di Francesco Bausi*
Fare la storia con i se non è corretto, ma può essere divertente e a volte anche utile. Se Dante non fosse stato esiliato nel 1302 senza più fare ritorno in patria, non avrebbe mai scritto la Commedia. Se Petrarca non avesse dovuto emigrare in Francia da bambino al seguito del padre, non avrebbe mai scritto il Canzoniere. Se Machiavelli nel 1512 non fosse stato rimosso dai suoi incarichi in cancelleria a causa del ritorno dei Medici al potere, non avrebbe scritto il Principe. Non si tratta di frasi a effetto: alla radice di tutte queste opere – tre fra i massimi capolavori della nostra letteratura e della cultura di ogni tempo – stanno infatti situazioni personali di lontananza, di isolamento, di solitudine. Solo un uomo ormai privo di legami con la realtà municipale della sua città e avulso dalle lotte di parte poteva conquistare la prospettiva universale che muove la Commedia; solo un uomo costretto a passare la giovinezza in una città straniera e cosmopolita come Avignone, dove le lingue della cultura e della comunicazione erano il francese e il latino, poteva approdare alla suprema astrazione linguistica e concettuale della poesia del Canzoniere; solo un uomo che non aveva più niente da perdere, e le cui uniche carte erano la conoscenza storica e l’esperienza politica, poteva comporre un asciutto libretto in cui l’ex esponente di punta di un regime repubblicano delinea con crudo realismo compiti e comportamenti del principe.Competenza vera, maturata in anni di politica, interna ed estera, fatta “sul campo”: questo mise sul piatto Machiavelli, nel 1513, per convincere i sospettosi Medici a servirsi di lui. Scrivere uno dei soliti trattati retorici in cui si idealizzava la figura del principe “virtuoso” e “giusto” non gli sarebbe servito a niente, perché, con i suoi precedenti, nessuno lo avrebbe preso sul serio. E poi non ne sarebbe stato capace: Machiavelli non era un brillante umanista o un fine dicitore, né, fino ad allora, si era mai misurato con la vera e propria trattatistica politica. Prima del 1513, nei rari intervalli concessigli dal suo lavoro, si era dedicato quasi soltanto alla poesia, limitandosi, per il resto, a stendere relazioni di ambascerie o brevi scritti ufficiali legati a situazioni contingenti. E poi, soprattutto, era abituato ad aggredire i problemi senza girarci intorno con le parole: un’abitudine che gli veniva dal suo carattere spigoloso, ma anche dalla lunga pratica come cancelliere e inviato della repubblica, incaricato di delicate missioni in cui gli era richiesto di comprendere rapidamente le situazioni, informando i suoi superiori con precisione e agendo con risolutezza.
Non era nuovo, Machiavelli, alle scelte difficili. Fin dal 1503, inimicandosi larga parte dell’aristocrazia fiorentina, aveva promosso un progetto di ricostituzione delle milizie cittadine, ottenendo l’appoggio del capo della repubblica, il gonfaloniere Piero Soderini. In seguito, del Soderini sarebbe divenuto uomo di fiducia, al punto da legare a lui tutte le sue fortune: basti dire che quando la repubblica crollò e, nel settembre 1512, i Medici fecero ritorno a Firenze, in cancelleria Machiavelli fu il solo, insieme al suo collaboratore e amico Biagio Buonaccorsi, ad essere licenziato. Ogni volta, egli metteva in gioco tutto sé stesso, senza calcoli e cautele (il che può sembrare strano, visto il significato poi assunto dal termine “machiavellismo”): così fece anche dal 1512 in poi, diventando, da repubblicano, sostenitore dei Medici, perché in loro vedeva l’unico possibile argine contro lo strapotere e il conservatorismo delle vecchie famiglie nobiliari fiorentine. Ma solo nel 1520 la famiglia egemone lo riabiliterà: grazie ai Medici gli verranno affidate missioni politiche via via più importanti, una delle sue opere maggiori (il dialogo militare L’arte della guerra) sarà stampata a Fiorenze nel 1521, nel 1520 si rappresenterà a Roma la Mandragola al cospetto di papa Leone X (Giovanni de’ Medici) e tramite il cardinale Giulio de’ Medici gli verrà conferito l’incarico ufficiale di comporre le Istorie fiorentine.
