Quantcast
Channel: » samgha
Viewing all 63 articles
Browse latest View live

Alcuni discorsi di Dharma di due Lama Tibetani

$
0
0

di Dianella Bardelli *

Lama Yeshe, Lama Zopa Rinpoce, Il potere della saggezza – la scienza interiore del Buddha, Chiara Luce Edizioni, Pisa, 2006

lama-yesce-india70Questo libro contiene i discorsi tenuti da Lama Thubten Yeshe e dal suo discepolo Lama Thubten Zopa Rimpoce, sia durante un loro viaggio negli Stati Uniti nel 1974, che in altri viaggi avvenuti  in Svezia e Svizzera nel 1983. Il volume contiene anche un’intervista a Lama Yeshe a proposito dell’Educazione Universale, e una sua lezione tenuta a Kopan nel 1975. Questi due Lama avevano iniziato ad insegnare il buddismo tibetano ad occidentali provenienti da tutto il mondo, in prevalenza giovanissimi hippies, a partire dalla metà degli anni ’60 sulla collina di Kopan, nei pressi di Kathmandu. Il primo corso vero e proprio avvenne nel 1971, seguito da molti altri negli anni seguenti. Ancora oggi il monastero buddista di Kopan è  meta di studenti provenienti da tutto il mondo desiderosi di imparate il Dharma. Per quanto riguarda gli  insegnamenti tenuti negli Stati Uniti essi avvennero a Nashville, nell’Indiana, a Boulder nel Colorado, a Berkeley in California, alla Columbia University di New York, a Fair Lawn nel New Jersey.

Riguardarono gli aspetti principali del sentiero buddista di tradizione tibetana, come ad esempio: “Lo scopo della meditazione”; Alla ricerca delle cause dell’infelicità”; Come sorgono le illusioni”, “I tre aspetti principali del sentiero”; “Integrare il Dharma nella vita”. Lama Yeshe (morto nel 1983) e Lama Zopa, attualmente a capo dell’organizzazione da loro creata, l’FPMT, ovvero la Fondazione per la preservazione della tradizione Mahayana, furono in grado di rivolgersi ai giovani occidentali che raggiungevano la collina di Kopan, e agli altri che li incontrarono  in Occidente,  in un linguaggio non tecnico, non esoterico, semplice in fondo, e soprattutto che entrava empaticamente in contatto con le loro menti desiderose di spiritualità. Sopratutto Lama Yeshe possedeva un enorme potere carismatico, nel senso più strettamente religioso che possiamo dare a questo termine (dono di Dio, grazia). Egli fu il primo Maestro Tibetano a comprendere il potenziale spirituale di quei giovani occidentali che in fuga dalle lusinghe materialistiche dell’Occidente, cercavano una vita alternativa che andasse al di là delle droghe che in quel periodo era così facile procurarsi in India e Nepal. Molti divennero suoi discepoli, altri si dedicarono allo studio del tibetano, moltissimi si diedero alla vita monacale, dedicandosi a lungi ritiri sulle montagne del Nepal. Oggi dirigono Centri e Monasteri, insegnano il Buddismo e traducono nelle lingue occidentali testi e insegnamenti dati dai Lama in tibetano.

lama-yesceTra gli insegnamenti contenuti nel volume vorrei partire con il riassumere e commentare (con le mie modeste capacità) “Accostarsi alla studio del Dharma”, discorso tenuto da Lama Yeshe al Naropa Institute di Boulder in Colorado nel Luglio del 1974. All’inizio di questo discorso Lama Yeshe mette in guardia dall’avvicinarsi al buddismo con l’unico scopo di collezionare l’ennesimo insegnamento. Le persone sono affascinate dalle parole e “dall’infinita varietà di conoscenze che si possono acquisire…Questa avidità intellettuale dimostra quanto sia radicata quella superstizione che spinge a credere che sia possibile raggiungere la sicurezza, felicità e la liberazione semplicemente accumulando la conoscenza di nozioni e fatti” (p. 28). Bisogna mettere in pratica quello che si studia. Come? Adottando una disciplina mentale, che significa “sviluppare una grande consapevolezza di tutte le vostre azioni… Quanto più diventerete consci delle vostre azioni, tanto più svilupperete la saggezza, in altre parole potrete modificare coscientemente il vostro karma” (p. 32). E in questa parte del suo discorso Lama Yeshe mostra come quello del karma non sia un concetto difficile, solo perché è espresso con una parola straniera. Mangiare, camminare, dormire è karma, ogni giorno creiamo centinaia di azioni karmiche anche se non ne siamo consapevoli. Imparare a esserne coscienti  è la disciplina del controllo della propria mente.

Anche gli altri testi contenuti in questo volume ruotano intorno a quella che è la vera natura della mente umana e le illusioni che la oscurano. Infatti l’insegnamento nel buddismo tibetano è sempre lo stesso da centinaia di anni e  dipende dal lignaggio a cui appartiene chi lo insegna. Nel caso di Lama Yeshe e Lama Zopa essi appartengono al lignaggio del grande studioso  Lama Tzong Khapa (1357-1419)  che fondò la scuola Ghelup a cui appartiene anche il Dalai Lama. Dal momento in cui Lama Yeshe e Lama Zopa cominciarono ad insegnare agli occidentali (su loro richiesta) è il modo di esporre l’insegnamento che è cambiato non l’insegnamento in sé. Lo dice molto bene Lama Yeshe nel testo contenuto nel volume dal titolo “L’educazione Universale” laddove afferma che “il buddhismo riguarda l’universo nel suo complesso, e noi tibetani possediamo le istruzioni che svelano la realtà universale. Ma questi insegnamenti devono assumere una nuova forma, devono adottare un nuovo linguaggio, solo così questo patrimonio potrà contribuire al benessere comune di tutta l’umanità” (p. 248).

Dal punto di vista teorico e filosofico il testo più importante contenuto nel volume è l’esposizione e il commento da parte di Lama Zopa de “ I tre aspetti principali del sentiero  composto da Lama Tsong Khapa, testo che fa parte della tradizione degli insegnamenti Lam Rim (il Sentiero graduale verso l’Illuminazione). Dice Lama Zopa: “L’essenza di tutti gli insegnamenti di Dharma si può riunire in tre punti essenziali, solitamente definiti I Tre Aspetti Principali del Sentiero per l’Illuminazione: la mente dotata di autentica rinuncia; la motivazione illuminata di bodhicitta (ovvero l’aspirazione altruistica di ottenere la piena illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri); e la corretta visione della vacuità ( la natura ultima della realtà, la totale assenza di esistenza inerente e di vera identità di tutti i fenomeni)” (p. 88).

Cos’è l’autentica rinuncia? A cosa dobbiamo rinunciare? Diciamo subito che non si tratta di rinunciare alle cose che ci piacciono della nostra vita, si tratta di rinunciare alla sofferenza e alle sue cause. Sofferenza che non deriva dalle cose che possediamo o dalle cose che ci piacciono, ma dall’attaccamento ad esse, dall’ossessione che abbiamo per esse. “ Il problema non è godere dei nostri beni ma provare dell’attaccamento per essi” (p. 101). Ma praticare la rinuncia non è sufficiente. “Se vogliamo raggiungere la meta suprema della mente di Buddha, la mente dotata di una completa rinuncia deve possedere bodhicitta, cioè la motivazione di voler ottenere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri viventi” (p. 108). La parola chiave è motivazione. Essere altruisti non basta e non conta se non è accompagnato dalla giusta motivazione, quella che aspira al benessere universale. Presupposto di questa motivazione è l’avere già sviluppato dentro di sé la compassione, cioè il desiderio che tutti gli esseri siano liberi dalla loro sofferenza. A sua volta la compassione nasce dall’amore, cioè dal desiderio che tutti gli esseri siano felici. Ma questo a sua volta sarà possibile solo se avremo praticato l’equanimità, che consiste nel considerare tutti nella stessa maniera, senza distinzioni tra amici e nemici.

Il terzo sentiero, dopo quello della rinuncia e della mente di bodhicitta è la saggezza della vacuità, ovvero la lama zopacorretta visione della realtà. “E’ molto difficile avere una visione chiara della realtà perché la nostra mente è abituata da sempre a percepire le cose in modo distorto” (p. 122). Per spiegare la vacuità Lama Zopa parte dal concetto buddista di Io, che è molto diverso, anzi antitetico al modo che hanno avuto la religione, la filosofia e la psicologia occidentali di intenderlo. Egli afferma che “Da tempo senza inizio abbiamo pensato al nostro io come a qualcosa di inerentemente unico, innato e dotato di una esistenza completamente indipendente che sembra non dipendere dal nostro corpo, dalla nostra mente, o da qualsiasi altro fattore” (p. 122). E continua dicendo che esiste effettivamente un io convenzionale, ma noi lo percepiamo nella maniera sbagliata, ovvero come qualcosa di indipendente e autonomo. Oppure al contrario come qualcosa che è un tutt’uno con il corpo e la mente. Ma se così fosse questo io sarebbe identificabile in qualche parte del nostro corpo, ma così non è. Riflettendo a lungo su questi concetti, afferma Lama Zopa, si arriva facilmente alla conclusione che non può esistere un io indipendente. Più avanti si afferma che esistono due livelli di verità: la verità convenzionale o relativa, e la verità assoluta e definitiva, la vacuità, cioè la percezione diretta del fatto che tutti i fenomeni “sono privi di una reale e indipendente esistenza a sé stante” (pag. 125). Si parla qui di percezione diretta della vacuità,  non di quella puramente intellettuale, bensì di quella intuitiva. Non si afferma, continua Lama Zopa, che l’io non esiste, e che non esistono i fenomeni e le persone. Esistono ma in dipendenza del nostro corpo e della nostra mente; esiste un io che vive, compie azioni, che fa parte di un continuum di azioni e reazioni. L’estremismo nichilista, afferma Lama Zopa, è molto pericoloso e può portare a  gravi disturbi. Dobbiamo raggiungere uno stato in cui saremmo in grado di distinguere la verità assoluta della vacuità dei fenomeni, e nello stesso tempo apprezzare le gioie della verità relativa.

Nel testo “Integrare il Dharma nella vita”, discorso tenuto da Lama Yeshe nell’agosto 1974 nel New Jersey, si pone l’accento sul fatto che “I Lama parlano soprattutto del presente, di ciò che sta accadendo nella vostra mente proprio in questo momento” (pag. 131). E continua dicendo “Alcuni possono pensare che il Dharma sia un fenomeno culturale strettamente limitato all’Oriente, ma non è affatto così…La saggezza del Dharma è universale…Come iniziare la giornata con la saggezza del Dharma? Invece di seguire gli istinti del vostro Ego, che vi spinge a soddisfare il bisogno di caffè, svegliatevi con calma, e con attenzione osservate il vostro stato mentale, quindi determinate la motivazione che vi sosterrà per tutto il resto della giornata. Vivere semplicemente per il caffè non ha nessun valore. E’ molto meglio dedicare questa giornata allo sviluppo di bodhicitta” (pag.134).

Come si vede da questa prima affermazione di Lama Yeshe praticare il buddismo non è una cosa semplice. E’ un impegno, è un assumersi delle responsabilità non solo verso se stessi, ma soprattutto verso gli altri, e come si dice nel testo appena citato, per tutta la nostra giornata. Come abbiamo visto la bodhicitta non è semplicemente amore e compassione per gli altri è l’aspirazione altruistica di ottenere la piena illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri, quindi si “lavora” non per raggiungere l’Illuminazione per noi stessi ma perché solo così potremmo essere di beneficio agli altri. Lama Yeshe era famoso perché non raccontava storie antiche tibetane per spiegare con esempi la pratica buddista. Gli esempi li traeva dall’esperienza dei suoi studenti occidentali. In questo testo per spiegare cosa siano la realtà convenzionale e quella ultima fa l’esempio dei bianchi e dei neri in America (ricordiamoci che siamo negli anni ’70). Egli afferma che quando un bianco e un nero sono uno di fronte all’altro è come se non si vedessero. “Il bianco proietta una minacciosa immagine nera sull’altro, e il nero fa lo stesso”. E prosegue dicendo: “Ciò che fa la differenza non è cosa vedono ma come lo vedono” (pag. 139). Liberarsi della falsa visione della realtà, frutto delle proprie illusioni, non è una cosa da “brave persone”, perché liberarsi dalle illusioni e vedere la realtà così com’è e il presupposto per essere felici. A questo proposito nel testo si dice: “Potreste pensare: Il lama parla molto, ma sono solo congetture, prive di fondamenti pratici” (pag. 140). A questa possibile obiezione Lama Yeshe risponde come sempre dicono di fare i Lama tibetani, e cioè invita a mettere alla prova gli insegnamenti sperimentando di persona se sono validi o no.

Group photo from the first meditation course held at Kopan Monastery, April, 1971. Left to right, front row: Zina Rachevsky, Lama Zopa Rinpoche, Geshe Thubten Tashi, Age Delbanco (Babaji), Lama Yeshe, Losang Nyima. Fred Von Allmen is at far left, Claudio Cipullo second from the end on the right, and Mark Shaneman is standing directly behind Babaji.  Source: Lama Yeshe Wisdom Archive.

Group photo from the first meditation course held at Kopan Monastery, April, 1971. Left to right, front row: Zina Rachevsky, Lama Zopa Rinpoche, Geshe Thubten Tashi, Age Delbanco (Babaji), Lama Yeshe, Losang Nyima. Fred Von Allmen is at far left, Claudio Cipullo second from the end on the right, and Mark Shaneman is standing directly behind Babaji. Source: Lama Yeshe Wisdom Archive.

Un ultimo testo contenuto nel volume Il potere della saggezza a cui vorrei solo accennare perché è piuttosto lungo è “Vita, Morte e Stato Intermedio”, insegnamento tenuto da Lama Yeshe in Svizzera nel 1983. E’ un testo bellissimo e andrebbe citato parola per parole, anche perché Lama Yeshe non esponeva gli insegnamenti semplicemente così come li aveva appresi, era come se intuisse quello di cui le persone che lo stavano ascoltando avessero bisogno, e questo senza addolcire o annacquare le difficoltà contenute nell’insegnamento stesso. Questo perché non erano cose che lui aveva solo studiato, lui le aveva vissute, lui parlava per esperienza personale. Purtroppo non l’ho conosciuto di persona perché mi sono avvicinata al buddismo tibetano da pochi anni, ma ho letto i suoi libri e soprattutto visto i video che lo mostrano durante gli insegnamenti. Corrispondono a quello che mi hanno detto tutti coloro che lo hanno conosciuto. Quelli almeno che ho contattato personalmente dato che sto cercando di scrivere un romanzo ispirato ai primi giovanissimi studenti di Lama Yeshe a Kopan negli anni ’70. Tutti, che fossero italiani, americani, canadesi o tedeschi, mi hanno detto la stessa cosa: “era come se vedesse dentro di me, ci amava e aveva un senso dell’umorismo grandissimo”. Forse questi tre aspetti non sono di moda in un maestro qualificato, ma personalmente non sono contraria alla devozione, se praticata in misura ragionevole.

Tornando a “Vita, Morte e Stato Intermedio”. C’è una grande differenza tra la concezione della morte in occidente e la concezione della morte nel buddismo tibetano; la differenza più grande, a mio parere, non sta tanto nel fatto che in occidente si pensa che non ci sia niente dopo la morte oppure se si è cristiani che ci sarà una vita, ma in un luogo “altro” rispetto al nostro, quando invece nel  buddismo si crede nelle infinite rinascite.  A mio parere la differenza più grande è che per il buddismo la morte non consiste nella cessazione del respiro. Dice Lama Yeshe nel testo. “I dottori occidentali credono che quando avete smesso di respirare siete morti, pronti per la cella frigorifera! Secondo il buddhismo anche se la persona non respira è ancora viva e sta sperimentando le cosiddette quattro visioni: la visione bianca, la visione rossa, la visione nera e la visione di chiara luce” (p. 210). Dopo inizia il bardo in cui accadono cose simili a quelle che sperimentiamo durante lo stato di sonno: “Proprio come nel sogno, quando il corpo riposa addormentato, la bramosia del desiderio opera allo stesso modo. Ed è così potente che anche quando il corpo è freddo e la circolazione dell’aria e del sangue è cessata, interiormente continua a funzionare, insieme agli altri veleni psichici…” (p. 236). Ma poche righe dopo assicura i suoi ascoltatori dicendo che questo a loro non capiterà: “Non dovere preoccuparvi delle difficoltà della morte. Non dovete preoccuparvi perché dentro di voi avete tutti un certo grado di amore e benevolenza” (p. 237).

 Biografie di Lama Yeshe e Lama Zopa

Lama Thubten Yeshe, il cui nome è conosciuto e pubblicato in Italia come Lama Yesce, nacque in Tibet. All’età di sei anni entrò nell’Università Monastica di Sera Je, a Lhasa, capitale del Tibet. Studiò nel monastero fino al 1959, quando l’invasione cinese del Tibet lo obbligò a fuggire in India.Lama Yeshe continuò a studiare e meditare in India fino al 1967, quando, con il suo principale discepolo, Lama Thubten Zopa Rinpoce, decise di recarsi in Nepal, dove, due anni dopo, fondò il monastero di Kopan, vicino a Kathmandu.Nel 1974 i due lama iniziarono a fare viaggi di insegnamento in Occidente, in seguito ai quali si formò una rete mondiale di centri di insegnamento e meditazione di buddhismo, l’FPMT internazionale.Nel 1984, dopo dieci anni di insegnamenti mahayana e dopo aver ispirato alla ricerca interiore e alla pratica del buddhismo molti occidentali, Lama Yeshe lasciò il corpo, all’età di quarantanove anni. Nel 1985 nacque in Spagna, da genitori spagnoli, Ösel Hita Torres, che Sua Santità il XIV Dalai Lama identificò quale reincarnazione di Lama Yeshe, nel 1986.

Lama Zopa Rinpoce è nato a Thami, in Nepal, e a tre anni è stato riconosciuto come la reincarnazione dello yogi Kunsang Yeshe, il lama di Lawdo, dell’etnia scerpa e del lignaggio buddhista Nyingma. All’età di dieci anni, durante un viaggio con lo zio, volle fermarsi in Tibet a studiare e meditare nel monastero di Domo Ghesce Rinpoce, vicino a Pagri, dove rimase fino a quando l’occupazione cinese del Tibet non l’obbligò a mettersi in salvo nel Buthan. Lama Zopa Rinpoce, in seguito, raggiunse il campo profughi di Buxa Duar, nel Bengala occidentale (India), dove incontrò Lama Yeshe, che divenne il suo Maestro principale. I due lama si recarono in Nepal nel 1967, e nei successivi due anni fondarono i monasteri di Kopan e di Lawdo. Nel 1971, Lama Zopa Rinpoce guidò il primo dei suoi corsi-ritiro sul lam-rim (il sentiero graduale mahayana), che si rinnovano annualmente a Kopan. Nel 1974, insieme a Lama Yeshe, Rinpoce iniziò a insegnare in varie parti del mondo e a fondare centri di buddhadharma. Quando Lama Yeshe lasciò il corpo nel 1984, Rinpocedivenne direttore spirituale della FPMT invitato da S.S. il Dalai Lama. (Da http://www.iltk.org/it/istituto/lignaggio-e-maestri/i-fondatori#yeshe ). Siti utili: http://www.lamayeshe.com/  e anche http://biglovelamayeshe.wordpress.com/

_______________________________________

Dianella Bardelli è nata a Livorno nel 1947 e risiede a Selva Malvezzi (Bologna). Per molti anni ha insegnato Lettere presso l’Istituto Tecnico Industriale Aldini Valeriani di Bologna. Nel 2008 ha pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “ Vado a caccia di sguardi” presso l’editore Raffaelli di Rimini. Nel 2009 un romanzo intitolato “Vicini ma da lontano”, presso la casa editrice Giraldi di Bologna; nel 2011 un altro romanzo dal titolo “ I I pesci altruisti rinascono bambini” sempre per l’editore Giraldi. Aggiorna quotidianamente alcuni blog letterari:http://poesiaprosaspontanea.wordpress.com/ ;http://lascrittura.altervista.org/ ; http://solohaiku.altervista.org/ . Scrive testi perhttp://samgha.wordpress.com/ e recensioni per  http://www.lankelot.eu/ Accanto alla sua attività di scrittrice guida  corsi di Scrittura Creativa secondo il Metodo della poesia e prosa spontanea; ha una vera passione per la letteratura della beat generation e considera suoi maestri Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Nel Gennaio 2012 ha pubblicato un romanzo intitolato Il Bardo psichedelico di Neal presso le edizioni  Vololibero ispirato alla vita e alla morte di Neal Cassady, l’eroe beat. Recentemente ha scritto un romanzo intitolato “ Urlando delizia sull’intero universo” ispirato alla vita della poetessa hippy americana Lenore Kandel che verrà pubblicato sempre dalla Vololibero nel 2013.  Ne sta scrivendo un altro ispirato ai giovani primi allievi hippies di  Lama Yeshe a Kopan presso Kathamandu negli anni ’70. Ha parecchi racconti e poesie inedite nel suo “cassetto”. Accanto alla sua attività di scrittrice guida  corsi di Scrittura Creativa secondo il Metodo della poesia e prosa spontanea; ha una vera passione per la letteratura della beat generation e considera suoi maestri Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Da alcuni anni pratica la meditazione buddista secondo la tradizione tibetana http://www.linkedin.com/pub/dianella-bardelli/45/71b/584



In che senso i qualia sono una mappa cognitiva?

