the eels that come to us
from the Rhine. Stirred up
by the fishmonger they wriggle
blackish in the crushed ice
inside the white polystryrene.
A pitying customer
asks for two. A woman weighs them,
and suddenly screams: one has escaped.
With a clear leap the smaller one
jumped from the scale to the marble
of the slab, but it calms down at once,
it’s easy to snatch it back.
Chopping them up is not enough
to get them to stop living.

Traduzione in inglese di Marco Sonzogni


Due percorsi inediti di Alessandro Ramberti

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Giovanni e Fiammetta

Compreso in questo involucro celeste
proseguo oscillando lo sguardo
fra le punte dei piedi e quelle di roccia
scavalco in altezza le torri cittadine
respiro
l’odore del bosco
si offre mutevole
al mio andare
in equilibrio sui sassi delle virtù
affronto il guado scivolo, cado
mi bagno e ferisco
ma continuo
la salita di aria
di chiodi e di luce
disegna una croce
dai colori scintillanti in ogni gamma
sopra l’oceano dei monti
s’intravede
il paradiso.

   ***

Crescendo

A volte le parole sono troppe
idee disperse che minuscole
vorrebbero fissare il grande Spazio

I nomi qui non sono che ricordi
i traumi tingono le fibre
ben oltre i movimenti musicali.

Infine si tirano le fila
ed i percorsi erranti
persino quelli inutili e tremendi
compongono un disegno che ha il suo suono
e il timbro della libertà.

_________________________

AlexCastellaAlessandro Ramberti  <https://twitter.com/faraeditore>  è nato a Santarcangelo di R. nel 1960. Laureato in Lingue Orientali a Venezia, vince una borsa (1984-85) per l’Università Fudan di Shanghai. Nel 1988 consegue il Master in Linguistica presso l’Università di California Los Angeles. Conclude gli studi con il dottorato in Linguistica presso l’Università Roma Tre (1993). Da allora lavora in ambito editoriale. Ha vinto il premio “l’Astrolabio” con pubblicazione dei suoi Racconti su un chicco di riso (Tacchi Editore 1991). Come Johan Thor Johansson edita La simmetria imperfetta <http://bachecaebookgratis.blogspot.it/2012/03/johan-thor-johansson-ramberti-la.html>  (Fara 1996). Con In cerca <http://www.faraeditore.it/html/collane/terremerse/incerca.html>  (Fara 2004) vince il premio “Alfonso Gatto” 2005 opera prima e, nel 2006, i premi “Città di Solofra”, “Voce dal Ponte” (Monopoli) e il premio speciale “Città degli Acaja” (Fossano). Con Pietrisco <http://antonellapizzo.wordpress.com/2007/03/21/pietrisco-di-alessandro-ramberti/>  (Fara 2006) “Poesi@ & Rete” (Trapani-Palermo) e il premio biennale “Cluvium”. Con L’Arca Felice di Salerno nel 2009 pubblica la plaquette Inoltramenti <http://farapoesia.blogspot.it/2009/03/su-inoltramenti-di-alessandro-ramberti.html>  e nel 2011 Paese in pezzi? I monti e i fiumi reggono <http://langosciadellinfluenza.wordpress.com/2012/01/06/paesaggi-dis-umani-2-du-fu-paese-in-pezzi-i-monti-e-i-fiumi-reggono-larca-felice-2011-traduzione-di-alessandro-ramberti/>  (4 poesie di Du Fu), entrambi illustrati da Francesco Ramberti <http://vimeo.com/kaleidon> . In «Italian Poetry Review» V, 2010 esce “Rabbunì”, ampiamente riscritto in Sotto il sole (sopra il cielo) <http://www.faraeditore.it/ruach/solecielo.html> , Fara 2012). Gli è stata dedicata la «Lettera in versi» n. 32 a cura di Rosa Elisa Giangoia: bombacarta.com/le-attivita/lettera-in-versi <http://bombacarta.com/le-attivita/lettera-in-versi/>


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