Ma il suo destino è paradossale: quando nel 1527 Firenze torna a costituirsi come repubblica, cacciando nuovamente i Medici, nel ruolo di cancelliere che dal 1494 al 1512 era stato suo gli viene preferito l’oscuro Francesco Tarugi. Per i repubblicani, molti dei quali erano stati fra i suoi amici più stretti, Machiavelli, che morirà pochi giorni dopo, è ormai da tempo un mediceo, perché ai Medici ha votato fedelmente da anni la sua attività politica e letteraria. Infatti, fra 1531 e 1532, sarà il secondo papa mediceo, Clemente VII, a promuovere la pubblicazione, tra Roma e Firenze (una Firenze ormai definitivamente tornata ai Medici e ormai chiaramente indirizzata verso il principato), delle sue opere maggiori, compreso il Principe. Gli amici di un tempo gli voltano le spalle: Luigi Alamanni, uno dei due letterati cui Machiavelli aveva dedicato la sua Vita di Castruccio Castracani, compone prima del 1528 una satira in cui il Principe è aspramente condannato come un libro immorale, responsabile della politica scellerata dei regnanti che hanno ridotto l’Italia in schiavitù. Non meno paradossale, del resto, fu anche il destino del Principe. Scritto con l’idea di dimostrare ai Medici la propria competenza politica allo scopo di essere da loro “adoperato”, il libro pagò lo scotto della propria arditezza politica e morale, e si rivelò ben presto inservibile: lo stato principesco “nuovo” che papa Leone, fra 1513 e 1515, sembrava intenzionato a concedere al fratello Giuliano (e in vista del quale il trattato era stato inizialmente concepito, tanto che Giuliano avrebbe dovuto esserne il dedicatario) non vide mai la luce, mentre la situazione di Firenze – dove i Medici non disponevano di un potere assoluto – richiedeva la massima prudenza e non poteva certo essere affrontata con gli strumenti suggeriti nell’opuscolo. Qualcosa parve poter cambiare quando, fra 1515 e 1516, il giovane Lorenzo, nipote del pontefice e di Giuliano, assunse in città una maggiore autorità politica e militare, ottenendo anche il titolo di Duca d’Urbino e quello di capitano dell’esercito pontificio; per questo, Machiavelli decise di dedicargli il trattato, che però o non gli fu mai effettivamente consegnato, o in ogni caso non gli risultò gradito. Quando poi, nel 1519, Lorenzo morì, il Principe perse qualunque attualità: a capo della famiglia Medici restavano solo due alti prelati (papa Leone e il cardinale Giulio), nessuno dei quali ovviamente avrebbe potuto diventare “principe”, e che pertanto avevano tutto l’interesse a dar prova di moderazione nel governo cittadino. In tale contesto, l’apparizione di un libro come il Principe, dedicato a un Medici da parte di un uomo al loro servizio, sarebbe stata controproducente, cosicché Machiavelli dovette accontentarsi di veder pubblicate la meno “compromettente” Arte della guerra e una commedia come la Mandragola. A dire il vero, nel 1523 il Principe approda in qualche modo alle stampe, a Napoli, ma in forma davvero inconsueta: larghe parti dell’opuscolo, infatti, vengono riprese e “plagiate” nel trattato latino De regnandi peritia del filosofo aristotelico Agostino Nifo, che, dedicato a Carlo V, propone la consueta immagine “idealizzata” del regnante. Nifo, che era protetto da Leone X e che entrò in possesso del Principe tramite gli ambienti medicei fiorentini, normalizza, neutralizza o elimina molte delle parti più ardite dell’opuscolo machiavelliano; e se da esso ha talora ricavato la descrizione di certi comportamenti tirannici, afferma di averlo fatto solo affinché chi legge impari a conoscerli e ad evitarli. Una chiave di lettura, questa, che sarà recuperata nella dedica della seconda stampa del Principe (Firenze 1532), dove per la prima volta troviamo formulata quell’interpretazione “obliqua” del trattatello che tanta fortuna avrà nei secoli successivi, fino a Foscolo, secondo cui Machiavelli non ha voluto ammaestrare il tiranno, ma solo rivelare ai popoli i crudeli strumenti del suo potere. E sarà il prezzo che il Principe dovrà a lungo pagare per poter essere pubblicato e letto nell’Europa moderna.