$
0
0

head-inchesensodi Umberto Brivitello*

Amo la regola che corregge l’emozione,

amo l’emozione che corregge la regola

(Georges Braque)

Gran parte delle attuali teorie formulate nel tentativo di districare il dibattito sulla natura della coscienza, sembrano fornire soluzioni necessariamente incentrate su modelli che, partendo dal tentativo di essere esaustivi ad un certo livello di analisi, inevitabilmente finiscono con “lasciar fuori qualcosa”. Eliminativismo e dualismo, riconoscibili come gli antipodi attorno a cui e in mezzo a quali, per gradi diversi, siano stati formulati modelli esplicativi dei fatti della coscienza, si sono mostrati inadeguati campi di esistenza entro cui fornire un’analisi esaustiva della questione “coscienza”, alimentando piuttosto quello che Ignazio Licata definisce un bazaar di teorie della conoscenza (Licata, 2008; 224). Due culture del tagliar fuori, due antitetiche prospettive di analisi che alimentano, da un lato, per quanto concerne l’eliminativismo, un oggettivismo naïve e una facile spettacolarizzazione di risultati scientifici, presentati come dogmatici e capaci di restituire la realtà, epurata e divulgata,  secondo i dettami di un rassicurante materialismo riduzionista, e dall’altro, per quanto riguarda invece il dualismo, una fittizia inesplicabilità della relazione coscienza-materia, tralasciando l’evidente, seppur non esplicativa di per sé, correlabilità tra fenomeni riconducibili alla natura  organica delle strutture e “moti della coscienza”, ad essa, la natura organica, apparentemente estranei. Con le parole di Licata: “L’intera questione non può neppure essere posta senza un’adeguata comprensione delle strutture cerebrali, ma l’identificazione dei correlati neurali non risolve ogni problema”(Licata, 2008; 226).

Il disagio fondante questo “campanilismo” scientifico, nasce dalla necessità di creare una conoscenza apparentemente non contaminata da alcun tipo di soggettivismo. Il dualismo, ritenendo duale la natura dell’esperienza, considera l’analisi di fenomeni manifesti in uno dei livelli dell’esperienza, irriducibile nei termini dell’altro, mentre l’eliminativismo attribuisce, presuppone, al punto di vista dell’uomo di scienza l’analiticità in grado di trascendere la stessa natura incarnata dell’attività empirica. L’attività scientifica si svolge in terza persona, tralasciando volutamente di considerare l’esperienza umana come irrimediabilmente fondata sull’attività di soggetti incarnati, e quindi possessori di un punto di vista fenomenologico. L’inesplicabilità della natura della coscienza, ed il chiaro manifestarsi di queste due tendenze divergenti, nasce dalla nostra complementare esperienza in prima persona ed in terza persona.

Senza voler ulteriormente indagare tale questione, in linea con la domanda anteposta a questo breve scritto, focalizzerò la mia attenzione sulla possibilità che l’esperienza soggettiva, dimostratasi storicamente un’incombenza di non facile implementazione in una possibile teoria del tutto o in un teoria globale della coscienza, si riveli in realtà profondamente funzionale nel preservare l’esistenza di un sistema cognitivo complesso, come quello umano, e quindi non trascurabile all’interno di un paradigma esplicativo che tenti di esserne esaustivo.

Sistemi cognitivi ed apertura logica

Un sistema cognitivo come quello umano gode, da un lato, della possibilità di analizzare in maniera conscia e sequenziale un fatto e, dall’altro, di esperirlo come un fenomeno in cui è globalmente coinvolto. Potremmo definire quantitativa la conoscenza prodotta dall’attività cosciente ed analitica, la prima a cui faccio riferimento, e qualitativa, la conoscenza prodotta dall’esperienza comunemente definita soggettiva, ovvero,attraverso cui esperiamo un fatto in quanto soggetti. Con il termine qualia ci si riferisce agli attributi che costituiscono l’esperienza qualitativa. Osservare un tramonto, ad esempio, può coinvolgerci in un’analisi sequenziale del fenomeno (il sole dopo aver apparentemente attraversato la volta celeste da est verso ovest, continua il suo apparente tragitto aldilà di quanto visibile), ma ci coinvolgerà nel contempo in quella che potremmo definire un’esperienza qualitativa (le possibili sfumature, le componenti semantico-sensoriali, l’intensità estetica, di uno splendido tramonto). L’esperienza qualitativa, composta dai qualia, “i modi in cui le cose ci sembrano”, ineffabili, intrinseci, privati, esperienze immediate e non inferenziali della coscienza, è stata per molto tempo esclusa da possibili paradigmi esplicativi della coscienza. Parte di questo ostracismo ontologico nasce dalla tendenza a considerare la mente un epifenomeno di un insieme di meccanismi organici, di un meccanico “mulino”, riprendendo la famosa obiezione alla teoria materialista dell’identità formulata da Leibniz. Altra ragione di questo ostracismo è stata la presunta non immediata funzionalità, talvolta persino disfunzionalità, dell’esperienza qualitativa ai fini della sopravvivenza di un sistema cognitivo.

Sistemi autopoietici ed esperienza qualitativa

I sistemi viventi, e quindi sistemi cognitivi più o meno complessi, possono essere analizzabili nei termini di sistemi autopoietici. Maturana definisce un sistema autopoietico (auto, sé stesso; poiesis, creazione), un sistema capace di ridefinire continuamente sé stesso e che al proprio interno si sostiene e si riproduce. Un sistema autopoietico si autodefinisce nel tentativo di mantenere la sua stessa organizzazione. Ogni sistema vivente, secondo tale definizione, è un sistema autopoietico. La sua apertura logica, in quanto sistema in continua interazione con l’ambiente, considerabile anch’esso come un sistema, determina la sua stessa capacità di mantenere tale organizzazione interna. L’attività cognitiva e la coscienza emergono «dall’interazione biologica con il mondo e con altri sistemi cognitivi, utilizzando meccanismi di comunicazione sui quali possiamo intervenire a più livelli per modificare la nostra apertura logica» (Licata, 2008; 231). La metafora musicale utilizzata nel testo “La logica aperta della mente” di Ignazio Licata, laddove «la mente, come il fatto musicale, è diffusa tra il corpo e il mondo in un gioco di rimandi multipli e circolarità, in cui siamo allo stesso tempo interpreti, esecutori ed ascoltatori» (ivi), è un ottimo esempio di come sia possibile integrare l’esperienza soggettiva all’interno di un teoria esplicativa della mente, nei termini di essere umano come sistema autopoietico.

Mappe cognitve e sistemi autopoietici

La natura dell’essere umano come sistema autopoietico dotato di una mente, e quindi analizzabile in termini di sistema cognitivo, ci suggerisce che la sua attività, come ben analizzato da Varela, il suo “essere mente” (Maturana-Varela, 1985), permane in un continuo accoppiamento strutturale organismo-ambiente. L’esperienza di un soggetto umano diviene un complesso di interazioni capaci di definire e ridefinire organismo e ambiente. L’esperienza qualitativa fa parte di tale autopoiesi, inserendosi in tale complesso di interazioni come funzionale nel mantenimento dell’organizzazione complessiva del sistema vivente, rimarcando, rendendoci ascoltatori dell’attività della nostra mente. Ascoltatori capaci di fruire le risonanze qualitative che ci permettono di saldare ciò che Edelman chiama il nostro presente ricordato: la coscienza(Edelman, 1989). Rispetto quanto detto, e considerando le ipotesi sempre di Edelman del darwinismo neurale e del nucleo dinamico, secondo cui la coscienza è, piuttosto che un epifenomeno, una «condizione fondamentale del nostro essere ed agire», risulta ineludibile l’aspetto qualitativo dell’esperienza all’interno di questo fenomeno di continua ridefinizione e mantenimento che ad essa da vita e da cui, tramite essa, si mantiene l’organizzazione dell’organismo nel suo complesso.

Una mappa cognitiva è ciò che risulta dall’insieme degli elementi e delle interazioni sottese ad una zona dell’esperienza. In essa è in qualche modo visibile un insieme di elementi ed una struttura di interazioni. La mente interagisce con l’ambiente secondo delle particolari disposizioni cognitive, che potremmo definire modalità di apprendimento, che, riprendendo Wittgenstein, vengono “esibite” più che rese esplicitamente (Tractatus Logico-Philosophicus; 4.014), le quali correlano elementi significativi di una zona dell’esperienza. Riprendendo la metafora musicale, la partitura è chiaramente formata da elementi musicali descrivibili attraverso una notazione, e da una esibita, seppur non esplicitata, disposizione normativa che regola le interazioni tra gli stessi elementi notabili. I qualia, come dimensione estetica originaria dell’atto cognitivo, rientrano anch’essi nel complesso di tale partitura, formando un ulteriore senso trascendente l’attività cosciente ed apparentemente irriducibile ad ogni descrizione formale. Tale senso emergente ci rende capaci di avere una maggiore apertura logica, di arricchire il livello semantico della nostra esperienza permettendoci di produrre ulteriori distinzioni e valutazioni da questo materiale apparentemente grezzo e viscerale. Crea nuovi oggetti, nuove correlazioni, per la nostra attività cosciente in senso stretto, emergenti dal risuonare delle attività della coscienza in un senso più ampio, dislocata tra mente embodied, mondo e comunicazione.

In che senso i qualia sono una mappa cognitiva?

L’esperienza qualitativa partecipa, quindi, nell’orientare, la nostra globale esperienza di sistemi autopoietici. La possibilità che l’esperienza qualitativa si mostri come determinante nel “fabbricare” la nostra globale esperienza cosciente appare evidente se consideriamo quanto anche nel più banale processo decisionale siamo chiaramente orientati dal nostro vissuto qualitativo: è riconoscibile, senza alcuna esitazione, come un fattore fondamentale per la nostra stessa sopravvivenza come individui e come specie.

La produzione artistica è espressione del naturale tentativo di rendere tale conoscenza “incarnata”, estetica, tipica dell’esperienza qualitativa, condivisibile e per certi versi sedimentabile, accompagnando gli esseri umani fin dagli albori della loro comparsa come specie e nell’affermarsi del loro particolare tipo di sistema autopoietico . La possibilità di costruire, attraverso processi di astrazione e generalizzazione, a partire da “materiale sensoriale grezzo”, concetti, di renderli artisticamente producendo “per i sensi” , è stata recentemente analizzata da ricercatori come Semir Zeki (si veda esemplarmente: Zeki, 2002) e Vilayanur Ramachandran, arrivando, nel caso di Ramachandran, a considerare l’esperienza sinestetica come un fenomeno probabilmente capace di esemplificare la nostra esperienza cognitiva nel complesso (si veda ad esempio: Ramachandran, V.S. & Hubbard, 2003).

Autori come Antonio Damasio hanno tra l’altro evidenziato l’evidente funzione che le emozioni, l’esperienza qualitativa nel suo complesso, ricoprirebbe appunto nell’ambito dell’esistenza stessa della mente, fornendo la materia prima, sensoriale ed emotiva, per la produzione del pensiero (posizione, certamente non tradizionale, sostenuta e argomentata dal neuroscenziato portoghese, a partire dal suo saggio “L’errore di cartesio”: Damasio, 1994). Secondo tale prospettiva le emozioni divengono dimensioni cognitive.

I qualia costituirebbero, quindi, una mappa cognitiva in quanto attributi dell’esperienza qualitativa, una delle dimensioni dell’attività cognitiva, dimensioni profondamente saldate l’un l’altra, come un nodo gordiano, che esperiamo normalmente in modo trasparente nella nostra esperienza come individui. L’esperienza qualitativa, come dimensione cognitiva, non può che essere sondata, quindi, che nel suo integrarsi, nel suo compartercipare alla “messa in scena” dell’esperienza cosciente nel suo complesso, e nel suo generalmente trasparente guidarci in quanto sistemi autopoietici intenti a preservarsi e ridefinirsi rispetto all’interazione con il sistema ambiente, nel tentativo di mantenimento della propria “coerenza interna”. Analizzare i qualia nei termini di una mappa cognitiva comporta considerare il ruolo che essi possiedono nell’intessere le strutture e circoscrivere gli elementi che concorrono nel definire una zona della nostra esperienza cognitiva, fornendo uno spirito a quello che altrimenti sarebbe sono un algoritmico mulino, ed invece è un autopoietico organismo, senza rendere necessario, almeno a questo livello, assiomi metafisici; riscattandoli, inoltre, della dignità sottrattagli per lungo tempo nel considerarli qualcosa d’altro o non considerandoli affatto.

Bibliografia

Damasio A. R., L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano [ed. orig.: Descartes' Error: Emotion, Reason, and the Human Brain, Putnam, 1994], Adelphi, 1995.

Edelman G., Il presente ricordato. Una teoria biologica della coscienza (1989), Rizzoli, Milano, 1991.

Licata Ignazio, La logica aperta della mente, Codice Edizioni, 2008.

Maturana, H.R., Varela, F.J., Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente [Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, 1980], Venezia, Marsilio, 1985.

Ramachandran, V.S. & Hubbard, E.M., The phenomenology of synaesthesia (2003), Journal of Consciousness Studies, 10(8): 49–57.

Zeki S., Neural concept formation and art: Dante, Michelangelo, Wagner (2002), Journal of Consciousness Studies 9, 53-76.

Wittgenstein L., Tractatus Logico-Philosophicus (1921), disponibile su http://www.bazzocchi.net/wittgenstein/tractatus/index.htm.

__________________________________________

me*Umberto Brivitello, nato nel 1988 a Reggio Calabria, studente  e ricercatore nell’ambito delle scienze cognitive. Laureatosi con il massimo dei voti presso l’Università di Messina con la tesi “Neuroestetica e Cultura Visuale:  aspetti teorici per una prospetti va di studio tra immagine e cognizione”, è attualmente uno degli studenti del corso magistrale interclasse in Scienze Cognitive e Teorie della Comunicazione , attivo presso il medesimo ateneo. Dall’attitudine interdisciplinare, per inclinazione e per formazione, si impegna a seguire l’idea di un integrazione scientifico-umanistica, interessandosi a tematiche come coscienza, cognizione, arte, religione, semiotica, complessità.  Appassionato di fotografia e letteratura –ottiene il primo premio della sezione giovani, partecipando alla IV edizione del  concorso nazionale di letteratura Belmoro – e affascinato dalle prospettive epistemologiche della ricerca sulla cognizione, persegue l’obiettivo di indagare la natura e l’operare della cognizione e della coscienza, ed il ruolo che l’esperienza estetica, secondo l’accezione baumgartiana di “gnoseologia inferiore” e di “analogo della ragione”, assume nel complesso  dell’esperienza cognitiva biologica, con particolare attenzione all’esperienza cognitiva umana.

 


Antonia Pozzi su Flaubert

$
0
0

Immaginedi Matteo Vecchio*

Antonia Pozzi, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, a cura di Matteo Mario Vecchio, con la collaborazione di Chiara Pasetti, Torino, Ananke, 2013

È in uscita presso Ananke, Torino, per mia cura, l’edizione critica della dissertazione di laurea di Antonia Pozzi (1912-1938), discussa con Antonio Banfi nel 1935 presso l’Università di Milano, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria. Correda il volume una accurata bibliografia ragionata compilata da Chiara Pasetti. Anticipo qui su Samgha il seguente passo dalla mia introduzione al volume seguito da altri due excerpta:

Il nucleo concettuale attorno al quale si impernia la dissertazione è già ben delineato nelle affermazioni introduttive, in cui netta è, peraltro, la presa di distanza metodologica da ipostasi idealistiche, ed è radicale e sintomatica (alla luce della personalità dell’Autrice, della curvatura critica da questa impressa alla tesi, dell’oggetto analizzato) l’insistita e rivendicata incidenza del «problema di vita», posto in fertile circolarità, «legame vitale», rispetto al «problema d’arte», «poiché questo legame costituisce da solo, in questo caso, il fondamento e il valore di tutta una personalità», per la quale – pur nell’adozione di «una dottrina estetica» fondata sull’«esasperata preponderanza data all’elaborazione stilistica» («che cosa fa sì che l’opera ci dia, oltre l’emozione della sua bellezza plastica, tanta profonda commozione umana? Che cosa crea, all’interno dell’opera stessa, quell’incessante tensione trattenuta che la colloca come in un’atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale?») – «la stesura di una pagina non implica soltanto la risoluzione di un problema letterario, ma rappresenta di per se stessa la risoluzione vivente di un problema di vita».

Delineati i presupposti analitici e la cifra di ricaduta vitale dell’esperienza creativa e formativa flaubertiana, e, della «doppia tendenza –fantastica ed ironica – all’evasione», «la concezione di vita che nasce da quella tendenza e la concezione d’arte che ne è la conclusione» («una concezione della vita che pone l’arte al sommo della vita stessa, come rifugio e come riscatto»), ripercorsa la primissima produzione flaubertiana fino alla «crisi» seguìta, nel 1838, alla compilazione di Smarh, è in questa transizione che si chiarisce a Flaubert la necessità che l’esperienza si renda «rimpianto» e «nostalgia» affinché possa costituire materia d’arte, e l’esigenza, perché ciò avvenga, di attuare uno strenuo lavoro plasmatorio, vivificante, sulla materia stessa, che soverchi – in una sempre più spiccata, purificante, immanentizzazione di forma e di pensiero – la divaricazione dell’essenziale dicotomia tra «facoltà di sogno» e «facoltà d’ironia» in procinto di transitare, da originarie posizioni platonico-dualistiche, a una successiva, e definitiva, concezione idealistico-immanentistica. Se la prima Éducation sentimentale costituisce una fase di assestamento e di passaggio in cui «la conversione teorica» anticipa «l’applicazione pratica» del conquistato attingimento contenutistico alla viva materia umana, e testimonia l’azione costante, pur modulata, di una protratta «crisi», essa reca traccia, quale esito maturativo, traslato in Jules – costituendo, questo, in sé, una smentita alle posizioni raggiunte –, di un «equilibrio fatto della compenetrazione di cuore e intelletto» (intendendo «cuore» «nel senso quasi medicale della parola»), condizione che prelude al conseguimento di quella «forma superiore di comprensione, di compenetrazione» che è «la moralità dell’arte»: «intellettualizzazione della poesia» (di matrice classica) che purifica i contenuti romantici acquisiti alla cultura; apertura oggettiva, artisticamente autonoma (priva di «ogni movente particolaristico» e di «ogni fine eteronomo»), e potenzialmente infinita, alle cose – rese, nella loro interezza, oggetti di rappresentazione –; netto distanziamento dalle gore di un immediato autobiografismo.

«“Bisogna che la realtà esterna entri in noi, fino a farcene urlare, per ben riprodurla”».

«“Meno si sente una cosa, più si è atti a esprimerla come essa è (come essa è sempre, in se stessa, nella sua generalità e liberata da tutti i suoi contingenti effimeri). Ma, bisogna avere la facoltà di farsela sentire, questa facoltà non è altro che il genio: vedere, avere il modello davanti a sé, che posa”».

«Latente» è il «travaglio dello stile»; sotterranea è, riflesso di questo, la plasmazione della teoria (la «penetrazione progressiva del creatore nella creatura») su di un contenuto che ne rispecchi le coordinate attuative, e l’enquête di tale materia cui la parola deve aderire, penetrandone l’intima, e sua, verità, in una immanente iridescenza – da Flaubert precocemente invocata – tra forma («penetrazione ed elevazione del reale») e idea.

«Disciplina risanatrice», «fatica purificatrice», «riscatto dalla propria natura»: come avverte Antonia Pozzi, incanalando la propria attenzione verso lo specifico versante tecnico (che è sbocco attuativo, potenziale ancòra, della conquista teorica) della lezione flaubertiana, «F[laubert]. può servire soprattutto come esempio vivo dell’importanza della parte tecnica, del sudore nella creazione artistica». L’osservazione soggettiva del reale, mediata dall’intelletto «espresso in gusto stilistico» e dall’esasperazione autocritica dello sguardo, fa sì che, nel Flaubert che attende alla fase preparatoria di Madame Bovary, la «rinuncia alla vita si compens[i] mediante la creazione di quell’incontaminato mondo dell’Arte» – ricercando, nella forma del romanzo, la «vita diffusa nelle cose, diluita nei giorni», «la cui massima individualità – e sembra un paradosso – costituisce anche la […] massima universalità».

«Elevazione operata dall’artista», «precisa, matematica convalidazione» della realtà, «immensa opera di redenzione operata in lui».

*

Dalla Bibliografia ragionata di Chiara Pasetti.

Il percorso – senza pretese di astratta completezza – all’interno delle fonti utilizzate da Antonia Pozzi per la stesura della propria tesi di laurea sulla formazione letteraria di Gustave Flaubert dagli esordi alla pubblicazione di Madame Bovary, ha lo scopo precipuo di ricostruire e analizzare la bibliografia effettivamente consultata e utilizzata dall’Autrice. Necessaria è la distinzione preliminare tra le opere di Gustave Flaubert e gli studi critici su Gustave Flaubert, che qui vengono ulteriormente distinti in studi in lingua francese e studi in lingua italiana. Si pensa così di offrire una chiave per comprendere alcune scelte compiute dalla Pozzi all’interno della bibliografia critica a sua disposizione, mettendo altresì in luce, secondo una precisa prospettiva, il valore del lavoro condotto dall’Autrice entro il panorama della complessiva bibliografia flaubertiana. Nonostante, infatti, quest’ultima si sia da allora notevolmente ampliata, e lo studioso abbia attualmente a disposizione strumenti almeno in parte più completi e rigorosi di quelli allora disponibili, la tesi della Pozzi rimane, all’interno degli studi italiani degli anni Trenta, un unicum che la rende un lavoro non soltanto «di amore», come ebbe a scrivere Banfi nella Premessa all’edizione Garzanti 1940, ma, certamente, sempre citando Banfi, anche di «comprensione intelligente e viva» dei principali nodi dell’estetica flaubertiana, analizzati e esposti con chiarezza dalla Pozzi a partire dal loro sorgere fino al momento della definitiva sistemazione.

*

Dall’Introduzione di Antonia Pozzi a Flaubert negli anni della sua formazione letteraria.

Flaubert, o dell’uomo-artista: tale è il problema di chi si ponga dinnanzi questa umanissima figura di lavoratore dell’arte e cerchi di penetrare il segreto della sua genialità creativa. Nato nel colmo fiorire del Romanticismo francese, avidamente nutritosi fin dalla fanciullezza di «slanci del cuore» e di «male del secolo», dopo avere sognato e liricamente invocato in una triste casa (a un angolo d’ospedale), in una triste città di provincia, le grandi evasioni verso il sole e verso il passato, Flaubert fra i venti e i trent’anni vede intorno a sé e vive dentro di sé, in modo tipico, la crisi e la scissione dell’anima romantica.

L’arte, che la teorica del romanticismo intendeva come suprema autonomia dello spirito, risoluzione e salvazione di tutti i valori della vita, perde in realtà nella prassi artistica la sua autonomia a servigio di concreti ideali: si versa nell’effusione lirica di tipo lamartiniano, si gonfia d’enfasi generica sulla grande strada vittorughiana che porta ai Miserabili. Ed ecco nascere, su dal giovane mondo borghese, una reazione violenta contro questo dilagare del vago e del retorico: è l’esigenza acuta e feconda di una nuova concretezza, è la voce del positivismo scientifico e filosofico, il verbo del realismo artistico.

Ma quella concezione romantica per cui l’arte assurgeva a risolutrice della vita, non si arrende di fronte al decadere dell’attuazione pratica, anzi teoricamente si esaspera e diviene rifugio e vessillo di quanti sentono ugualmente il disagio e dell’enfasi romantico-borghese e della cruda obbiettività realistica; contro la prima s’invoca un rinnovato amore della forma che, attraverso lo studio rigeneratore dei classici, riconduca entro una nuova purezza ed essenzialità di espressione i vastissimi contenuti acquisiti per sempre dal romanticismo al mondo spirituale; contro la seconda si rivendica il valore dell’elemento «occhio umano» nella riproduzione della realtà, si vuole ch’essa superi il meccanicismo fotografico e sia stile, visione recante la vigorosa impronta dello spirito, attività libera da fini eteronomi, Arte per l’arte.

Questo atteggiamento, che unisce Gautier a Baudelaire e ai Parnassiani, supera in Flaubert l’importanza teorica e si concreta in esperienza e salvazione morale di tutta una vita. Se è vero che in arte, a differenza che in filosofia, solo i problemi risolti contano e sul marmo nessuno cerca l’impronta delle mani che hanno foggiato la statua, ma piace in genere di considerare l’opera come già nata e avulsa per sempre dalla persona umana, dalla carne, vorremmo dire, del suo creatore, a noi è parso invece che qui, e soltanto qui – forse – nella storia della moderna cultura, non solo fosse lecito, ma anzi necessario, non recidere il legame vitale che intercorre fra problema di vita e problema d’arte, poiché questo legame costituisce da solo, in questo caso, il fondamento e il valore di tutta una personalità.

Di fronte a una dottrina estetica che, con l’esasperata preponderanza data all’elaborazione stilistica, sembra sfiorare in pratica il rischio del geroglifico e del tecnicismo, noi ci chiediamo: che cosa fa sì che l’opera ci dia, oltre l’emozione della sua bellezza plastica, tanta profonda commozione umana? Che cosa crea, all’interno dell’opera stessa, quell’incessante tensione trattenuta che la colloca come in un’atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale?

È che qui tutto è impegnato e la stesura di una pagina non implica soltanto la risoluzione di un problema letterario, ma rappresenta di per se stessa la risoluzione vivente di un problema di vita. In altre parole si può dire che, in nessuno come in Flaubert, il clima del tempo e le tradizioni culturali del paese, l’indole innata e le vie dello sviluppo spirituale abbiano così strettamente concorso non solo alla creazione di un’opera in cui i problemi di quel tempo e di quell’indole vengono trasfusi e trasfigurati, ma soprattutto alla formazione di un’estetica che, assommando quegli elementi in un supremo e singolare equilibrio, sembra divenire salvazione completa di una personalità e insieme simbolo di tutta una crisi della cultura.

Ora, ci è parso che il seguire passo per passo la genesi di questa riassuntiva individualità letteraria, l’esaminare da vicino gli alimenti culturali che l’hanno soccorsa e il progressivo delinearsi in essa di una fisionomia originale, fosse non solo di grande interesse, ma anche – qui più che altrove – fecondo di risultati: poiché le esperienze giovanili di Flaubert non sono, come per altri artisti o scrittori, i trascurabili antecedenti di una organica e ben sistemata rivelazione, data nella maturità e riassumente tutte le caratteristiche di una persona spirituale; bensì, nel caso Flaubert, il valore tipico della figura letteraria è proprio costituito da quell’evoluzione teorica che a grado a grado la porta al superamento pratico di se stessa. La storia, dunque, di questo rivolgimento spirituale, i cui due fattori principali sono già insiti nella natura di Flaubert bambino (e gli altri verranno via via accumulandosi intorno dal mondo circostante), è di capitale importanza.

E poiché la conversione teorica, pur precedendo di parecchi anni l’applicazione pratica, può dirsi a un certo punto decisamente compiuta – né avrà, di poi, a mutare –, è stato possibile riunire intorno alla prima formulazione dell’estetica flaubertiana quale è esposta nella giovanile Education Sentimentale, tutte le principali proposizioni critiche che Flaubert verrà enunciando fino ai suoi ultimi anni nelle pagine della Correspondance, nonché i più significativi collegamenti che è possibile stabilire fra questa e le contemporanee dottrine sull’arte.

Come questa dottrina ancora inesperimentata vada cercando, attraverso monche od erronee esperienze creative, la prova di se stessa, fino al grande, benefico travaglio della Bovary, è esposto nel terzo capitolo. Vorremmo avere delineato in tal modo fino alla sua vetta più alta, il cammino ascendente di questo spirito religioso dell’Arte.

__________________________________________

5213_1200986548542_4692695_n*Matteo Vecchio . Nato ventinove anni fa, ha collaborato con «Fronesis», «Il Foglio Clandestino», «Italian Poetry Review», «l’immaginazione», «Materiali di Estetica», «Otto/Novecento», «Paragone Letteratura», «Poesia», «Rivista di Storia della Filosofia», «Studi Italiani». Ha collaborato, in qualità di conferenziere, con l’Istituto di Studi Filosofici Antonio Banfi di Reggio Emilia, il Festival della Letteratura di Mantova, il Festival Librialsole, il Festival della Poesia Civile di Vercelli, l’Università degli Studi di Milano, l’Università degli Studi di Trieste, l’Università degli Studi dell’Insubria. Collabora inoltre con il progetto enciclopediadelledonne.it e, in qualità di consulente letterario, con Radio 6023, emittente dell’Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro (Fonti: Rai News, Festivaletteratura).


Influenze michelangiolesche nella certosa di Serra San Bruno

$
0
0
Certosa di Serra San Bruno. Parte superstite della chiesa, facciata

Certosa di Serra San Bruno. Parte superstite della chiesa, facciata

di Dario Puntieri*

Poco rimane oggi della prima fondazione certosina in Italia voluta da san Bruno di Colonia nel 1091. Il terreno per edificare l’eremo fu concesso al santo e ad altri monaci da Ruggiero di Altavilla pochi anni prima. La certosa, ricostruita alla fine dell’Ottocento per volontà dell’Ordine Generale, con l’intento di conservare le ossa del santo e  continuare la missione eremitica e contemplativa dei padri, venne distrutta dal terremoto del 1783. Attualmente, trattandosi di un ordine di clausura, la certosa è chiusa al pubblico; l’area in cui si trovano i ruderi dell’antica chiesa è accessibile solamente agli uomini, mentre all’interno del complesso monastico è possibile visitare il museo, che racconta la storia della fondazione e le varie fasi di costruzione dell’eremo. Il monastero, situato in una località boschiva di grande suggestione delle serre calabresi, conserva un’opera fortemente influenzata dalla cultura architettonica michelangiolesca importata dall’allievo Jacopo Del Duca, come spiega nel presente contributo Dario Puntieri.

“Chartreuse de Saint Etienne et Saint Bruno”, XIX sec. da Maisons de l’Ordre des Chartreux.

“Chartreuse de Saint Etienne et Saint Bruno”, XIX sec. da Maisons de l’Ordre des Chartreux.

Parlare della Certosa di Serra San Bruno è come aprire un capitolo mai concluso. Poco, ad esempio, si conosce delle strutture primigenie. I lavori di scavo intorno all’area dell’eremo, intrapresi nel 1968, non apportarono indicazioni di rilievo, anche se affiorarono fondazioni di epoca normanna[1].

Un’importante fase ricostruttiva della certosa ebbe inizio nel primo decennio del Cinquecento, quando i certosini ripresero possesso della Casa[2], passata nel 1193 all’ordine cistercense, proseguendo sino alla prima metà del XVII secolo. Si ebbe poi una prima distruzione, causata dal terremoto del 1783, e successivamente le demolizioni di fine Ottocento, quando si decretò l’edificazione della nuova certosa.

Per quanto riguarda la chiesa cinquecentesca è possibile rinvenire soluzioni derivanti dal linguaggio michelangiolesco, giunto in Calabria probabilmente attraverso Jacopo Del Duca, allievo e collaboratore del maestro fiorentino[3]. La chiesa, ricostruita a partire dal 1595 secondo la notizia del certosino Benedetto Tromby[4], costituisce un problema architettonico che non ha trovato tuttora una risoluzione definitiva, a causa soprattutto di lacune documentarie riguardanti la definizione progettuale e alcune questioni ancora poco chiare, che impediscono di fare piena luce su una delle opere significative della cultura tardo cinquecentesca calabrese. Della chiesa purtroppo rimane poco: fortemente colpita dal terremoto del 1783,  giunse sino alle soglie del Novecento, con la sua imponenza di rudere, quando si decise il disfacimento delle ultime mura rimaste, ad esclusione della parte inferiore della facciata che tuttora offre un’immagine sbiadita di quello che fu definito «il più maestoso e più ricco tempio della Calabria, ed uno dei più celebrati del Regno»[5].

Non confortano i supporti iconografici[6], benché fondamentali per la comprensione dell’edificio, costituiti da alcune lastre fotografiche di fine Ottocento, che mostrano le parti superstiti prima della demolizione, da un disegno planimetrico dell’intero complesso monastico, posteriore al 1904, e dalle note tavole della monumentale storia dell’Ordine di Tromby[7] e della Maisons de l’Ordre des Chartreux. Partendo proprio da queste ultime, le quali hanno costituito, inoltre, un sussidio importante per l’ipotesi ricostruttiva della parte mancante della facciata, è possibile notare che l’intero sviluppo plano-volumetrico sembra essere il risultato dell’innesto di più ambienti intorno al nucleo centrale della cupola, formati dalla navata, da un ampio transetto e da un coro profondo; impianto che modifica i canoni dimensionali della croce latina, derivante appunto dall’eccessivo prolungamento del transetto e del coro. Conseguenza dovuta principalmente a esigenze funzionali imposte dalla regola monastica; il coro, infatti, era concepito come una sorta di seconda navata per i padri claustrali, separata da quella dei conversi. È probabile che questa conformazione fosse corrispondente a un progetto di riconfigurazione che prevedeva un aumento delle dimensioni rispetto alla chiesa  già esistente, almeno per quanto riguarda la navata, come è stato rilevato da analisi stratigrafiche, svolte nel 1974, e da alcune verifiche, attuate durante il restauro del complesso monastico negli anni Ottanta, che hanno portato alla luce elementi murari di fondazioni antecedenti e in particolare la sostruzione di una navata e una struttura a pianta quadrangolare (forse una torre campanaria) in corrispondenza dei pilastri della chiesa distrutta dal terremoto[8].

Ruderi dell’antica chiesa della certosa, demoliti nel 1898. Archivio della Certosa di Serra San Bruno, lastre fotografiche di fine Ottocento

Ruderi dell’antica chiesa della certosa, demoliti nel 1898. Archivio della Certosa di Serra San Bruno, lastre fotografiche di fine Ottocento

È indubbio che il nuovo impianto della chiesa risenta delle teorie architettoniche tardo cinquecentesche e, di fatto, riprenda il modello romano del Gesù, la cui navata unica è delimitata da otto cappelle laterali, incorniciate da archi a tutto sesto, tra di loro comunicanti per mezzo di piccole aperture. L’aula della chiesa era chiusa da volte a crociera e contrassegnata, sulle facce laterali, da paraste doriche binate sorrette da un alto basamento, sormontate da un’ampia trabeazione che staccava nettamente le aperture ad arco delle nicchie dal claristorio, quest’ultimo contraddistinto da finestre architravate, come si evince dalle lastre fotografiche. Lo spazio centrale della cupola costituiva un elemento di raccordo tra i vari ambienti, una scelta probabilmente voluta, visto che l’incrocio transetto-navata doveva rappresentare una sorta di spazio divisorio tra l’aula e il coro e in questo contesto la collocazione del ciborio, che ricordiamo divideva i due ambienti, accentuava la separazione tra l’area dei padri procuratori (domus inferior) e quella degli anacoreti (domus superior).

D’altra parte il ciborio definiva un punto conclusivo del percorso che, partendo dal varco principale del monastero, giungeva alla chiesa collocata su un lato della corte d’onore, indicando chiaramente un confine tra lo spazio pubblico e quello claustrale e rafforzando al contempo la sua disposizione, concepita come anello di collegamento tra l’area del cenobio e quella dell’anacoresi: «Il tempio è il sito della celebrazione liturgica, della purificazione, della festa che trova uniti – seppure in spazi distinti – fratelli e padri. E’ il luogo nel quale si recitano i salmi e si celebra l’offizio divino [¼] Il ruolo catartico e intermediario della celebrazione nella chiesa è sottolineato dalla sua localizzazione centrale e filtrante, posta tra il nucleo esterno dei conversi e quello interno dei padri»[9].

La relazione di fine Seicento di Giovan Battista Pacichelli[10] offre informazioni decisamente utili alla comprensione del monastero e in particolare della chiesa. Sappiamo, ad esempio, che la cupola, completamente distrutta dal terremoto, era «tutta bianca, e coverta di piombo»[11] e nelle nicchie dei pilastri, sorreggenti il sistema cupoliforme, erano collocate le statue in marmo bianco «del Santo Fondatore, che mostra per infino i bottoni alle maniche della camiciuola, di Santo Stefano, di S. Gio: Battista, e della Beatiss. Vergine»[12]. Per quel che concerne la struttura delle cappelle è sempre il Pacichelli a riferire: «otto cappelle di marmi più preziosi, e più scelti, fuor ch’una di stucchi di marmi eccellenti.»[13].

Degli altari che abbellivano la chiesa, poco è giunto sino a noi, ma un’immagine dell’apparato decorativo, sebbene modificato nel rimontaggio ottocentesco, è offerta dagli altari, provenienti dalla certosa, oggi custoditi nella chiesa serrese dell’Addolorata[14], alla cui realizzazione avrebbe contribuito probabilmente la bottega napoletana di Cosimo Fanzago[15], ideatore dell’altare maggiore, orchestrato per creare, nello spettatore, un forte impatto emotivo come si intuisce anche dalle parole dello stesso Pacichelli[16].

Ricostruzione grafica della facciata della chiesa cinquecentesca della certosa di Serra San Bruno (D. Puntieri)

Ricostruzione grafica della facciata della chiesa cinquecentesca della certosa di Serra San Bruno (D. Puntieri).

Non bisogna, peraltro, escludere che la scelta tipologica per la chiesa della certosa  potrebbe essere stata suggerita a Del Duca da un progetto michelangiolesco per la chiesa del Gesù, commissionato nel 1554 dal cardinale camerlengo Bartolomeo De La Cueva, da alcuni identificato nel foglio 1819 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, anche se è ancora del tutto aperto il problema della paternità[17]. Nel disegno di Michelangelo è rappresentata la pianta della chiesa ad unica navata occupata sui lati da cappelle, aperta in un’ampia crociera cupolata e terminante con un’abside profonda che sembra sottrarre spazio al transetto, quest’ultimo caratterizzato da absidiole sui lati minori che invadono i vani accuratamente simmetrici della sacrestia e del campanile. Tale progetto, come è noto, coinciderà, invece, con quello realizzato da Vignola  che conferma, a distanza di anni, la validità di questo schema per l’Ordine gesuitico[18].

Non è difficile immaginare che Del Duca sia venuto direttamente a conoscenza della vicenda progettuale della chiesa del Gesù e della discussione relativa a un nuovo modello che avrebbe dovuto rinnovare la tipologia chiesastica, nell’adesione anche dei dettami tridentini. Come avrà avuto l’occasione di assistere almeno alle ultime battute della lunga fase ideativa del progetto della basilica di S. Pietro e in particolare all’epilogo michelangiolesco[19] che mantiene sostanzialmente lo schema centrico a quincunx con l’ampia smussatura dei piloni che sorreggono la cupola, al fine di produrre un effetto di dilatazione spaziale e di creare una articolazione più dinamica dei piloni stessi, rafforzata anche dall’inserimento delle nicchie. La stessa soluzione compare a Serra dove gli smussi angolari del vano cupolato determinano una figura ottagona irregolare la quale probabilmente porterà successivamente alla decisione fanzaghiana di riproporre la stessa forma per la struttura compositiva del ciborio, nell’intenzione di stabilire una sorta di corrispondenza visiva, attraverso una compenetrazione di elementi, tra la zona presbiteriale e l’altare pensato come punto cardine dell’intero assetto plani-volumetrico della chiesa.

Tuttavia, è la facciata della chiesa a manifestare eloquentemente l’intervento di Del Duca e può essere messa a confronto con opere certe dell’architetto siciliano, in primis con il prospetto romano di S. Maria in Trivio o la facciata posteriore della tribuna messinese di S. Giovanni di Malta[20] quest’ultima cronologicamente più vicina alla chiesa serrese della quale sembra acquisire soprattutto i meccanismi compositivi come la partizione verticale, con la scansione ritmica che crea intercolumni a interasse variabile, e la divisione in cinque campate.

Roma, chiesa di S. Maria in Trivio (J. Del Duca).

Roma, chiesa di S. Maria in Trivio (J. Del Duca).

Analoga ai due prospetti è la vigorosa accentuazione sia del basamento che della fascia architrave-fregio-cornice. La decisa sporgenza del cornicione contribuisce a creare, in tutte e due i casi, un forte stacco chiaroscurale, definendo una spiccata linea di demarcazione.

L’utilizzo di targhe e riquadrature rappresenta una costante nell’opera di Del Duca, elementi di chiara derivazione michelangiolesca, che non si limitano semplicemente a una funzione ornamentale, ma contribuiscono a legare visivamente e unificare le singole parti. A Serra, ad esempio, il lacunare ai piedi dell’edicola forma un tutt’uno con l’organismo sovrastante, in un ideale incastro definito dal profilo che crea l’incorniciatura spezzata alla base della nicchia. L’accentuazione verticale che viene a generarsi, data la vicinanza degli oggetti, non si esaurisce al primo livello della campata, ma prosegue sino al lacunare e all’apertura dell’attico, come accade pure per le riquadrature e le targhe delle campate secondarie.

La particolarità della facciata della chiesa certosina è indubbiamente rappresentata dal disegno atipico delle paraste inferiori che si presentano come unico organismo solcato da un bassofondo il quale accentua al contempo la percezione visiva dell’accostamento di due fusti, configurandosi come ordine binato, prodotto dall’esercizio di rielaborazione dell’ordinanza ridotta a una sorta di “fasciatura” verticale che si interseca, in una ideale intelaiatura, ai ricorsi orizzontali delle cornici. Infatti, l’apparente predominanza dei pilastri viene per così dire indebolita, anche per la loro relativa altezza, dalla scansione orizzontale che entra in contrasto con l’ordine principale, determinando la contrazione del capitello dorico che, seppure integro dei suoi componenti, appare “atrofizzato”.

Si sono cercati esempi[21] di tale ordine che sembra trovare una significativa affinità con una sperimentazione michelangiolesca per un monumento funebre per la Sacrestia Nuova[22] della chiesa di S. Lorenzo di Firenze, dove viene proposta per la strutturazione compositiva dell’edicola un ordine “a fasce”, derivato dall’accostamento di paraste binate, unificate da un unico capitello, con l’accentuazione chiaroscurale che evidenzia la profondità del bassofondo, riconducendo a un’immagine unitaria l’intero oggetto architettonico.

Tale soluzione formale è da confrontare anche con le paraste in corrispondenza degli angoli del tamburo della chiesa romana di S. Maria di Loreto; queste, più che definire l’ordinanza architettonica, costituiscono una sorta di “fasciatura”, conclusa orizzontalmente dalla linea di trabeazione e dal marcapiano. La breve scanalatura tra le paraste e la modesta sporgenza del capitello dorico concorrono alla fusione dei singoli componenti, ricreando una sorta di intelaiatura della facciata.

È facile individuare in questo processo semplificativo una delle conseguenze della ricerca michelangiolesca per quanto riguarda il carattere strutturale della parete che vede una prima applicazione nella sacrestia di S. Lorenzo, dove l’accentuato rilievo delle membrature grigie forma sulle pareti chiare una sorta di intelaiatura entro la quale si inseriscono elementi architettonici e scultorei che movimentano le superfici. Allo stesso modo, paraste e cornici formano un solido telaio sia nella sala di lettura della biblioteca fiorentina che sui prospetti dei palazzi capitolini.