Uomo dei paradossi, dunque, Niccolò Machiavelli, sempre in prima linea nel sostenere le sue idee, soprattutto quelle più “scomode”, tanto che l’amico Francesco Guicciardini lo definì ingegno “stravagante”, lontano dalle opinioni comuni e “inventore di cose nuove ed insolite”. Ma ciò che più colpisce in lui è altro: la disponibilità a mutare le proprie opinioni e le proprie posizioni nel corso degli anni, passando da strenuo repubblicano a sostenitore di Piero Soderini, diventando quindi fautore di un potere mediceo prima “costituzionale” (o civile, come egli lo definisce) e poi principesco, per concludere la sua parabola come teorizzatore di uno stato “misto” in cui convivessero elementi democratici, oligarchici e monarchici. Considerato per molto tempo, in passato, esponente di una visione rigidamente repubblicana, Machiavelli è in realtà esempio – utile e attuale anche oggi – di un approccio anti-ideologico che sa realisticamente adattare il proprio punto di vista, e le soluzioni politiche proposte, al mutare dei tempi e delle circostanze, anche a costo di risultare, in tal modo, sgradito ai vecchi amici e sospetto ai nuovi.
[La versione a stampa di questo articolo è uscita nel giornale fiorentino Cultura commestibile].
_________________________________
*Francesco Bausi (Firenze 1960) è professore ordinario di Filologia italiana e di Letteratura italiana medievale presso l’Università della Calabria. È direttore della rivista di studi quattrocenteschi «Interpres», membro delle Commissioni per l’edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli e di Giosue Carducci, coordinatore (con Vincenzo Fera e Silvia Rizzo) del «Progetto Poliziano», supervisore filologico dell’edizione delle Lettere di Lorenzo de’ Medici, membro dell’Advisory Committee della collana «I Tatti Renaissance Library» (pubblicata dalla Harvard University), membro del comitato scientifico delle riviste «Schede Umanistiche», «L’Ellisse», «Ecdotica», «Italian Poetry Review», «Per leggere». Filologo e storico della letteratura, ha studiato in prevalenza la civiltà letteraria del Quattro e del primo Cinquecento, le letteratura medievale, la storia della metrica italiana, la letteratura otto-novecentesca, pubblicando, su questi e su altri argomenti, oltre 250 saggi in riviste italiane e straniere, in volumi miscellanei o in atti di convegni. Inoltre ha curato le edizioni delle Silvae (1997), delle Poesie volgari (1997), di Due poemetti latini (2003) e delle Poesie (2004) di Angelo Poliziano, degli Epigrammi di Ugolino Verino (1998), della disputa epistolare tra Pico ed Ermolao Barbaro (1998), delle opere complete (in CD-rom, 2000) e della Oratio de hominis dignitate di Pico (2003), dei Discorsi di Machiavelli (2001, nell’àmbito dell’Edizione Nazionale), delle Invective contra medicum e della Invectiva contra quendam di Petrarca (2005). In volume ha pubblicato: La metrica italiana (con Mario Martelli, 1993), Nec rhetor neque philosophus. Fonti, lingua e stile nelle prime opere latine di G. Pico della Mirandola (1996), Machiavelli (2005), «Il poeta che ragiona tanto bene dei poeti». Critica e arte nell’opera di Severino Ferrari (2006), Petrarca antimoderno. Studi sulle invettive e sulle polemiche petrarchesche (2008), Dante fra scienza e sapienza (2009), Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano (2011).