Il sistema dell’ordinanza come pura e semplice scansione sembra strutturare anche la facciata di S. Maria in Trivio nella quale la ripartizione orizzontale occupa un posto non secondario rispetto alla preminenza delle paraste[23]. Singolare risulta l’accostamento della cornice superiore della finestra cieca al collarino delle paraste, definendo il profilo di una linea spezzata che contribuisce a rafforzare tale andamento lineare. Un meccanismo simile è rinvenibile nella facciata della chiesa certosina nel trattamento dei capitelli dorici che si configurano come segmenti di cornice, allineati alla riquadratura superiore delle targhe e dei lacunari, correndo parallelamente alle fasce marcapiano[24].

In S. Maria in Trivio lo scontro evidente tra la semplificazione dello schema compositivo di base (la partitura del prospetto mediante l’ordine gigante, l’esiguità dell’attico terminale) e la complessità di assetto delle superfici dovuta all’eccessiva presenza quasi ingombrante di aperture e di elementi decorativi rappresenta un aspetto fondamentale, riscontrabile in altre opere delduchesche, più volte individuato da  Sandro Benedetti come contrapposizione fra rigore e libertà procedimento che potrebbe giustificare, inoltre, per la chiesa serrese l’utilizzo di un ordine canonico per il registro superiore rispetto a quello più eversivo inferiore. In questa alternanza tra poli estremi la ricerca di Del Duca sembra raggiungere un ulteriore livello di sintetismo e di chiarezza formale, risultati di quel processo di “elementarismo dell’insegnamento buonarrotiano, tipico della tarda produzione delduchesca, da intendersi non tanto come procedimento di sintesi delle indicazioni michelangiolesche, quanto come svolgimento evolutivo che approda a formulazioni originali e autonome, spingendosi, in molti casi, verso direzioni tanto particolari che neppure lo stesso maestro ha inteso percorrere[25].

Rilievo della facciata posteriore della Tribuna di San Giovanni di Malta a Messina (da F. PAOLINO, 1990).

Rilievo della facciata posteriore della Tribuna di San Giovanni di Malta a Messina (da F. PAOLINO, 1990).

In questo contesto significativa è la diversa interpretazione della composizione organizzativa degli schemi architettonici che riesce a dare forma a soluzioni nuove, alcune volte di estrema originalità e che investe principalmente i precetti normativi degli ordini architettonici dei quali vengono eluse «tradizioni e regole quasi con iconoclastica compiacenza»[26].

Ma se il modello del Gesù, al quale è immediato ricondurre il prospetto certosino, appare più aderente allo schema di S. Maria Novella, soprattutto per la fascia di raccordo tra primo e secondo ordine (mezzanino), oggetto di riflessione anche in Michelangelo (ricordando che avrà fortuna nella produzione successiva romana, bastino gli esempi di S. Susanna o di S. Ignazio) la facciata certosina si discosta, rinunciando a quell’elemento di mediazione che sembra essere assorbito dal registro inferiore e inserito al di sotto della trabeazione, segnalato, però, dalla presenza di cartelle e lacunari[27], motivi presenti anche nelle ultime proposte per S. Lorenzo in cui è possibile trovare punti di tangenza con la chiesa di Serra: si veda, ad esempio, nel disegno 41 Ar di Casa Buonarroti il ritmo e l’articolazione delle campate e la definizione del portale concluso da un semplice timpano triangolare sovrastato da un lacunare[28].

Aggiungiamo, inoltre, che le sperimentazioni per la facciata fiorentina, relativamente alla fase di passaggio dal primo al secondo ordine, avevano già suggerito a Del Duca la soluzione formale del breve attico della chiesa di S. Maria in Trivio, espressa dalla compenetrazione del mezzanino nel registro superiore, secondo l’idea michelangiolesca formulata specialmente nel foglio 47 Ar[29].

Jacopo Della Porta, facciata della chiesa del Gesù, incisione di Villamena.

Jacopo Della Porta, facciata della chiesa del Gesù, incisione di Villamena.

Alla luce di queste considerazioni, avendo presente soprattutto i progetti per le facciate delle chiese fornite dal siciliano, si può affermare che il prospetto certosino non solo porta a estrema maturazione una ricerca che passa attraverso le sperimentazioni michelangiolesche per S. Lorenzo, ma sembra assimilare la problematica progettuale tardo cinquecentesca relativa alla cosiddetta  “facciata ad edicola” che proprio a Roma trova una sua espressione più completa, convergendo verso un organismo che tenta di prolungare soluzioni ritenute ancora valide, nel tentativo di offrire nuovi spunti di elaborazioni rispetto alle meno eversive riflessioni di questo modello. In quest’ottica la chiesa della certosa si imporrebbe come una delle più compiute realizzazioni delduchesche che proprio da un’area periferica risponde al dibattito architettonico contemporaneo.

A conclusione di queste note è utile ricordare le difficoltà oggettive che si riscontrano analizzando opere in stato frammentario, aggravate anche dalla mancanza di precisi riferimenti documentari, come nel caso appena analizzato, che proprio a causa di questa condizione vengono escluse dai canali di ricerca più autorevoli, anche se spesse volte presentano caratteri e particolarità rilevanti, se non fondamentali, per la comprensione delle dinamiche artistiche non appartenenti soltanto alla storia locale, ma a contesti più ampi della storia dell’arte italiana.

Esempi come la certosa o il vicino convento di S. Domenico in Soriano evocano luoghi nei quali si sono consumate vicende artistiche di grande rilievo che hanno riguardato alcuni protagonisti della scena artistica rinascimentale e barocca. In questa prospettiva le indagini risultano più stimolanti poiché talvolta fanno emergere, quasi come una scoperta archeologica, elementi di conoscenza impensabili che stentano, nonostante gli sforzi, a trovare una giusta considerazione in un panorama più ampio.*

* Queste considerazioni sono tratte da un precedente studio:

PUNTIERI D., La chiesa della certosa di Serra San Bruno: riflessioni e aggiunte all’attribuzione a Jacopo Del Duca, in M. Panarello (a cura di), Artisti della tarda maniera nel Viceregno di Napoli. Mastri scultori, marmorari, architetti, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2010, pp. 279-300.


[1] Si veda principalmente: I. Principe, La Certosa di S. Stefano del Bosco a Serra S. Bruno. Fonti e documenti per la storia di un territorio calabrese, Chiaravalle Centrale, Frama Sud, 1980; San Bruno e la Certosa di Calabria, Atti del Convegno Internazionale di Studi per il IX Centenario della Certosa di Serra S. Bruno, Squillace – Serra San Bruno, 15-18 settembre 1991, a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995; G. Gritella, La Certosa di S. Stefano del Bosco a Serra S. Bruno, Savigliano, Edizioni L’Artistica Savigliano, 1991.

[2] Cfr. G. Gritella, La Certosa di S. Stefano del Bosco cit. e inoltre R. Banchini, I certosini a Serra San Bruno, in Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di S. Valtieri, Roma, Gangemi, 2002, pp. 727-748.

[3] Per l’attribuzione a Jacopo Del Duca si rimanda a G. Nisticò, Su alcuni problemi artistici della Certosa di Serra S. Bruno in Calabria, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1989; D. Puntieri, Certosa di Serra S. Bruno: la chiesa cinquecentesca nell’opera di Jacopo Del Duca, Vibo Valentia, Mapograf, 2003; Idem, La chiesa della certosa di Serra San Bruno: riflessioni e aggiunte all’attribuzione a Jacopo Del Duca, in M. Panarello, Artisti della tarda maniera nel Viceregno di Napoli. Mastri scultori, marmorari, architetti, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2010, pp. 279-300.

[4] La data di edificazione della chiesa viene indicata dal certosino, il quale riporta anche la somma di denaro spesa per la costruzione: B. Tromby, Storia critico-cronologica, diplomatica, del Patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano, 10 voll., Napoli, V. Orsino, 1773-79, tomo II, p. 209.

[5] D. Taccone Gallucci, Memorie storiche della Certosa de’ Santi Stefano e Brunone in Calabria, Napoli, Tip. Festa, 1885, p. 54.

[6] Per le fonti iconografiche si rimanda essenzialmente a: I. Principe, La Certosa di S. Stefano del Bosco a Serra San Bruno cit.; Idem, L’immagine nascosta. Lastre fotografiche di fine secolo alla Certosa di Serra San Bruno, a cura di I. Principe, Firenze, Comitato Pro Santa Maria, 1983; G. Gritella, La Certosa di S. Stefano del Bosco cit.; T. Ceravolo, A. Zaffino, La Certosa dei Santi Stefano e Bruno cit..

[7] B. Tromby, Storia critico-cronologica, diplomatica cit.

     [8] Cfr. G. Gritella, La Certosa di S. Stefano del Bosco cit., p. 61.

[9] M. A. Giusti, I monasteri certosini in Europa. Genesi e sviluppo di un itinerario ideale, in San Bruno e la Certosa di Calabria, Atti del Convegno Internazionale di Studi per il IX Centenario della Certosa di Serra San Bruno, Squillace – Serra San Bruno, 15-18 settembre 1991, a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, pp. 533-543: 540.

[10] G. B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, 3 voll., Stamperia di Dom. Ant. Parrino, Napoli, 1703, ristampa a cura di G. Valente, Chiaravalle Centrale, Frama Sud, 1977.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

      [14] Cfr. G. Gritella, La Certosa di S. Stefano del Bosco cit.,

[15] Per una disamina relativa al ciborio della chiesa della certosa si rimanda al recente studio di M. Panarello, Fanzago e fanzaghiani in Calabria. Il circuito artistico nel Seicento tra Roma, Napoli e la Sicilia, Soveria Mannelli, Rubbettino, in particolare da p. 197 a p. 310.

[16] G. B. Pacichelli, Il Regno di Napoli cit., p. 104.

[17] Sulla problematica si rinvia principalmente a un recente saggio: A. Bedon, Architetture minori di Michelangelo a Roma, in Michelangelo architetto a Roma, a cura di M. Mussolin – C. Altavista, Catalogo della Mostra, Roma, 6 ottobre 2009 – 7 febbraio 2010, Milano, Silvana Editore, 2009, pp. 46-57.

[18] Vedi D. Puntieri, La chiesa della Certosa di Serra San Bruno cit.

[19] Sull’argomento si veda almeno: A. Brodini, San Pietro in Vaticano, in Michelangelo architetto a Roma cit., pp. 170-179.

[20] Cfr. D. Puntieri, Certosa di Serra S. Bruno cit. e Idem., La chiesa della certosa cit. Per quanto riguarda la chiesa messinese di S. Giovanni di Malta si vedano: S. Benedetti, Giacomo Del Duca e l’architettura del Cinquecento, Roma, Officina Edizioni, 1973; F. Paolino, Giacomo Del Duca. Le opere siciliane, Messina, Società Messinese di Storia Patria, 1990.

[21] Marcello Fagiolo ravvisa analogie con le paraste della peruzziana Villa Trivulzio a Salone e con quelle del Nicchione del Cortile del Belvedere di Pirro Ligorio, cfr. M. Fagiolo, Una aggiunta al catalogo delduchesco, in D. Puntieri, Certosa di Serra S. Bruno cit., p. 8. Si veda quanto detto inoltre da R. Banchini, I certosini a Serra San Bruno cit.

[22] Il disegno a matita nera si trova al British Museum di Londra.

[23] S. Benedetti, Giacomo Del Duca cit., pp. 155-174.

[24] Cfr. D. Puntieri, Certosa di Serra San Bruno cit.

[25] Sull’argomento si consiglia la consultazione di S. Benedetti, Giacomo Del Duca cit.

[26]Ivi, p. 41.

[27] Si veda in particolare il disegno di E. Dupèrac.

[28] Sui disegni relativi alla facciata di S. Lorenzo si rimanda alla scheda di H. A. Millon, Michelangelo e la facciata di San Lorenzo a Firenze, in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, a cura di H. Millon, V. Magnago Lampugnani, Milano, Bompiani, 1994, pp. 566-574. Sull’argomento si segnalano due volumi recenti: P. Bertoncini Sabatini, G. Morolli, Michelangelo e la facciata di San Lorenzo: dai progetti alla realtà virtuale. Le colonne ritrovate, Montecatini Terme, Maschietto Editore, 2007 e Michelangelo architetto a San Lorenzo. Quattro problemi aperti, a cura di P. Ruschi, Catalogo della Mostra, Firenze, 5 giugno 2007 – 12 novembre 2007, Firenze, Mandragora, 2007; inoltre P. Ragionieri, La collezione dei disegni di Michelangelo della Casa Buonarroti, in Michelangelo architetto a Roma cit., pp. 38-45.

[29] Si rimanda nuovamente alla scheda di H. A. Millon, Michelangelo e la facciata di San Lorenzo cit.

__________________________________________________________________

*Dario Puntieri, laureato in architettura presso l’Università degli Studi di Firenze, si è addottorato in Cultura storico-giuridica ed architettonica in età moderna e contemporanea nell’area mediterranea presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha svolto un tirocinio di ricerca presso l’Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria, ha collaborato con il Centro di Studi sulla Cultura e l’Immagine di Roma e,  dal 2003 al 2010,  alla cattedra di Storia dell’Architettura e Conservazione dei beni architettonici presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria. Socio fondatore e ricercatore del Centro Internazionale di Studi sul Barocco in Calabria e del Centro di Studi “Esperide. Cultura artistica e architettonica in Calabria”, si occupa di architettura tardo cinquecentesca e barocca, ed è autore di diversi saggi, tra i quali: PUNTIERI D., Tra Michelangelo e Serlio: considerazioni su alcuni episodi calabresi, in M. Panarello (a cura di), Architettura residenziale del Sei e Settecento in Calabria, Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2005; PUNTIERI D., C. Autore, G.B. De Cusiron, V. Ferraresi, F. La Vega, A. Winspeare, in V. Cazzato (a cura di) Atlante del giardino italiano 1750-1940. Dizionario biografico di architetti, giardinieri, botanici, committenti, letterati e altri protagonisti. Italia centrale e meridionale, Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, 2009. PUNTIERI D., Influssi michelangioleschi in alcuni episodi di architettura tardo cinquecentesca, in M.P. Di Dario Guida (a cura di), Capolavori d’arte in Calabria, dal Medioevo al Novecento, Salerno, 2009. PUNTIERI D., La “corte d’onore” dell’antica certosa di Serra San Bruno. Presenze architettoniche seicentesche, in  M. Panarello (a cura di), Fanzago e fanzaghiani in Calabria e nel circuito artistico tra Roma, Napoli e la Sicilia, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2012. PUNTIERI D., M. PANARELLO, Residenze nobiliari in Calabria: spazi, decorazioni e arredi nelle dimore del Sei e Settecento, in A. Anselmi (a cura di), Collezionismo e politica culturale nella Calabria vicereale, borbonica, post-unitaria e contemporanea, Roma, Gangemi Editore, 2012. Attualmente svolge una ricerca sul convento di san Francesco di Paola e sta curando i testi riguardanti alcuni centri della Calabria per le guide turistiche Iiriti Editore.


La figura nascosta

$
0
0
Luca Giordano, La morte di Seneca

Luca Giordano, La morte di Seneca, 1684

di Emma Pretti

Mi sento molto vicina a Kurt Vonnegut, soprattutto per le intenzioni che vogliono essere sceme e  intelligenti allo stesso tempo (con la differenza che nel mio caso i propositi sono più scemi che intelligenti). Alla domanda di un giornalista: «quanto c’è di autobiografico o almeno direttamente autobiografico?», Vonnegut rispondeva: «A queste cose non ci pensi. Se devi pensare a sciare, va a finire che non scii e la stessa cosa vale anche per la scrittura…». Parafrasando una domanda simile riguardo al componimento che segue (mi piace qualche volta immaginare che un giornalista si lambicchi per propormi domande che mi lasceranno piacevolmente delusa per la loro ovvietà) ci si potrebbe chiedere: quanto del nostro presente si può individuare in questa sua lirica? Si possono riconoscere personaggi contemporanei? E in che misura aderisce alla nostra epoca, alla politica odierna? Si tratta forse di un attacco alla politica in generale? In realtà tutto viene affidato all’interpretazione del lettore. Come quando nella Settimana Enigmistica si gioca alla “ figura nascosta” e si uniscono i puntini per far scaturire l’immagine legnosa di un uomo che porta a spasso il cane (ecco tra le parole si sparpagliano sempre manciate di puntini che il lettore, se gli va, può legare tra loro e provare a riconoscerne l’ulteriore disegno). A volte prende vita un grande arabesco di rimandi, ma capita anche che il gioco non parta (se per colpa dell’enigmista o del lettore, non si sa). Comunque alla fine il semplice affresco del linguaggio può rivelarsi anche solo il passatempo migliore.

Seneca nell’ora della pace perfetta

La sua camera era quella orientata nel modo migliore.
Si rivolgeva al sole nascente e con un’ampia finestra
attraversava l’esperienza vitale del giardino.
Seneca vi sedeva ancora prima dell’alba e aspettava
che il sole si alzasse quel tanto da sfiorare il tetto
e filtrare poco alla volta tra rami del mirto che scorgeva
proprio davanti a sé.
Al primo tocco le foglie trattenevano l’ombra
e diventavano nere, poi liberavano un colore puro
che brillava dell’umidità della notte.
Come un innamorato si svegliava molto prima
per non tardare all’appuntamento di quest’ora
quieta e gaudiosa, inondata da un sole fresco
e felice di se stesso, che scopre di essere atteso
e ne va fiero.
Immobile, con le braccia comodamente appoggiate
al legno del sedile,
mentre la grana grossa del buio diventa più fine e
la penombra più sottile e trasparente, ritrovava
tutte le cose lasciate la sera prima esattamente
allo stesso posto,
esattamente identiche eppure impegnate
ad apparire diverse.
La considerava una gran bella meraviglia,
voleva essere presente all’apertura di questo scrigno.
Non intendeva abbandonarsi allo stupore ma assaporare
la soddisfazione austera di un piccolo morso di serenità
e chiarore.
La stanza era spoglia, pulita e sgombra, priva di mobili
preziosi; poche cose indispensabili, linee nette.
Determinante il mosaico del pavimento, in piena vista,
il colore leggero e raffinato alle pareti, un disegno semplice e
elegante che decorasse gli angoli vicino al soffitto;
un affresco raffinato ed eloquente al suo fianco,
sull’importanza e la fatica del sapere
e una colonnina da appoggio in marmo pregiato,
di cui amava le venature. Il suo animo nobile non aveva bisogno
altro.
Raccogliersi nell’essenzialità, allontanare e la sovrabbondanza
e lo squallore del vuoto. Mantenere nelle cose minime un’eleganza
naturale. Maestro di semplicità. Bisogna essere aristocratici per farlo.
Aristocratici e un po’ stanchi del mondo.

Nelle diverse stanze della casa invece i muri dipinti esibivano cesti carichi di frutti
e altre prelibatezze patrizie; melannurche rosso brillante disposte a piramide
e ornate con rami di foglie verdi che scendevano, s’intrecciavano
e correvano nella decorazione da una parete all’altra.
In quei primi bagliori però
i disegni s’intravedevano appena come forme indistinte.
Nel suo luogo privato la luce cresceva lentamente;
cadendo a spiovente da un angolo del patio
si allargava finché inondava la sua fetta di giardino
e tagliava a metà l’imboccatura del pozzo al centro.
Metà nero, metà quasi oro: i granelli di sabbia tra le pietre del pozzo
iniziano a luccicare minuscoli.
Intanto i colori si addensano e il respiro prova a dissetarsi contro l’arsura
di una notte carica di pensieri e incertezze scoscese.
Da ragazzo, svegliatosi in riva a un fiume prima dell’alba,
quando il cielo è ancora grigio,
si trovò ad annaspare in mezzo a una foschia densa e fredda
che quasi ghiacciava sulle pietre. Scese nell’acqua e a nuoto e
cominciò ad attraversare il fiume finché raggiunse l’altra sponda.
Vi si aggrappò, afferrò le erbe tenacemente e riuscì a sollevarsi in piedi.
Dalla riva poteva vedere la sponda opposta coperta dalla striscia
di nebbia lattiginosa e sbalordire per come dal suo punto invece tutto
fosse chiaro e l’occhio potesse scorgere in dettaglio
l’agitarsi continuo della corrente.
Luce e aria, fresca mattutina. Un’ora di purezza e quiete,
di salute per l’animo. Tutti in casa dormivano ancora. Riposavano
nel buio piumato delle stanze. Agio e autorità di una casa patrizia.
L’influenza che ottiene sullo scorrere delle cose. Il prestigio della
sua figura che lascia un segno, e dimostrazioni di stima,
sguardi deferenti.
È per una strana beffa inspiegabile della sorte che proprio la considerazione
avesse posto la sua persona in una delle condizioni più pericolose,
costretto ad avanzare sopra un terreno impervio, circondato da un
paesaggio grinzoso e malsicuro, proteggendo la sua famiglia se non
attraverso la ripugnante accettazione di brutture e intrighi.
Legato senza possibilità di scampo a un uomo che avrebbe abbandonato
volentieri al suo destino malsano se non lo minacciasse continuamente
con la zampa di tigre alzata. Un uomo che non avrebbe mai dovuto avere
in consegna altri destini, se gli dei non fossero quello che sono:
eterni giovinastri distratti dai propri egoismi.
Una ruga profonda gli solcò la fronte, accompagnata da altre più piccole,
e subito dopo le labbra presero una piega amara e rassegnata:
aveva sedici anni quando lo vide alle spalle della madre Agrippina
giocherellare con un boccolo sfuggito alla sua acconciatura e
solleticarle la nuca, disinteressato e laconico – rapito
dagli uccelli rari della voliera.
Mentre la madre nominava Seneca suo precettore
il ragazzo ostentava un’insolente distrazione, guardava per aria
ora svagato e gioioso, ora scuro e attento, come se un volo di luride
mosche l’avesse colto di sorpresa.
Esortato dalla madre si mosse per salutare il Maestro.

Si fece avanti con una mossa empia del capo
e l’andatura mendace degli assassini che adesso
da imperatore lo circondano come un coro,
bevono alla sua tavola e spolverano gli orli
delle sue vesti pesanti d’oro e di complotti.
Nerone: un uomo inaffidabile, pericoloso,
debole verso i vizi, crudele senz’ombra di virtù,
incline a pratiche insane.
Durante la sua formazione Seneca lo vide crescere
come una pianta venefica.
Eppure quest’uomo che portava addosso
solo titoli di sciagura, lo ammirava tanto
da richiamarlo con sé dopo molti anni.
La sua mente era acrobata di un contorsionismo
scellerato, capace di plasmare il potere
in un giogo infame di sottomissione.
Seneca ne era la prova.
Nessuna scelta. Nessun rifiuto. Nessuna mossa gli era
concessa senza che l’intera famiglia non ne patisse
i pericoli. Una rete a maglie strettissime lo appendeva
alla cintura dell’imperatore.
Nerone lo rese schiavo e testimone, perciò in parte
colpevole,
colpevole per il semplice fatto di sapere e di aver visto.
Come diremmo oggi: un’inculata imperiale.
Per questo nelle sue lettere scrive a Lucilio:
Non gioire, non piangere, non sperare.
Sii freddo come il marmo e friabile come
gesso. Le passioni sono rapide, i desideri
ingannevoli e le forme del mondo appaiono belle
solo da lontano. Ciò che per qualcuno è il paradiso
per chi lo vive può essere l’inferno.
Non aggrapparti a nulla poiché tutto sparirà.
Cancella le emozioni – portano all’ubriachezza
dell’anima.
E non aver paura della morte dal momento che
essa è tutta intorno a noi. La temiamo perché
ne sperimentiamo solo la perdita, come se di una casa
scorgessimo il panorama da un’unica finestra.
Vivi con responsabilità. Responsabilità significa
stare al mondo con gli occhi aperti, prendersi cura
di se stessi e degli altri, interrogarsi, cercare
e nello stesso tempo prestare ascolto.
Ti accorgerai allora che ogni uomo conosce la servitù
in un modo o nell’altro, e per la condizione umana
non c’è modo di sfuggirvi; ma considerando
che l’infelicità non consiste nel fare una cosa
per ordine altrui ma nel farla contro la propria volontà,
chi accetta di buon grado un ordine, una necessità,
sfugge all’aspetto più crudele della servitù.
Non puntare alla gioia. La gioia è un barbaglio di sole

che incendia la vetrata e impressiona l’occhio
lasciandolo cieco.
Coltiva la serenità distesa alla luce del mattino,
che ringiovanisca la tua giornata ancorché vecchia. –
Alcune voci all’ingresso segnalavano che i domestici
erano alle prese con le incombenze della giornata:
acquisti e pulizie, il ricevimento di garzoni che recavano
le merci ordinate e gli omaggi provenienti dai poderi.
Tutti gli abitanti della casa riprendevano a popolare le stanze
e attraversare i corridoi. Fuori dalla sua vista voci di fanciulli
che erano corsi in giardino per venir subito ripresi da un’ancella.
Sarebbe rimasto in questa stanza fermo come il diamante e sereno
come il più terso dei cieli invernali, lucidato da irraggiungibili
venti d’alta quota.
Avrebbe accolto qui i messi dell’imperatore, stretti
e legati fra loro come un fascio di serpi velenose;
e dopo aver ascoltato la fatale ingiunzione,
chiamato a sé i familiari -
di fronte a questa stessa finestra
avrebbe dato disposizioni per consumare
il lusso estremo della sua partenza.

________________________________________________________

Emma PrettiEmma Pretti è nata a Trino in provincia di Vercelli. Collabora con numerose riviste italiane e straniere con poesie, traduzioni, recensioni e racconti. Suoi testi poetici sono presenti nell’antologia Giovani poeti nati dopo il ’50, diretta da Edoardo Sanguineti e curata da Adriano Spatola. Il suo primo libro di poesia, Assurde presenze perfette, è del 1995 (Giardini editore). In seguito ha pubblicato Battaglie nane e la raccolta di poemi Viaggio da Ovest a Est (Istituti Poligrafici Internazionali, Pisa). Nel 2002 Economia del bosco (Caramanica Editore), A Caccia in paradiso (Edizioni Joker, 2005) e la recente raccolta di liriche, I giorni chiamati nemici, edita dalla Società Editrice Fiorentina (Sef) nel febbraio 2010, che apre la collana “Ungarettiana” diretta da Paolo Valesio e Alessandro Polcri (clicca qui). Suoi racconti sono apparsi nelle riviste «Italian Poetry Review» e «Le colline di Pavese». Nel 2010 ha vinto il concorso indetto da Puntoacapo Editrice “La Vita In Prosa” con il racconto Randagi. È presente in Samgha con l’articolo Confidiamo in Discovery Channel.

Clicca qui per guardare il blog personale di Emma e seguila su Twitter come @Emmapretti.


Notizie samghiane (Concorso Gozzano, Gabriele Basilico, e Orhan Pamuk)

$
0
0

a cura della Redazione
Guido-GozzanoPoesia e Narrativa

A Terzo, un piccolo paese nel Monferrato, si terrà in ottobre la premiazione del XIV Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Guido Gozzano”, che comprende quattro diverse categorie di inediti, sia in prosa che in versi (oltre che in dialetto). Samgha è felice di diffondere informazioni al riguardo e di offrire ai suoi lettori la possibilità di scaricare il bando per il 2013; basta cliccare qui di seguito: BANDO GOZZANO 2013. La scadenza ufficiale è ai primi di agosto. s.g.

________________________________________________________________

7BeirutLa morte di Basilico

La settimana scorsa è morto il fotografo milanese Gabriele Basilico (1944-2013), che amava definirsi un “misuratore di spazi” e ha attraversato tre generazioni come pioniere della fotografia e della forma urbana. Abitualmente, Basilico stampava i propri lavori in un classico bianco e nero, e raggiunse una considervole notorietà con la splendida serie Beirut 1991 (di cui pubblichiamo qui uno scatto), che documenta la devastazione della guerra in Libano.

La fotografia di Basilico, per la sua attenzione ai manufatti dell’architettura industriale, appare chiaramente collegata alla cosiddetta “scuola di Düsseldorf”, capitanata da Bernd e Hilla Becher; ma l’attenzione al dettaglio e la qualità del “pittorialismo pacifico”, per citare una formula della storica dell’arte Svetlana Alpers, lo rendono molto vicino ai grandi olandesi del Seicento. Il ricordo di Mario Calabresi, su La Stampa, a proposito di una foto scattata in Alta Normandia nel 1985, va appunto in questa direzione: «Dall’alto della collina abbracciavo il Paese con le case antiche e gli edifici industriali, il porto, il mare, le barche, la terra e le nuvole che volavano velocissime. Tutto era davanti a me, reso ancora più potente dal vento fortissimo che stava rendendo il paesaggio una cosa viva, c’era un cielo alla Vermeer o come quelli che avevo ammirato nelle vedute di Dresda di Bernardo Bellotto: dovevo solo scattare. Volevo un’immagine incisa, con una solidità materica ben visibile, così avevo bisogno di un tempo di posa lungo, ma il cavalletto volava via e tutto si agitava. Allora ci siamo tolti le giacche a vento, abbiamo improvvisato una vela di protezione e finalmente ce l’ho fatta». s.g.

________________________________________________________________

Digital imageB for Bookseller

In un quartiere centrale ma tutto sommato defilato di Chicago, resiste ancora uno dei pochissimi librai americani che offre un catalogo aggiornato in lingua originale: francese, italiano, spagnolo, e tedesco. Si trova al 1307 E. 57th Street, a pochi passi dalla gloriosa Newberry Library, e merita una visita non affrettata. s.g.

________________________________________________________________

Orhan Pamuk's Museum of Innocence in IstanbulUn nuovo Pamuk

Il personaggio immortalato in Padri e figli di Turgenev, il proprietario terriero in rovina che non crede più alle proprie radicate convinzioni ma continua a temere il futuro per ragioni inesplicabili, rappresenta un tipo della narrativa eurasiatica la cui influenza si fa sentire anche nella multiforme opera di Orhan Pamuk. Il recente recupero di Silent House (esce a febbraio da Knopf e presumibilmente sarà presto tradotto anche da Einaudi) propone un romanzo in cui una famiglia della classe media in un borgo sul Mar di Marmara viene travolta dai venti del nazionalismo (con lo slogan “la Turchia per i Turchi”) e da una versione autoselettiva dell’Islam che tende a raffigurare ogni dissenso come una forma di tradimento. s.g.


Ritirare il soggetto. Poetica da una poesia in Sebastiano Aglieco

$
0
0
Foto di Ferdinando Scianna

Foto di Ferdinando Scianna

di Paolo Donini*

I

I poeti hanno sempre cura di lasciare tra le pagine l’indizio lampante della loro poetica, in quella coniugazione che distingue e raccorda poesia e poema nelle accezioni con cui li identifica Paul Celan ne Il meridiano. Se la poesia è il corpus testuale del lavorio scrittorio, il poema è il nucleo attorno a cui quel corpus ruota e si equilibra in una figura di coesione, per quanto deflagrata e avviata nello sperdimento, ed è quindi naturale che il poema in quanto perno della poesia si debba ricercare nella poesia stessa, primariamente ed elettivamente rispetto a eventuali scritti teorici o programmatiche dichiarazioni. La poesia s’accorpa al poema e contiene dispiegata in sé la poetica. Ovvero la poetica, emanazione razionale del poema, si coglie nel suo complesso entro la voce stessa della poesia tenuta insieme dal poema e si declina in quei testi fondativi in cui il poeta sviluppa in un meta-dettato il suo atteggiamento intorno e sul suo stesso enunciare. La meta-enunciazione affidata a un testo eletto è la poetica colta nell’atto poetante del suo stesso dichiararsi. Non c’è altro linguaggio critico che possa più fedelmente interpretarla.

Ed è puntuale come leggendo i poeti (dal Dante di “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto” al Montale di “Non chiederci la parola …”), la meta-enunciazione rappresenti una stazione pressoché obbligata nel corpus scrittorio della poesia. Quindi quella ‘stazione’ dovrà essere sondata, perché contiene arrotolato in sé il DNA della poesia, nella cui elica è infilato come fattore integrato alla poesia stessa il progetto identitario del poeta, sia inteso con quello che Seymour Chatman chiama ‘autore implicito’: proiezione interna che evolve il soggetto liberandolo nella pura datità che coordina la voce; sia inteso, secondo l’altra categoria dello stesso Chatman, come ‘autore reale’: mano che materialmente scrive e serbatoio biografico vivente, recettore sensibile che rifornisce della sua verità il nome. Così è anche nell’opera di Sebastiano Aglieco.

II

Scrivo nel lampo che il fiore imprime in me
preceduto dal respiro e dalla calligrafia.
Allora è il vento che mi respira, fratello,
incredulo di un ascolto che a tratti mi governa.
Non c’è più tempo per l’armamentario di
me e della mia vita.

Questa poesia da Giornata, la prima raccolta pienamente accreditata da Aglieco, fissa le biffe indicative del suo dire poetico in quel rimbalzo tra io-soggetto ed io-oggetto che esprime il metodo della scrittura entro il suo compiuto movimento poematico. In quel transitare da soggettività a oggettività la poesia di Aglieco fonda il suo dire in chiave di autenticazione rivelatoria, mentre sarà nei ritorni dall’oggettività del verbo alla diatriba interna di pensiero e ripensamento, analisi e progetto, che restituirà in una cifra minore quanto necessaria la sua coordinata umana, che in questo poeta ‘sotterrato’ e palpitante  sa sorprendentemente pronunciare con gli enigmi anche i nomi propri della biografia. Quella di Aglieco è una tra le poche voci in grado di risolvere senza contrasto le posture di una dizione sapiente ed enigmatica in continuità con i rovelli ragionati della vita quotidiana, immettendo l’arteria ctonia dell’esistenza direttamente nel tessuto geografico e sociale della Storia. Ma questo percorso è già arrotolato e riposto nel paniere intrecciato fra io (scrivo) e me (in me, mi respira, di me etc.)

Scrivo nel lampo – che il fiore imprime in me …

Comprendere la poetica di Aglieco significa cogliere appieno cosa accade nel sobbalzo di quella cesura dell’endecasillabo fra lampo e  che. Il dato più semplice – in realtà cruciale – è il passaggio di testimone predicativo da un soggetto (io) all’altro (il fiore) con la conseguente trasformazione del primo soggetto (io) in oggetto (me). Se (io) scrivo nel lampo che il fiore imprime in (me), allora (io) nell’atto stesso in cui scrivo (ovvero nel lampo in cui scrivo), vado già derogandomi a quel fiore che a sua volta imprime in me (oggetto) il lampo stesso in cui (io) scrivo: si tratta di un vero e proprio cortocircuito. Si tratta dell’innesco rivoluzionante di una miccia che accende la scrittura come atto volitivo (io scrivo – nel lampo) e ne provoca l’incendio, il cui esito è l’incenerimento del soggetto (io), l’apparizione del suo sostituto derogato (il fiore) e la mera sostituzione dell’atto volitivo (io scrivo) con una nuova transitività appoggiata dal servizio reso al soggetto secondo: il fiore che imprime, dove? In me: divenuto, da soggetto (io), supporto di una rinnovata transitività (me): io, che scrivo nel lampo, mi faccio mero supporto della transitività che ho innescato e accolgo il lampo che il fiore (soggetto secondo) imprime in me (supporto al transitivo). Quest’azione è fondativa di una poetica il cui fulcro è l’ammainarsi del soggetto al varcare di quella transitività che autentica di sé il dire poetico: io non scrivo me ma ciò che un soggetto secondo (il fiore) imprime in me (mero supporto): io sono dunque:

preceduto dal respiro e dalla calligrafia

Il soggetto primo, che con la sua azione volitiva apre all’innesco della nuova transitività, va a collocarsi in coda al lampo, in cui agisce, al fiore, a cui porge il supporto, al respiro stesso che lo anima, alla calligrafia che attesta tutto questo. Il soggetto, nell’atto poetico designato da Aglieco, è essenziale (sono in effetti io che scrivo) purché ultimo: preceduto. Illuminante qui è l’etimo di precedere:  dal latino praecedere, prae (avanti) e cedere, che sta per ritirarsi.  Il soggetto è preceduto non solo nel senso corrente per cui respiro e calligrafia gli camminano davanti annunciandolo (prae) ma anche e soprattutto nel senso etimologico, secondo cui respiro e calligrafia all’apparire del soggetto lo hanno  ritirato (prae-ceduto) per dar voce al soggetto secondo.

L’atto di quel ritirare il soggetto al suo affacciarsi designa la figura dell’offerta, apre al dono, alla poesia come dono. Il soggetto (io) che offre-dona appare (nell’atto volitivo essenziale all’innesco della scrittura) e subito (nel lampo) si ritrae proprio per la sublime gratuità della sua offerta, prae-ceduto (ritirato) dal respiro e dalla calligrafia;  altrove, a confermare la totalità dell’esproprio lo stesso Aglieco scrive due spogli versi bellissimi, dove il ritirarsi del soggetto scopre l’essenza del residuale corpo scrittorio come dono abban-donato:

Io non voglio niente,
di tutto questo non voglio niente

Respiro e calligrafia dunque non affermano affatto il soggetto bensì lo ritirano e soltanto:

Allora è il vento che mi respira, fratello,
incredulo di un ascolto che a tratti mi governa.

Ora, imboccata e percorsa la via espropriante della nuova transitività, il soggetto che ha innescato l’evento scrittorio accendendolo (nel lampo) e ritirandosi grazie al  prae-cedere, ha accesso alla  più avventurosa trasformazione predicativa, dove al soggetto secondo (il fiore che imprime) si coordina un soggetto terzo, il vento, che addirittura, come il fiato in uno strumento musicale, ‘respira’ fraternamente il soggetto primo, derogato a una pura e risonante transitività. Il soggetto primo io declinato al me è divenuto la membrana di risonanza della dizione poetica. La sponda su cui rimbalzando si fa udibile il suono stesso della voce poetante. Aglieco insiste con un lucido lirismo su questo tratto determinante. Il soggetto primo – ovvero io con tutto il mio sostrato vitale e biografico – è tanto necessario all’innesco poetico quanto il fiammifero alla lucente corsia della miccia che fila verso la deflagrazione, ma – appunto – io – fiammifero – non coincide con l’esplosione che sovverte e rischiara. Semmai, nella corsa repentina della scintilla che sovverte il mondo rinnovandolo nel nome:

Non c’è più tempo per l’armamentario di
me e della mia vita.

Dove si nota in particolare nel termine armamentario, a chiusura di questa poesia dinamitarda, comparire l’umile sorriso agro di chi ha buttato ogni narciso nel fuoco, per coglierne il nuovo fiorire in pura combustione.

capizzi1982

Capizzi 1982, di Ferdinando Scianna

III

A fronte di una poetica radicata nel soggetto e nello studio molecolare dei suoi anfratti  (come in tanta parte della poesia contemporanea), Aglieco lancia così a fondamento della sua poesia una concettualità che pronuncia da subito l’incendio doloso dell’io, oltre la cui vampa di cenere comparirà il mondo. Ma a motivo e figura di questa scelta il poeta dissemina nella sua opera una coerenza che dimostra il suo aggirarsi entro una precisa determinazione di pensiero, in continuità con l’opzione iniziale neo-transitiva. In Giornata, quindi nella successiva raccolta Dolore della casa e in Nella storia – poema per una terra, si può rintracciare e seguire questa coerenza declinata nella ricchezza matura e compiuta di una poesia che solo per concisione e chiarezza fissiamo qui ai vocaboli di un necessariamente selettivo ‘lemmario minimo di Sebastiano Aglieco’ che andiamo di seguito a suggerire. La prima parola che vogliamo eleggere dall’opera di Aglieco, sia per la sua occorrenza nei testi sia per la sua significatività poematica è la parola Altro con il correlato declinarsi della terza persona Voi che in un allontanamento ulteriore diverrà LoroAltro è il mondo a cui il poeta si rivolge:

Il coro del mondo non ti ascolterà

ed è il quid che anima e riscuote una preoccupazione conoscitiva e partecipativa che sta alla radice del fervore composto ma cocente della poesia di Aglieco:

A voi, poeti, “fratelli”, offro una porta
chiusa

Questa preoccupazione emerge con chiarezza irripetuta in una poesia afflitta di Dolore della casa, dalla sezione Fondazione, precisamente in questi versi:

.. Nessuno vede l’altro, nessuno può restituirci la sua
dignità. Voleva essere nell’altro e invece vide solo la sua
orma.

Se andiamo a correlare questi versi al meta-enunciato Scrivo nel lampo … ci accorgiamo che il rovesciamento di prospettiva è radicale. Là, nel meta-enunciato, la deroga dalla soggettività alla transitività realizza il supermento della posizione auto-centrica dell’io e acconsente alla comparsa del mondo, oltre l’armamentario di me.

Qui invece Nessuno vede l’altro.

E ancora:

Io sono una parte
qualcosa mi dice che mi appartengo solo in parte

Dove le necessità identitarie della condivisione e dell’incontro si saldano a un accredito cosmologico e vitale. Ma se è vero che la grande poesia opera all’interno di una perseguita  costellazione di senso, in essa non sono in gioco contraddizioni o cronologie bensì soltanto motivi e figure che ricorrendo e attraversandosi, come i biodi di un cesto, intessono la coesione del corpo poematico. Dunque al felice realizzarsi del dire poetico in quanto derogato dalla soggettività e così accreditato, si intreccia la ricerca di condivisione e la preoccupata constatazione dell’alterità irraggiungibile, l’agguato che tende al soggetto la trappola del suo calco indistinguibile nell’orma dell’altro. A questa preoccupazione, con la declinazione al Loro si correla il tema inconciliato della ricerca di comunità e dell’invasiva inimicizia del mondo umano:

Il coro del mondo non ti ascolterà

e infine:

Ma occorre imparare che
sono quello che non credono e non perdonano

La preoccupata complanarità di soggetto e nuova transitività viene risolta da Aglieco con il lemma Casa che prima di farsi eponimo nella raccolta Dolore della casa si presenta nella sezione Nella casa fragile di Giornata dove la casa (fragile, leggera, con un’ombra) ammanta nella sua connotazione un topos locativo che ha valenza mentale, memoriale, sensibile, affidata a una movenza d’esilio sullo sfondo di un remoto bagliore nativo di patria-parola, d’isola e ricordo. A completare questa figura che nella casa-nomade enuclea il soggetto e la sua lucente debacle verso l’altro, leggiamo un ulteriore verso-cortocircuito:

Sulla soglia della casa ti perderai

Là dove l’io deve ritrovarsi, è allora che si perde, ed è questo perdersi (finalmente) il suo ri-trovarsi facendosi altro. Ma se il tratto enigmatico-emblematico è in questi luoghi dell’opera di Aglieco dominante, altrove andrà a declinarsi nella parola propria della biografica, dove il lemma cardine è la parola Sicilia corredata da Promessa e collettivamente ricondivisa con Storia.

Non voglio più scrivere poesie

scrive Sebastiano con un altro dei suoi versi nudi. Il ‘non volere scrivere’ emerge nel tratto poematico di questo poeta come un richiamo alla vita che è e deve restare, prima/attorno/oltre la scrittura. Nella poesia di Aglieco guizza a tratti un indeluso appello all’azione. Una chiara fiducia che si sostiene su un irriducibile cognizione dell’intattezza, i cui lemmi sono le parole Bambini e Fragola.

Una fragola rode la morte, solo una fragola

Dalla pagina spoglia, luminosa ma per lo più bianconera, parca di esultanze, della poesia di Aglieco, la parola Fragola giunge all’occhio prima ancora che alla decodifica semantica, e afferma con innocenza visiva che la più semplice, elementare forma di bellezza insiste intatta, tanto che la parola non può tematizzarla in metafore ma si limita  a trasportarla qual è dalla natura al testo: è letteralmente una fragola, non simbolo o metafora, ma semplice e fruttuosa carne di cespuglio nei mattini d’estate, a rodere la morte. Questa fiducia in una improvvisa e ritrovata elementarità della parola (e della vita) sfocia in Aglieco dall’affluente biografico immesso nella sua opera dalla sua attività professionale, di maestro elementare, mestiere fraterno al lavoro del poeta, avendo esso a che fare con l’inizialità della parola, della scrittura e con l’infanzia.  (Si ricorda per inciso che un altro grande siciliano, Gesualdo Bufalino, alla domanda come liberare la Sicilia dalla criminalità rispose che non serviva l’esercito, occorrevano maestri elementari.) E il maestro, il poeta Sebastiano Aglieco sa bene come un’istanza di salvezza possa giungere solo da una fragola letterale, da quell’elementare isola di salvezza enucleata dal perimetro di un’aula, un luogo esente in cui la mente e i corpi sono appena disposti a ricevere:

Ma i bambini, i bambini in un aula dove
un mondo è possibile

e si noti che il perimetro dell’aula in Aglieco dilata la zona dell’infanzia e sfiorando un fanciullino pascoliano assimilato a una più fascinosa deità di gioventù pagana, la consegna a beneficio della vita intera:

I bambini che siamo stati ritornano nell’ora tarda

L’azione si correla così all’intattezza a cui non smette di alludere la Promessa istituendo l’oscillazione tra patria ed espatrio, natività ed esilio, quando assumeranno i nomi propri della Sicilia, del Nord, e di nuovo del fazzoletto di sangue della nascita, di quel:

angolo di mondo
che era tutto il mondo
il cui tratto vagante e portatile fluttua efficacemente attorno e fin dentro al lemma Casa, ed il cui sostrato ancorante sarà il:

… reliquiario di Sicilia
dove niente cambia

E qui si ritrova l’elemento connettivo misterioso, quasi animalesco, che fa di questo poeta disancorato e a suo modo ramingo, abitante provvisorio di litorali siculi quanto di nebbie e periferie lombarde, allo stesso tempo un intellettuale solidamente radicato e, se pur libero e affacciato a un mondo anche topograficamente vasto, rimasto pervaso dai dissidi della sua terra, irradiato interiormente dalla sua luminosità lata e insostenibile. Da questa terra-simbolo è necessario:

Partire  – ma sarà:  col malfidato nel cuore

dato che questo partire, abbandono d’ogni madre, si rivela inquinato d’amarezza e non bastevole, alla conoscenza né all’esistenza, e perciò richiede alla poesia di volgersi e volgersi ancora, gli occhi stretti a fessura verso una luce bassa, a una visione cara e funesta: il supplizio di questo autore. In questi luoghi poetici Aglieco sa rinnovare solo tradendolo l’antico patto siglato sulle spiagge native ne L’ultimo capodanno, in Giornata:

Dimentica quella promessa, quella promessa
nell’unico ricordo. E saremo in pace.

Il patto a che la vita risolva tutte le promesse rompendole, nel paradosso dell’abbandono, riuscito e impossibile, affiliato a una radice mozzata e irrecidibile:

… il tempo è
costruito sulla luce, sulle ferite della gente, non
muta niente.

A questo transito costitutivo e pendolare (tra io e me, patria ed esilio, fedeltà e superamento, liberazione e perdita, condivisione e inimicizia, nome proprio e nome Nessuno, nascita e Storia), la poesia fornisce il tratto congiunturale, cicatriziale, essendo la voce poetica infine l’unico sedimento del tormentato accadere, il segmento che addentella la perdita e il ritrovato nome. Nella poesia, grazie al cortocircuito lirico, le frontalità oppositive si ribaltano, si annullano, e l’abbaglio lancinante di una Luce oriunda si smorza in un corollario di lacrime asciutte, iridi che lasciano  intravedere  via via nient’altro che una riga letterale, un ‘tracciato’ aspro e fecondo come un solco, aperto all’inversione del dolore che trasforma la smorfia d’una maschera d’agrume illuminandola di una scabra Pace:

… Tu ferivi la luce, un
tempo, con righe contratte sul viso
cancelleremo queste espressioni, vedrai
ricominceremo da un semplice
tracciato, ricordando.

____________________________________

*Paolo Donini è nato nel 1962 a Pavullo (Modena) dove vive. Ha pubblicato poesie e saggi sulle riviste “La Mosca di Milano”, “Anterem”, “La Clessidra”, “Vernice”, “Tracce”. Nel 2005 ha pubblicato la raccolta Incipitaria (Genesi Editrice, Torino), e L’ablazione, La Vita Felice 2010.


Riflessioni sulla riproducibilità delle opere d’arte in Cina

$
0
0
Scuola d'arte Xiaozhou

Scuola d’arte Xiaozhou

di Francesco Terzago*

Nothing immobile can escape the hungry teeth of the ages[1].

I cinesi sanno solo copiare. Abbiamo sentito pronunciare queste parole almeno una volta in vita nostra e, non senza vergogna, almeno una volta ci siamo ritrovati a condividerle. È una delle innumerevoli semplificazioni che fa parte del libro degli stereotipi. Italiani: pasta, mafia, mandolino. Giapponesi: samurai, sushi e suicidi. Francesi: Champagne [2], Roquefort, ed erre moscia… Esistono saggi sulla mafia, sui samurai e sono sicuro anche sul Roquefort. Queste sono tutte cose che, in un qualche dove, si sono trattate con la massima serietà; tutte cose che, se ci si riflette con calma, hanno – nel nostro immaginario – la loro collocazione. Fanno parte della cultura europea e occidentale e sono stati i luoghi o i tratti distintivi di alcune delle nostre narrazioni. Sono usi, prodotti, fenomeni o espressioni sociali distinguibili, presenti, identificabili, tangibili. In termini connotativi, mafia, samurai, Champagne ci riconducono a film, fotografie, fatti di cronaca, romanzi, esperienze individuali o collettive, hanno caratterizzato la nostra vita dal momento del nostro primo vagito a questo giorno. Una cosa della quale poco si parla in questi termini è, invece, l’importanza culturale per i cinesi, soprattutto in ambito artistico, della riproduzione di stili e opere. A eccezion fatta per i sinologi è difficile che qualcuno ragioni attorno a questa materia nei termini di un luogo culturale con delle ragioni profonde che affondano le loro radici in un passato remoto, nel confucianesimo. Per noi occidentali, in genere, si tratta di mistero, di assurdo [3]. E proviamo repulsione nei confronti di qualcosa che non abbiamo gli strumenti per comprendere, la repulsione che generalmente spetta alle cose aliene – eppure alcune delle ragioni di questa predisposizione alla riproduzione, hanno a che fare con la dimensione spirituale di questa antichissima civiltà, la riproduzione è una necessità, e gli oggetti riprodotti a paragone dell’Età dell’Oro sono dei varchi attraverso i quali è possibile lambire con lo sguardo un mondo paragone. Potremmo rintracciarle nelle seguenti parole alcuni indizi:

Chinese architecture is essentially made of perishable and fragile materials; it embodies a sort of “in-built obsolescence”; it decays rapidly and required frequent rebuilding. From these practical observations, he drew a philosophical conclusion: the Chinese actually transferred the problem – eternity should not inhabit the building, it should inhabit the builder. The transient nature of the construction is like an offering to the voracity of time; for the price of such sacrifices, the constructors ensure the everlastingness of their spiritual designs [4].

Ho trascorso gli ultimi due anni nel Sud della Repubblica Popolare Cinese cercando di comprendere i confini di un fenomeno espressivo originatosi a New York a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, consacrato in Europa con le opere di Keith Haring [5] e Banksy e che, soltanto negli ultimi dieci anni, ha preso piede anche qui – sto parlando della Street-art. È per questo motivo che l’estate scorsa ho letto un interessante articolo su uno dei blog dell’Università di Sydney, dove, a un certo punto, un writer americano che vive e lavora in Cina diceva: «Harbin, somewhere in the North who was literally copying people’s pieces and putting them up on walls! None of it was his original work. Of course he had the skill to do it, but none of the designs were his. Nothing. To even think that would be acceptable for a second kind of says something about the culture here» [6]. La cosa che più mi faceva riflettere era l’origine di questo stupore. È davvero da ritenersi universalmente sbagliato decidere di dedicarsi alla riproduzione? Riproduzione/riproducibilità non possono essere anche loro dei temi culturali? Del resto esisteva qualcosa di simile anche nel mondo occidentale, prima dell’avvento del modernismo [7]. Le intuizioni più interessanti riguardanti questo interrogativo le ho avute grazie ai miei studenti dell’Accademia di Belle Arti di Guangzhou, è grazie all’amicizia che ho intessuto con alcuni di loro che sono potuto giungere a elaborare certe ipotesi. La premessa necessaria è che mi avvicino a questa materia non come sinologo ma come persona che ha una formazione nelle Lettere. Detto ciò, è stato in particolare uno di questi studenti, un pittore che anche in Italia definiremmo talentuoso, specializzato nella pittura a olio, a farmi comprendere, più di ogni altro, alcuni aspetti interessanti della concezione dell’arte per i cinesi. Si distingueva, Luciano – il nome italiano che questo ragazzo si è attribuito – per qualcosa di singolare: nell’atto di ritrarre qualcuno a carboncino il suo lavoro artistico assumeva dei tratti completamente diversi da quelli che sarebbe poi stati suoi nel momento in cui avrebbe utilizzato i colori a olio. È una cosa ovvia e di cui si è ampiamente parlato in passato, intendo dire la differenza che intercorre tra le bozze a matita, a carboncino, di un’opera e il suo completamento [8], la sua colorazione – molti trovano più emozionanti gli schizzi di Leonardo rispetto alla Vergine delle Rocce, e io sono tra questi; Paesaggio con Fiume, per certi versi, attira di più il mio interesse, è per me fonte di maggiore meraviglia – è uno di quei luoghi della pittura dov’è possibile cogliere la lingua dello spirito, dov’è possibile cogliere la dinamicità dei processi creativi dell’artista. Possiamo immaginarcela anche oggi, a secoli di distanza, la mano che ha impresso quei segni, capace di forza e di delicatezza allo stesso tempo, di rabbia, di passione, in sostanza – di umanità.

Ma per Luciano le differenze tra bozza e opera finita sono iperboliche, come se fossero due artisti diversi a vivere nello stesso corpo. Quando gli chiesi il perché di tutto questo lui mi rispose che dipendeva dagli insegnamenti che gli erano stati impartiti: “vedi”, gli diceva il suo maestro “quello che è importante è il rigore con il quale dipingi, il risultato che ottieni deve essere accurato, uguale al mondo” e ancora: “prendi dai grandi Maestri, dovrai dipingere nello stesso modo dei grandi Maestri” ma il modello di riferimento dei grandi maestri era qualcosa di immanete, era un modello mitico i cui tratti, come abbiamo già visto affondano le loro radici nella spiritualità confuciana. Mentre in occidente lo scopo dell’artista è propriamente quello di distinguersi, quello di affermare il suo esistere al di là di ogni altra cosa, di percorrere sempre il sentiero meno battuto, di ergersi al di sopra della massa [9] l’impressione che si avrà in Cina è che le cose siano ribaltate – ovvero, quando l’artista si accosta al retaggio, alla memoria, alla tradizione non vive la nostra stessa proverbiale sensazione di conflitto, nostalgia e vergogna [10], egli non è chiamato a reinterpretare [11]– lo scopo dell’artista cinese, in questo caso specifico, diventa quello di preservare [12] e lo strumento che adotta a questo scopo è la riproduzione [13], ed è per questo motivo che, secondo la mia personale opinione, possiamo parlare in questo contesto di riproducibilità come tema culturale. Inoltre il suo mondo – di Luciano –, nella seconda decade del secondo millennio, non è si è ancora compiuto, spenglerianamente parlando, come se la Cina sia ancora oggi capace di una kultur. È, semmai, un amanuense, non già di un codice miniato ma di un’immagine. Così le tecniche pittoriche che egli adotterà allo scopo di riprodurre un’opera sono intrinsecamente legate al risultato stesso che si dovrà ottenere, ovvero: le tecniche pittoriche saranno la grammatica della sua lingua, una lingua nella quale, in questo preciso frangente, non c’è, in termini normativi, spazio per la parole, per la creatività linguistica (anche se questa, inevitabilmente, si determinerà – anche nella testualità più sorvegliata). Solo riproducendo un’opera per come essa ci appare (e facendo propri gli stili con cui la stessa è stata realizzata), sarà raggiunto l’obiettivo dell’artista: acquisire i segreti dell’opera stessa, possederla, lambire un mondo al di là, un mondo ideale, un mondo paragone. L’artista cinese vive dunque con sofferenza diversa, rispetto al suo omologo occidentale, i processi di semiosi (Pierce) che riguardano la sua stessa opera. Del resto, come scrive Pierre Ryckmans:

[…] it is true that Confucius considered Antiquity as the repository of all human values. Therefore, according to him, the Sage’s mission was not to create anything anew, but merely to transmit the heritage of the Ancients. In actual fact, such a program was far less conservative than might first appear [...] the Antiquity to which he referred was a lost Antiquity, which the Sage had to seek and practically to reinvent. Its actual contents were thus highly fluid and not susceptible to objective definition or circumscription by a specific historical tradition. Similarly, in later periods, nearly all the great Confucian reformers in Chinese history use to invoke the authority of the Ancients to condemn modern practices – but what was meant by these semantic conventions practically amounted to the exact opposite: their so-called “Antiquity” referred to a mythical Golden Age – actually their utopian vision of the future – whereas the so-called “modern practices” referred to the inheritance of the recent past, i.e. in fact the real past [14].

Quando l’artista occidentale è interprete di quanto egli stesso ha emesso, ovvero del quadro che ha dipinto, si duole di non essere riuscito a rappresentare la realtà per come la sua mente, la sua soltanto, era riuscita a plasmarla. Ovvero, di non essere riuscito a imprimere nella tela i colori del suo spirito. E, parafrasando Chomsky[15], di avere avuto l’impressione di poter andare al di là dei confini biologici dell’essere umano, questo recinto in cui siamo reclusi e dal quale non potremmo mai liberarci.

Scuola d'arte Xiaozhou

Scuola d’arte Xiaozhou

L’artista cinese, viceversa, professa, in apparenza, la necessità di aderire al mondo delle cose, a ciò di cui è stato testimone, alla grandezza del Maestro, della natura, della tecnica pittorica e del retaggio che la stessa incarna – e in tutto questo, saremmo portati a pensare, che non vi è la necessità di quello sforzo trascendentale che nella tradizione occidentale incatena l’arte al mondo della spiritualità, la verità, io penso, è semplicemente che siamo di fronte a una spiritualità differente e lontana da quelli che sono stati i nostri paradigmi almeno fino alla metà del Novecento [16]. È umiltà, quello di cui sto parlando, il ridurre se stessi a strumento, al dolersi di ogni traccia del sé che la tela, inevitabilmente, conserverà. Allo stesso tempo è questo processo, fatalmente imperfetto che, protraendosi nel tempo, fa sì che emerga in alcuni casi una nuova discorsività (Foucault), l’evoluzione sarà meno traumatica ma è un fatto al quale non è possibile trovare scampo. L’artista cinese e la sua opera saranno l’ultima gemma di quell’albero/essere-vivente di cui scrive T. S. Eliot: «No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists»[17]. Ed è, proprio in questo modo, che l’artista cinese sarà sollevato dalla vergogna prometeica [18], perché solo lui, solo l’uomo, è capace di per sé di riprodurre – e non la macchina, il tratto del maestro – nell’arte solo l’essere umano è munito delle abilità necessarie a riprodurre ciò che un altro essere umano è stato capace di creare e di accedere a un dimensione ideale. Non esiste infatti, e non esisterà ancora per lungo tempo, una macchina capace di riprodurre I cipressi di Van Gogh nella loro specifica condizione materica, quanto invece esiste da parecchio tempo una vera e propria tradizione, per altro anche occidentale, del falso. O della fu, copia di bottega. Nella pittura tradizionale cinese le novità, anche oggi, fanno la loro comparsa lentamente e sono indagabili per sottrazione – infatti cioè che non apparterrà al Maestro sarà dell’allievo. Luciano nella sua vita avrà riprodotto molte opere di artisti ben più celebri di lui, i suoi maestri gli avranno impartito innumerevoli dettami, le sue competenze tecniche si saranno affinate imitando precisi modelli e l’Età dell’Oro sarà qualcosa di implicitamente presente in ogni momento della sua esistenza. Tuttavia, non è possibile che il combinarsi di tutti questi fattori conduca, inesorabilmente, al risultato che lui agogna. Quando Luciano, nel suo studio a Xiaozhou ritrarrà una modella viva, nella sua memoria saranno le leggi, gli insegnamenti, ma una volta terminato il suo lavoro, quando avrà fatto un passo indietro per osservarlo nel suo insieme, amaro forse sarà per lui accorgersi di un qualcosa in più, di un residuo. Luciano avrà cercato di fare come loro e non come se stesso. Avrà cercato versare il suo sé in qualcosa di più vasto, cellula di un organismo immenso e proiettato in epoca tra loro molto distanti. Gli avi sono qui, tra noi. Eppure ci sarà lì, nella tela, celebrata la sua unicità – il difetto e i pregi dell’uomo che si è fatto strumento.

Note

[1] Segalen V., Stèles, Crès, 1922.
[2] Pensiamo alle parole di Roland Barthes in Miti d’oggi.
[3] Riferendomi al significato propriamente etimologico di questo termine, ovvero che (ci) suona male
[4] Pierre Ryckmans, The Chinese atitude towards the past, Papers on Far Eastern History, Australian National University. Dept. of Far Eastern History.1989. Consultabile online: http://www.chinaheritagequarterly.org/articles.php?searchterm=014_chineseAttitude.inc&issue=014
[5] E anche in Italia, nel 1989, a Pisa con il murales della Chiesa di Sant’Antonio – Gruen J., Keith Haring, la biografia; Baldini Castoldi Dalai editore, 2007.
[6] http://www.artspacechina.com.au/?p=1314 consultato per l’ultima volta in data: 15/02/2013
[7] Ovvero quella stagione di rinnovamento dell’arte e del pensiero che avvinse l’Europa tra il XIX e il XX Secolo.
[8] Anche se questo forse non sarebbe il termine più appropriato, non è forse già impressa l’energia di una grande opera nei suoi disegni preparatori? Non è forse maggiore la commozione che ci avvince nell’osservare l’incompiuto rispetto al compiuto? Non proviamo forse dolore quando ci poniamo difronte all’opera compiuta dove tutto è svelato, dove la nostra naturale tendenza alla produzione infinita di possibilità, di senso, è arrestata.
[9] E sarà poi il critico d’arte a dover svelare le parentele, a rendere chiare quelle interconnessioni tra il soggetto del suo studio, un autore, e altri autori, e una scuola, e una esperienza collettiva, e una stagione etc.
[10] Dove la vergogna è per Günter Anders un “atto riflessivo […] che fallisce”, “l’atto che non si risolve mai […] uno stato di perturbamento [...]” – Anders G., L’uomo è antiquato. Bollati Boringhieri, 2003.
[11] Pensiamo all’opera di Baj «Funeralle dell’anarchico Pienlli» del 1972.
[12] Uno stilema che non ha mai conosciuto rotture traumatiche, almeno, non paragonabili al nostro Modernismo.
[13] Ben lontana dalla museificazione – ovvero da tutta quella serie di procedimenti che cercano di ritardare l’inevitabile deperimento di un’opera d’arte e, di conseguenza, di evitare che la sua aura si disperda, Se la Gioconda dovesse essere distrutta in un incendio sarebbe impensabile farne produrre una copia che la sostituisca, perché quella copia non susciterà in noi la stessa sensazione mistico-religiosa. Non potrà esistere mai, nella nostra visione, una Gioconda al di fuori della Gioconda: perché la Gioconda è la testimonianza propria di un’autorialità, opera e artefice non possono, secondo la nostra visione, subire una cesura, essere separati l’uno dall’altra – se ciò dovesse avvenire si avrebbe la dispersione dell’aura. Dove l’ovvio riferimento è al saggio, Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilita tecnica, traduzione di Enrico Filippini, introduzione di Cesare Cases, nota di Paolo Pullega,  Einaudi, 2000.
[14] Pierre Ryckmans, The Chinese atitude towards the past, Papers on Far Eastern History, Australian National University. Dept. of Far Eastern History.1989. Consultabile online: http://www.chinaheritagequarterly.org/articles.php?searchterm=014_chineseAttitude.inc&issue=014
[15] Chomsky N., Intervista su linguaggio e ideologia, a cura di Mitsou Ronat, Laterza, 1977.
[16] Fino a quel momento in cui il Sapere ha maturato un cambiamento la sua funzione nella nostra civiltà, slegandosi dalla bildung, accedendo a un orizzonte dove esso risponde alla misurabilità della società capitalista.  Jean-Francois Lyotard, La condizione postmoderna. Traduzione di Carlo Formenti, Feltrinelli, 2002
[17] Eliot T. S., The sacred wood; essays on poetry and criticism, Alfred A. Knopf, 1921.
[18]   Anders G., L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 2003.

_________________________________

OLYMPUS DIGITAL CAMERA*Francesco Terzago è nato a Verbania nel 1986, ha una laurea triennale in Lettere conseguita a Padova con una tesi in Estetica del mondo orientale con il Prof. Giangiorgio Pasqualotto, è Laureando in Linguistica Generale presso lo stesso ateneo. Collabora con: AbsolutePoetry, Poesia2.0, UltraNovecento e Scrittori Precari. Ha pubblicato poesie su: Italian Poetry Review, Le Voci della Luna e ALI, è presente nell’antologia Generazione Entrante di Ladolfi editore. Alcuni suoi testi sono presenti sui siti web: Smemoranda, Poetarum Silva, La Ginestra, Nazione Indiana e Critica Impura. Ha trascorso gli ultimi due anni in Cina beneficiando di un progetto di scambio culturale e ricerca dell’Università degli Studi di Padova, in quel paese sta curando delle iniziative volte alla promozione della Lingua e della Cultura Italiana. Ha insegnato italiano presso l’Accademia di Belle Arti di Guangzhou ed è stato collaboratore esterno del Guangdong Museum of Art.
http://vermena.blogspot.com/




Notizie samghiane (Rossini, Roger Chartier, Manet a Londra)

$
0
0

a cura della Redazione
Rossini_oneandonlyUn anniversario mancato

Come spesso succede, a seconda della natura bisestile dell’anno, il 29 febbraio compare e scompare dal calendario; e con esso il ricordo della nascita di Gioachino Rossini, che si dovrebbe celebrare oggi. Forse la Vita di Rossini di Stendhal rimane ancora un’introduzione essenziale al compositore (esiste un’edizione italiana per EDT del 1992, curata da Bongiovanni Bertini), soprattutto per via del fatto che Stendhal riconosce la forza prorompente del ‘rumore’ rossiniano: un segnale che egli inscrive nel corpo sociale come una febbre bizzarra e malsana, paragonabile al colera e imputabile all’incremento di calore animale provocato dalle prime, grandi concentrazioni di pubblico in teatro. Il Rossini di Stendhal, e dei suoi contemporanei, non era solamente un genio della parola in musica ma anche uno sperimentatore di una fisiologia sociale, la cui temperatura cominciava a venir studiata dai riformatori francesi. Quando pensiamo a Rossini e al suo colpo di cannone, bisogna anche ricordarsi dell’effetto di sbigottimento totale con il quale gli spettatori (per esempio, dopo la premiere della Gazza Ladra nel 1817) tornavano a casa tramortiti, sentendosi, come si legge nelle testimonianze e nelle caricature dell’epoca, ridotti al livello di una molla meccanica. s.g.

________________________________________________________________

AVT_Roger-Chartier_6588Roger Chartier a Filadelfia

Pochi studiosi hanno la grazia e il rigore di Roger Chartier nell’attraversare confini geografici e disciplinari, e nell’ostinato tentativo di praticare una filologia romanza che non sarebbe dispiaciuta ad Auerbach o a Braudel (a cui, infatti, Chartier ritorna, sottolineando come certe condizioni economiche di povertà oggettiva abbiano creato un terreno di coltura privilegiato per la nascita del genere picaresco e dei capolavori di Cervantes). Venerdì 25 febbraio, a Filadelfia, Chartier ha parlato della Relación de la Destruycion de las Indias, un testo spagnolo che viaggiò in traduzione da Siviglia ad Anversa, fino a Londra, dando anche una dimostrazione, ludica e teatrale fino a un certo punto, del suo attaccamento personale alla metodologia francese del paratesto e dei suoi segreti editoriali. s.g.

________________________________________________________________

manet-luncheon-1868-grangerManet a Londra

La Royal Academy di Londra ha allestito un’importante mostra su Manet (Manet: Portraying Life, fino al 15 aprile), che si giova di diversi prestiti illustri (anche dalla National Gallery e dal MET di New York) e si concentra sulle commissioni private. La chiave è innovativa, e permette di passare in rassegna il ritratto paradossale del politico Henri Rochefort, Emile Zola del 1868 e molti altri. Manet aveva forse il sogno di realizzare uno spaccato intellettuale simile a quello della corte di Madrid dipinta da Velázquez, e spesso si sono paragonati i metodi dei due pittori; mai come in quest’occasione è possibile verificare quest’ipotesi, partendo, per esempio, dall’enorme Colazione nell’atelier (qui di fianco) dove blocchi di nero producono un effetto inverso di illuminazione al centro del quadro. s.g.


Filippo Tommaso Marinetti, l’aeropoeta di Venezia

$
0
0


di Stefano Bragato

 9788804612025gFilippo Tommaso Marinetti, Venezianella e Studentaccio, a cura di Patrizio Ceccagnoli e Paolo Valesio, Milano, Mondadori, 2013.

Credo che i romanzi postumi siano sempre un po’ una sfida. Avere sotto gli occhi un manoscritto orfano, pulito o pasticciato che sia, insinua sempre l’ineluttabilità di una scelta. Che fare? Liberarlo dagli scaffali del suo archivio, dandogli vita in un tempo che, però, non è il suo? E come guardarlo, maneggiarlo, adattarlo in assenza del suo creatore? Complicato decidere se la “morte dell’autore” sia davvero anche un fatto letterario, oltre che storico. Intenzionalità, ultima volontà, legittimità: i soliti incubi notturni del filologo.

Venezianella e Studentaccio nasce dal ritrovamento in un archivio privato di un manoscritto inedito, del quale si conoscevano già due copie dattiloscritte conservate alla Beinecke Library di Yale. Fu scritto e dettato da Marinetti nell’ultimo anno della sua vita, tra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944 a Venezia, dov’era giunto con la famiglia da Roma e che lascerà poi solo per stabilirsi sulle rive del lago di Como, a Bellagio. In esso, la storia di un giovane (si legga futurista) studente universitario di architettura, appena tornato dalla guerra in Africa e impegnato in una duplice rincorsa: la conquista della bella crocerossina Venezianella, entità sfuggente e introvabile, sorta di nuova Venere futurista nata “da un tornio di schiume marine”, e l’impresa architettonica della costruzione, sulla Riva degli Schiavoni, di una “Nuova Venezia”, monumentale installazione artistica in vetro. Donna e città: due percorsi affiancati ma per nulla paralleli, che si fondono nella vera protagonista del romanzo, Venezia stessa, inafferrabile come la sua spiritualizzata interprete allegorica Venezianella (modello, oltretutto, dell’antropomorfico progetto architettonico di Studentaccio). In una città adagiata su acque più o meno torbide, la riuscita di Studentaccio non può essere minacciata, convenientemente, che da un’inquietante armata di pantegane.

Ora, dopo circa settant’anni, questo manoscritto lascia le mura domestiche ed esce in pubblico indossando le vesti di un romanzo, pubblicato da Mondadori e curato da Patrizio Ceccagnoli e Paolo Valesio. Chissà che cosa ne penserebbe Marinetti, uno che scriveva «i più anziani tra noi hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compiere l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. – Noi lo desideriamo!». Ma ci si sente di riconoscere che la sfida della posterità, questo romanzo, la vince. Anche gli scritti postumi, sebbene nati già vecchi, possono essere novità oggi. A distanza di circa due decenni da altri due romanzi tardivi, L’aeropoema di Gesù e Originalità russa di masse distanze radiocuori, Venezianella e Studentaccio pare davvero avere il pregio di inaugurare quella nuova ondata critica nella lettura di Marinetti la cui necessità è spesso stata invocata negli ultimi anni dagli stessi curatori del volume. Marinetti è stato sempre considerato e letto essenzialmente come fondatore e agitatore del Futurismo, tanto che i due termini (anche a causa dello zampino di Marinetti stesso) sono spesso oggetto di confusione sinonimica. Questo “aeropoema” rimette invece al centro della scena lo scrittore Filippo Tommaso Marinetti: un artista, un narratore, un uomo di lettere, soprattutto un poeta di talento. Rileggere e riscoprire il Marinetti scrittore: sotto quest’ottica, Venezianella e Studentaccio è davvero, come si rileva nell’Introduzione al volume, uno dei pochi romanzi veramente sperimentali nella moderna narrativa italiana. A partire dal linguaggio, genuinamente “aeropoetico”: abolizione della punteggiatura, sintassi creativa, neologismi, concentrazioni sintetiche di materiale verbale (si veda ad es. l’incipit del capitolo Alla ricerca della dolce simultaneità, dove l’estetica barocca è sintetizzata nell’espressione “lo scirocco consiglia alle onde che Bernini arrotonda”), il tutto inquadrato in una narrazione che procede per segmenti giustapposti, legati solo dal filo dell’analogia e da una costante, quasi onirica tensione verso il trascendente – altro vero elemento sperimentale del romanzo, come avverte Valesio, quasi punto d’arrivo della ricerca poetica di Marinetti di questi anni. Un volume affascinante nella sua complessità, arricchito dagli scritti dei due attenti curatori e dalle preziosissime note, bussola utilissima per muoversi all’interno del frenetico magma testuale.

Un Marinetti dunque ancora in prima linea. Mai seduto (nonostante l’età, la salute precaria, l’appena conclusa esperienza sul fronte russo), alla continua ricerca di nuove forme espressive, come il suo protagonista Studentaccio, e come il giovane intellettuale che anni prima dirigeva da via Senato la rivista “Poesia”. Un Marinetti non da “gettare nel cestino, come un manoscritto inutile”; e che scrive di una città, Venezia, da lui sempre riguardata come roccaforte del passato (“fradicia di romanticismo”, si leggeva nel Discorso futurista di Marinetti ai Veneziani). La sfida di Venezianella e Studentaccio, romanzo postumo, è quella della riscoperta di Marinetti scrittore.

______________________________

IMG_0202Stefano Bragato ha studiato a Milano e a Pavia, ed è ora dottorando in Letteratura Italiana all’Università di Reading. Tra i suoi interessi, i laboratori di scrittura di Filippo Tommaso Marinetti (su cui sta lavorando per la sua tesi) e di Gabriele d’Annunzio, sui cui taccuini è un suo recente contributo uscito in «Strumenti critici» (Maggio 2012). È cofondatore del forum di Italianistica ReadingItaly (readingitaly.wordpress.com).


Congetturare su un testo assente: il caso dell’ “Orazione in laude delle cortigiane” di Antonio Brocardo

$
0
0
Editio princeps delle rime di Antonio Brocardo. Venezia, 1538.

Editio princeps delle rime di Antonio Brocardo. Venezia, 1538.

di Antonello Fabio Caterino*

La bibliografia – minima – che ho indicato in nota ha una particolarità: ogni testo citato è disponibile online. Chi scrive spera che il lettore possa seguire l’evolversi del discorso, cliccando man mano sui link (abbreviati e normalizzati tramite sistema Tinyurl), aprendo nuove schede, in modo che la lettura di ciò che è nuovo possa essere quasi sinottica alle fonti antiche digitalizzate. In questo modo un browser diventa una sorta di “ruota dei libri” (simile all’idea descritta da Agostino Ramelli ne Le diverse et artificiose machine), divenendo degno erede di una nobile tradizione.

Antonio Brocardo visse nella prima metà del XVI secolo, morendo prematuramente nel 1531, all’età di circa trent’anni. La sua fu una vita breve ma intensa[1]: partecipò al dibattito retorico di quegli anni (assumendo posizioni assai critiche nei confronti della retorica trecentesca), intrattenne rapporti con i grandi eruditi del tempo, entrò in forte polemica con Aretino e non risparmiò qualche amarezza all’arbiter vulgarium elegantiarum Bembo, ispirò Bernardo Tasso, suo grande amico, ad abbracciare nuove sensibilità classiciste, amò la cortigiana Marietta Mirtilla (alla quale scrisse tre epistole); si dedicò alla stesura di testi in furbesco e di un manuale per la composizione nella stessa lingua zerga[2], fu autore di sonetti, madrigali, strambotti, capitoli ed altri componimenti in volgare, ben testimoniati dalla tradizione a stampa e manoscritta; scrisse probabilmente un sorta di vocabolario volgare, fu autore di molte glosse di commento all’opera di Petrarca, da allievo di Gabriele Trifone. Persino la sua morte fu oggetto di controversie: Pietro Aretino si vantò di averlo ucciso con versi particolarmente mordaci, scritti perchè il giovane poeta avrebbe provocatoriamente mancato di riconoscere l’autorità del Bembo[3]. Brocardo purtroppo morì prima di poter mettere ordine alle sue rime, prima, probabilmente, di poter realizzare – e dare senso –  in toto a ciò che aveva in mente e dal punto di vista retorico e poetico in genere. Bisogna dunque sfruttare al massimo le testimonianze indirette, specialmente contemporanee. Brocardo è spesso ricordato nei Dialoghi di Sperone Speroni[4], teorico ed erudito tra i più raffinati del Cinquecento.

I dialoghi di Sperone Speroni.

I dialoghi di Sperone Speroni.

All’interno del Dialogo d’amore di Sperone Speroni si fa riferimento ad una certa Orazione in laude delle cortigiane, che Brocardo avrebbe scritto e di cui, però, non è rimasta traccia alcuna: «I dì passati ho veduta una orazion del Brocardo fatta in laude delle cortigiane». Ed è un vero peccato, perchè leggere la sua prosa avrebbe potuto darci non poche delucidazioni concrete sul suo modo di intendere la retorica (anche se possediamo le sue lettere, in un’orazione è molto più chiara la tèkne), esplicitato sempre dallo Speroni nel Dialogo della retorica, in cui Brocardo è decisamente protagonista (si pensi che un pensiero espresso da Brocardo sull’uso dei termini stranieri è addirittura citato in una riflessione di Leopardi[5]).
Sorge spontanea una domanda: di fronte ad un caso simile come dovrebbe comportarsi lo studioso? Di fronte ad un quadro biografico così evanescente, e per giunta incompleto, data la breve vita del poeta e la difficoltà di reperire informazioni oggettive (chi sostiene posizioni forti solitamente è ricordato come eroe o sciagurato, e così avvenne per il Brocardo), è possibile limitarsi ad accennare alla perdita, citando magari il titolo dell’opera, senza neppure chiedersi in che modo si sarebbe articolata con le altre produzioni brocardiane[6], in seno al suo modus operandi letterario? La filologia riscostruisce il testo, ed in questo caso il testo è completamente assente. Eppure il dialogo speroniano ci tramanda il soggetto di tale orazione:

Fra l’altre cose, poiché egli ha mostro esser proprio alla donna il viver di vita cortigiana e chiunque vive altramente violar la natura, che a questo fine la generò, egli prova in qual modo li costumi cortigianeschi (se quelli bene istimiamo) son via e scala alla cognizione della natura e al cielo; che così, come la cortigiana per diverse cagioni suole amar molti e diversi, questo perchè egli l’ama senz’altro – quello perchè egli è ricco e gentile, tale per esser bello, e tale ancora perchè egli è pieno di ogni virtù – ed a ciascun di costoro a luogo e tempo, secondo il grado e condizione, va compartendo i favori, sguardi, risa e parole, e tutto quello che per diletto del vulgo fu a lei dato dalla natura nel generarla, dando ella con bon giudizio il buon del core ad uno solo, e compiacendosi e trasformandosi in colui solo. Così il cielo naturalmente a diverse cose fa di sé a qual più, ed a qual meno, secondo che alla loro specie e mestieri, alle quai cose quantunque siano comuni questi elementi, ed altrettanto a proporzione ne godano gli augelli, i pesci, e gli altri animali,quanto noi uomini ne godiamo; nulla di meno fra tutti loro dal creator d’ogni cosa l’uomo solo fu eletto, nel quale imprimendo un’immagine di divinità, egli a sé stesso oltre ad ognaltro l’assimigliasse.

L’impostazione dell’opera lascia pensare ad un artificio retorico, ad una pura esercitazione intellettuale, ed è ciò che viene replicato proprio poco dopo all’interno dello stesso dialogo:

Ma il Brocardo per l’amore, che egli portava ad alcuna tale, o per meglio mostrare il fior del suo ingegno, non per giustizia tolse a favorir causa sì disonesta.

Eppure bisogna tener presente che, all’interno di un’altra opera speroniana – il Dialogo della retorica, –  Brocardo affermava:

Certo questa è colpa dei padri toscani, li quali non curando le cose gravi che che alle dottrine pertengono, solamente delle amorose con novellette e con rime si dilettatono di parlare.

Dunque, per quanto l’opera potesse essere stravagante e provocatoria, in linea di coerenza con quanto Brocardo sostiene all’interno degli altri dialoghi speroniani, le argomentazioni addotte sarebbero dovute essere solide e ben ordinate, con fare sicuro e grave e scelte lessicali consone, staccandosi dal modus operandi amoroso ortodosso per il tempo. E da ciò che si evince dal Dialogo d’amore questa ipotesi diviene sempre più veritiera: Brocardo assume una posizione e la difende, calandola via via nelle varie situazioni (possiamo supporre, con un ricco ventaglio di esempi e citazioni). Ed anche se il testo fosse stato un puro esercizio intellettuale, stando al soggetto il metodo utilizzato sembra comunque compatibile con i criteri oratori. La vicinanza al mondo delle cortigiane e l’amore per Mirtilla, la conoscenza e l’uso del furbesco, le polemiche, la presenze di elementi beffardi e canzonatori nei suoi versi di certo collocano Brocardo all’interno di un Cinquecento capriccioso ed irregolare[7]. Eppure le riflessioni teoriche tradite dalle testimonianze contemporanee lascerebbero pensare piuttosto ad un Brocardo restauratore. Infatti il Brocardo ricordato nei Dialoghi di Sperone Speroni si muove con agilità tra le argomentazioni storiche e retoriche, dimostrando non solo una gran conoscenza di autori ed argomenti, ma anche di saper individuare errori e problemi del suo tempo e dei secoli immediatamente precedenti, tenendo sempre presente la lezione classica antica. Nella prefazione del primo libro degli Amori, poi, Bernardo Tasso lo ringrazia per avergli dato la forza di intraprendere un nuovo percorso classicista figlio di un rinnovato rapporto proprio con l’antichità classica[8].

La ruota dei libri di Agostino Ramelli.

La ruota dei libri di Agostino Ramelli.

La figura che ne esce fuori è fortemente contraddittoria: da una parte – come testimoniano la maggior parte dei suoi componimenti – Brocardo sarebbe un valido rimatore del tempo suo, conscio di tutte le possibilità che il petrarchismo aveva da offrirgli. Dall’altra furbesco, polemiche, critiche (tutt’altro che immotivate) a secoli di retorica che, se non fosse morto così giovane, probabilmente lo avrebbero portato a mettere in pratica i suoi malcontenti.
Ed è proprio, a mio avviso, in questa complessa (e apparente) antinomia che si colloca l’Orazione in laude delle cortigiane, espressione perfetta della costante instabilità di ogni classicismo maturo, che ha alle spalle altri classicismi, che col passare del tempo diventano un tutt’uno con il canone cui vogliono rifarsi; classicismo maturo che sceglie sempre in itinere i modelli – più o meno conosciuti –  coi quali decide di relazionarsi.
Sembra superfluo, forse inutile, forzare a tutti i costi il personaggio per riuscire ad armonizzare perfettamente tutte queste tendenze, temendo le varie decostruzioni fatte a posteriori, visto che è proprio di una fase matura, in procinto di dar vita a nuove correnti, passare per momenti di incertezze e contraddizioni.Ecco perchè l’antinomia, per quanto forte possa essere, in certi casi va considerata sempre apparente: forse Brocardo non riesce ancora a proporre una soluzione unitaria a tutti i problemi che solleva, ma dà per lo meno la possibilità ad altri di farlo tramite il suo proprio esempio.


[1]    D. Vitaliani, Antonio Brocardo: una vittima del Bembismo, Rovigo, Papolo-Granconato, 1902 (disponibile alla consultazione elettronica: http://tinyurl.com/cv3fwh9).

[2]    Mi riferisco al Nuovo modo de intendere la lingua zerga, la cui ricostruzione filologica è tutt’altro che scontata. Rinvio a A. F. Caterino, Antonio Brocardo, Nuovo modo de intendere la lingua zerga, scheda TLIOn, http://tinyurl.com/bn6g57j, nonché all’opera stessa, http://tinyurl.com/bvfc8wa.

[3]    La polemica Brocardo-Aretino è principalmente testimoniata all’interno delle epistole dell’Aretino, nonché da un piccolo ciclo poetico di Niccolò Franco. Cfr. A. F. Caterino, Il ricordo di Alcippo (Antonio Brocardo) tra le rime di Niccolò Franco, Banca dati “Nuovo Rinascimento”, 2012 (http://tinyurl.com/ckww2ot).

[4]    I dialoghi speroniani cui faccio riferimento sono disponibili al link http://tinyurl.com/clmhcpa. La punteggiatura è di chi scrive.

[5]    Cfr. G. Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, 23 Ottobre 1823 ( http://tinyurl.com/c86rjfx), in cui cita l’edizione speroniana del 1596 (http://tinyurl.com/crspb5b).

[6]    Vedi C. Mutini, Antonio Brocardo, voce DBI (http://tinyurl.com/cvbao8n) e lo stesso Vitaliani,  pp. 36-7.

[7]    Fondamentale, per delineare tale categoria, il saggio di P. Procaccioli, Cinquecento capriccioso e irregolare. Dei lettori di Luciano e di Erasmo; di Aretino e Doni; di altri peregrini ingegni, in «Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nell’italia del classicismo», Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1999 (disponibile online in “Nuovo Rinascimento”: http://tinyurl.com/c769ecr).

[8]    Cfr. B. Tasso, Rime I, prefazione (http://tinyurl.com/cjmhp5j).

___________________________

s200_antonello_fabio.caterino*Antonello Fabio Caterino (San Giovanni Rotondo, 10/12/1988) è attualmente dottorando di ricerca presso la Scuola Dottorale Internazionale di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Laureato alla Sapienza, con due tesi (triennale e specialistica) riguardanti la tradizione poetica umanistica e rinascimentale, ha scritto contributi su Antonio Brocardo, argomento del suo progetto dottorale, e Tito Vespasiano Strozzi.  I suoi campi di interesse includono la storia intellettuale rinascimentale, la filologia umanistica e le digital humanities, con particolare riferimento al rapporto tra ricostruzione del testo e nuove tecnologie, come dimostrato dal progetto «Filologia – Risorse informatiche» (http://tinyurl.com/ch84t7a), da lui ideato e curato.


Critica e storiografia, più che cartografia

$
0
0

di Marco Giovenale*

Rogelio Naranjo 1.
Un falso problema si aggira per redazioni e radar di siti, blog, giornali, e nei pensieri di editor di pagine web, o critici (per fortuna non in tutti): il problema della “mappatura” delle voci poetiche. Il problema del territorio intero. Luogo da possedere, évidemment, come nozione, o corpus ghiotto, da afferrare. Se è il territorio intero, da sondare, va pur detto che percentuale altissima del dicibile e del detto è già in rete. O, meglio, è la rete: mappa pressoché coincidente con i suoi oggetti (almeno nella porzione di mondo occidentale/occidentalizzato adsl-munita, in grado dunque di promuovere se stessa – come fa, come facciamo –  alla dignità di soggetto rammemorante e memorabile). (Il possesso di uno specchio: segno di benessere economico, di facoltà..).

2.
Quel 1998 in cui Giuliano Mesa avviava la straordinaria iniziativa ed esperimento di ascolto/dialogo collettivo Ákusma (incontro e antologia), idea poi ripresa e rilanciata fra 2001 e 2003 a Roma con una fitta sequenza di confronti e reading, era un anno che veniva dopo una serie anzi cumulo di silenzi e reciproche non letture fra tanti poeti. Molti non si scambiavano nemmeno insulti, si ignoravano, non ascoltavano minimamente – per banali ragioni di poetica o pregiudizio – la voce altrui. Non c’era lettura reciproca. E la critica sembrava duplicare e rafforzare tanto muro. Dall’introduzione all’antologia, pubblicata nel 2000 da Metauro (p. 11): «Ákusma è un progetto il cui obiettivo coincide col suo stesso esistere come occasione di confronto, di dialogo fra alcuni autori che hanno accolto l’invito a reinterrogare insieme ragioni e modi del loro scrivere e del loro agire. È la proiezione – in contatti, incontri, letture, e pagine stampate – del desiderio e della volontà di ricominciare dalle opere, dalle poesie, la cui conoscenza diretta è stata troppo spesso sacrificata al culto delle poetiche aggreganti, dei precetti teorici, al pregiudicante (e pre-testuale) incasellamento di un autore all’interno di una tendenza o contro di essa, nonché alla sua collocazione nel risibile e ultracompetitivo “mercato dei versi”». Giuliano attribuiva l’impasse alla complessiva multiforme sordità e all’intreccio di consorterie e odî incrociati che affliggevano – come del resto affliggono – buona o gran parte del contesto letterario italiano, massime in poesia. (In parte anche a séguito di tante polemiche nate cresciute scomparse con l’arco di tempo di lavoro del Gruppo 93). All’altezza di quel 1998 era indispensabile che alcuni autori, diversissimi fra loro, riprendessero a conoscersi, a non opporre chiusure – perfino editoriali – di differenza intesa come distanza e distacco. Né a sentirsene o esserne vittime. La situazione in qualche modo “imponeva” una felice forzatura, una violazione dei confini delle poetiche, per (ri)stabilire scambi o almeno stendere fili di comunicazione. Il termine stesso, ákusma, “ciò che si ode”, era centrato sull’ascolto. L’ascolto dell’altro. Non un valore scontato. Posso dire che tale forzatura ha positivamente anticipato (anche attraverso la selezione antologica, e l’impegno di scouting di Giuliano) molta parte del meglio del clima attuale? Senza incorrere in utopie inclusive e pacificanti (sottolineerò sempre e sempre l’insofferenza e intransigenza di Giuliano verso il dilettantismo e il sottobosco, quello romano in particolare), il lavoro di Ákusma ha tessuto una rete di testi. Ha dato uguale spazio ad autori diversi o testualmente perfino opposti. Ma. Tutto questo avveniva prima dell’entrata in scena della rete, e prima del (per certi aspetti catastrofico) intervento scompaginante o francamente confusionario di facebook nel sistema letterario nostrano.

3.
A mio modesto avviso, ancora nello spirito di Ákusma, di ascolto c’è necessità assoluta. E, contemporaneamente, di tutto c’è bisogno tranne che di una utopia di mappa, di convivenza (fintamente) pacifica, di ascolto reciproco indifferenziato. Non che orientamento, buona creanza e lettura spassionata siano disvalori, ovviamente; lo sono, però, le corrispettive utopie, private di giudizio critico e diffuse dalla e nella comunità letteraria attraverso una teoria e prassi di indolente ecumenismo-buonismo, falso o – peggio ancora – vero. Che la scrittura (e aggiungerei: la scrittura di ricerca in particolare) abbia bisogno di  storiografia è pacifico, vero e prioritario. Mancano rassegne attente, avvertite, aggiornate e criticamente severe degli ultimi tre anzi cinque decenni. Rassegne dettagliate. Dagli anni Sessanta in qua, galassie di correnti e microscritti, saggi e antologie, hanno avuto nascita e corso. Non si può però trovare, forse, un lavoro compendioso che – anche soltanto sul piano dei documenti, della cronologia, della banale puntuale storicizzazione – si incarichi di mettere seriamente in sequenza e in sintagma l’accaduto. Qualcosa di paragonabile, ad esempio, al Novecento di Luperini. Ma con apparati antologici, e tavole cronologiche minuziose e altresì rassegne sintetiche di eventi, festival, incontri: occasioni che in poesia, nei decenni suddetti, sono state talvolta essenziali, dirimenti, incisive quanto e forse più delle uscite editoriali. (Proprio il convegno e l’antologia a cura di Mesa possono funzionare da esempio in questo senso). Non a caso la lacuna storiografica e critica riguarda uno dei periodi più esplosivi della storia della letteratura mondiale: quello delle nuove avanguardie, dell’avvento del digitale, del cambio di paradigma in un’intera tradizione culturale (occidentale, almeno). È quasi scontato che un disorientamento colga la critica e gli scrittori stessi.

4.
Per far fronte ad alcune delle esigenze suddette si è impegnato a dir poco lodevolmente il gruppo che ha curato Parola plurale. Antologia meritoria quanto – giocoforza e coscientemente – incompleta. A quell’esperienza, di otto anni fa, non sono seguite iniziative paragonabili. (Se si esclude il pullulare dGeorgy Kozubov, Schriftomahia, 1986i “mappature” locali, o opere militanti, anche assai valide; oppure – come mai prima – varie fioriture pseudoantologiche pollate da contesti kitsch disarmati, disarmanti). Le utopie o disvalori di una completezza senza bussola, dell’ecumenismo-convivenza (o convenienza) e dell’ascolto indifferenziato vanno tanto criticate quanto vanno praticati i valori che comunque vi echeggiano, in positivo (dato che un positivo c’è). Valori da difendere, realisticamente o tentativamente. (Gli stessi, daccapo alla radice dell’iniziativa voluta da Mesa). Di completezza non si potrà in effetti mai parlare, tante sono le voci se non durevoli e solidissime perlomeno interessanti e meritevoli di ascolto, che attraversano i decenni dagli anni Sessanta a oggi. Ma un conto è l’asintoto dell’esaustione, un conto è il silenzio assoluto. Un’antologia e/o storicizzazione ampia dev’essere dunque ancora scritta. A uno sforzo complessivo di tali dimensioni (ciclopiche, in effetti) si può dedicare solo chi critichi a fondo e alla radice una utopia dell’ecumenismo, e pratichi senza mezzi termini – e motivatamente – ragionatissime esclusioni, ridimensionamenti, letture parziali. La parzialità non è affatto l’autoriduzione del lavoro del critico, è semmai la sua identità, se ne ha una. Se ne ha una, deve dimostrarlo. (Se ne ha più d’una, si impegnerà a redigere più testi storiografici, più antologie: non nessun lavoro storiografico, nessuna antologia). La soluzione è nel lavoro, ancora e daccapo nella MILITANZA (il maiuscolo un po’ retorico valga a chiarire che mi pare, questo, un pregio: come e più di prima). (E la sua assenza non è un semplice vuoto: è già una corruzione del contesto, netta). In questo senso, l’ascolto delle (e il discrimine tra le) voci poetiche o postpoetiche in campo è e sarà dirimente. Un ascolto non ‘bloccato’ da quelle categorie primonovecentesche (o fresche di ’63) che sembrano sempre ghiacciare le esperienze di secondo Novecento intorno a poli o meglio pioli da cui nessuno stormo anche miserrimo di teorie critiche o constatazioni antologiche è mai in grado di prendere un qualche minimo e pur sgangherato volo.

5.
A me sembra dunque, per concludere, che il contrario di una mappatura (senza orientamento), e il contrario di un ascolto indifferenziato, e il contrario di un ecumenismo livella-voci siano da auspicare, proprio e precisamente perché la rete è intervenuta massicciamente nell’ultimo decennio a dotare (in apparenza) tutti non solo di mezzi di studio del lavoro testuale altrui, ma di mezzi di scrittura senza alcun filtro, e opportunità di pubblicazione pressoché prive di limiti. Se correnti testuali non possono venir còlte e scontornate con acribia delimitante, se una polverizzazione di voci (come è stato più volte scritto) polverizza a sua volta certezze e regesti della nuova critica, spinta ad arrendersi davanti allo spettacolo della molteplicità e alla molteplicità dello spettacolo, è pur vero che una critica coraggiosa ha forse tutti i mezzi per cambiare lo stato di cose presente, consegnando alle varie generazioni, oltre a strumenti storico-analitici nuovi, il senso e il segno di un confine oltre il quale la cattiva qualità testuale, semplicemente, non può essere tollerata in e da nessuno. Il lavoro storico-critico da affrontare avrebbe o ha senz’altro, dunque, il compito di confrontarsi con linee di condotta e responsabilità precise. Ai critici scegliere quali. Personalmente (per quel che vale l’opinione di chi scrive) le individuerei come segue:

(I) Necessità primaria di fare barriera forte di fronte al dilettantismo promosso dall’editoria non solo mainstream; barriera alla banalità patente del sottobosco, alle (non ingenue) pubblicazioni a pagamento, all’indulgenza tanto verso acclamazioni & esordi di infanti infinitamente acerbi quanto verso ennesime prove di decadenza di ex gloriosi vegliardi delle lettere.

(II) In questo senso, lo smontaggio e una rilettura accigliata, niente affatto indulgente, di autori canonizzati non potrebbe che giovare al contesto.

(III) L’elaborazione di una antologia ragionatissima – con excursus storico e ricostruzione di passaggi, dati, biografie, eventi, cronologie – della scrittura in poesia e in prosa, tolto (o no) il romanzo, degli ultimi trent’anni almeno, se cinquanta sono utopia. (Con esclusioni ben spiegate, ed inclusioni generose e provviste di altrettanto articolate ragioni).

(IV) Un’offerta – anche solo virtuale, gratuita – di dati storici incolonnabili e certi, che stabiliscano una serie di passi e passaggi della ricerca recente e meno recente in poesia, ma – direi – anche di quel che “scrittura di ricerca” non è, in modo da approntare una griglia entro cui collocare opere, riviste, iniziative, siti, reading, eventi, insomma: memorabilia.

(V) Un inquadramento del lavoro degli autori entro cornici filosofiche e sociologiche (si pensi solo all’avvento della rete, appunto) non impressionisticamente tratteggiate, ma osservate nelle loro interazioni registrate, certificabili. Cfr. proprio il punto (IV): una griglia di dati cronologici permette questo tipo di indagine. Quasi – anzi – le esige. Una simile indagine in tutta evidenza non può prescindere da riflessioni (non ingenue) di genere, e da delimitazioni dei campi di potere oggettivo, anche ma non solo editoriale, agenti nel determinare fortune e sfortune di questa o di quella corrente.

(VI) Last, not least, andrebbe meglio indagato il cambio di paradigma in atto negli ultimi decenni in poesia, e andrebbero studiate le mutazioni radicali intervenute nelle scritture ma, prima ancora, nelle percezioni le più comuni (e illetterate). Tale indagine non può (sarebbe auspicabile non potesse) aggirare la questione del linguaggio della critica, del suo “aggiornamento”, di una sua mutazione proprio e precisamente parallela alle novità e trasformazioni delle scritture ultimissime.

______________________________________

M.Giovenale_ foto di Francesca Valente*Marco Giovenale, vive a Roma dove lavora come curatore e traduttore indipendente. È tra i fondatori di gammm.org (2006) e puntocritico.eu (2011). È redattore di «Argo», «Or», e di vari spazi web. Dirige la collana bilingue (italiano/inglese) di ebook di poesia italiana contemporanea Logosfere, dell’editrice Zona / Quintadicopertina (primo titolo: Corrado Costa, The Complete Films and Other Texts, 2012). Cura (con gammm) la rubrica “gammmatica” su «l’immaginazione». I suoi libri di poesia più recenti sono Shelter (Donzelli, 2010), Storia dei minuti (Transeuropa, 2010), In rebus (Zona, 2012, con i testi del Premio Antonio Delfini 2009). Tra gli altri: Criterio dei vetri (Oèdipus, 2007), La casa esposta (Le Lettere, 2007), Soluzione della materia (La camera verde, 2009); e le prose di Numeri primi (Arcipelago, 2006), Quasi tutti (Polìmata, 2010) e Lie lie (La camera verde, 2010). Suoi testi sono antologizzati in Parola plurale (Sossella, 2005), Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007), e in Poesia degli anni Zero (Ponte Sisto, 2011). Con i redattori di gammm è nel libro collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009). Per Sossella nel 2008 ha curato una ampia raccolta antologica di testi di Roberto Roversi. Il suo blog è http://slowforward.wordpress.com


Effetto Ikebana

$
0
0

di Gualberto Alvino*

Gesualdo Bufalino

[…] suggerisco innanzi tutto una lettura musicale delle mie cose, un’attenzione al ritmo, alle andature melodiche, alle scansioni ritmiche, ai campi metaforici, alla prosodia nascosta nei meandri del periodo. […]. Ma si aggiunga anche l’effetto che chiamo Ikebana, cioè l’arte di combinare le parole secondo accordi di grazia e d’armonia […].

Gesualdo Bufalino

Che la statura di Bufalino — nominalista se altri mai, sotto mentite spoglie concettualiste — si misuri dalla foggia del tessuto, dai movimenti di macchina più che dal plot, sa bene chiunque abbia l’accortezza di penetrarne l’opera dal varco formale (scilicet sostanziale: identità di cui pare si sia persa la nozione, e fin la memoria). Cercherò di provare, in picciol tempo ma con dovizia di referti, come ogni tratto della sua pagina, ogni singola opzione — di primo moto riconducibile alla giurisdizione dei significati laccati di «grazia e d’armonia» all’insegna di virtuosismi fomentati dal riciclaggio di materiali aulici e prestigiosi: insomma a un classicismo fuori stagione — si riveli invece puntualmente per essere una vera e propria insurrezione contro la normalità grammaticale (non si tratta, beninteso, d’un’esclusiva del Nostro, ma di una cifra che accomuna tutti gli scrittori siciliani degni della qualifica — pensiamo soltanto, per limitarci al secondo Novecento, a un Pizzuto, a un Consolo, a un D’Arrigo —, i quali, dovendo rapportarsi all’italiano come a una lingua straniera per impiegarla a fini estetici — Bufalino la definisce con la consueta sagacia «una delle patologie dell’insularità» —,[1] non possono che attingere ai piani più alti della storia letteraria).  In un mio antico studio recentemente tornato alla luce[2] (cui la presente relazione, pur sostenendo tesi affatto nuove, non può non riannodarsi) esortavo a ravvisare in un tal modo di formare lo statuto d’una scrittura viva, atta a contemperare le ragioni tradizionali con la tensione analitica, la trasfigurazione lirica, la compromissione estrema di chi assegna all’arte una funzione taumaturgica, essenzialmente sacrale; e mi attentavo così a dimostrare la formidabile equazione letterarietà-autenticità, ovvero artificio-affabilità comunicativa, movendo dal presupposto che quello del Comisano si configura come un universo monologico, unilingue, concluso nella superiore coscienza di un demiurgo per il quale la perfezione dello stile, saldata all’estetizzazione dell’esperienza personale, rappresenta — pur senza speranza di redenzione — l’unico scampo al male di esistere. Bufalino:

«si scrive per popolare il deserto; per non essere più soli nella voluttà di essere soli; per distrarsi dalla tentazione del niente o almeno procrastinarla. A somiglianza della giovane principessa delle Mille e una Notte, ognuno parla ogni volta per rinviare l’esecuzione, per corrompere il carnefice. […] Ma si scrive anche per dimenticare, per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica. Può essere una vernice, la scrittura, che ci anodizzi i sentimenti e li protegga dalle salsedini della vita» (CP 822-23).

«Ma se proprio devo esibirmi, dirò che scrivere è per me un gesto verso l’interno. Non rifiuta, ma nemmeno esige interlocutori. È un gesto per metà ludico, per metà esorcistico. E scrivo per passatempo, la scrittura per me è un giocattolo che mi distrae dal pensiero della morte, mi fa credere di durare. È una autoterapia. Insomma, scrivo per guarire del vivere o comunque consolarmene».[3]

«Ho scoperto che fra artifizio e pietà un mio spazio esisteva e che stava a me coltivarlo e farne nascere fiori. Adoperando le armi più capziose della retorica antica e moderna: le criptocitazioni, gli ossimori, il belcanto, l’allitterazione, e tanti altri effetti di retorica che nuovi non sono, ma che a me piace intitolare con nomi di fantasia, mutuati dalle discipline più varie: l’effetto retard, copiato da certe compresse che si sciolgono nelle 24 ore, il piano sequenza, copiato dal cinema, il fiori napoletano e il gioco di compressione dal bridge, il gambetto di re dagli scacchi, il bluff dal poker, lo slow burn da Laurel e Hardy, il canto scat da Armstrong, il non finito da Michelangelo, le punizioni a rientrare dal grande ex numero dieci dell’Inter Mariolino Corso, certe copule di aggettivo con sostantivo dal Kamasutra. Ma si aggiunga anche l’effetto che chiamo Ikebana, cioè l’arte di combinare le parole secondo accordi di grazia e d’armonia, come nell’uso giapponese di disporre i fiori e le foglie».[4]

Non meravigli, quindi, che al centro d’una struttura compositiva informata meno al contenuto ut sic che al cosiddetto significato del significante («Adoperando le armi più capziose della retorica antica e moderna»), si collochi un’ostinata, programmatica ricerca di differenzialità, inattualità, e si dica pure elisione del presente, posta in essere, come vedremo, mediante la rottura dell’ordine linguistico costituito in tutti i suoi connotati. Che mi consti, nessun critico ha finora osservato, ad esempio, come in Bufalino non si dia, salvo errore, un solo caso di rispetto della sequenza canonica predicato-oggetto: quest’ultimo, anche a costo di compromettere fluidità e perspicuità del dettato («ho visto, per mesi, lungo tutta una strada fra due paesi, cento volte cancellato dalla calce degli stradini e cento volte risorto, un graffito», LL 1138), viene sistematicamente allontanato, dislocato, sbalzato in clausola (cfr. l’«effetto retard») mercé interposizione d’una o più determinazioni parentetiche, anche di cospicue dimensioni:

facendo ad ogni battuta seguire, non per bisogno naturale ma per iattanza, una sparatoria di sbadigli (AC 70);
abbassa volpinamente sugli occhi le palpebre (CP 859);
nello sforzo di scioglierne, una volta per tutte, i nodi (861);
sbriciolargli, insieme alle costole, nascosto fra pelle e camicia, il bottino d’una gallina (UI 44);
estraendo con dita lievi dai ripiani le buste (75);
mi son risoluto di non tenere per me, con pregiudizio dei buoni, questo segreto (87);
comporre coi fiori in un’aiola una data (123);
Gente viene da tutte le parti a recarmi gratis, col sangue delle vittime ancora fresco sui parafanghi, i rottami di tutti gli scontri (127);
pronti a bucare con gli occhi la notte (IM 1097);
ammazzando nel pensiero qualcuno (1125);
e con essa giocare a fingere sul pavimento figure (MN 12);
spense col soffio le torce (41);
Io battei a questo punto ingenuamente le mani (QP 29);
legata con lunghissima fune a un pruno la cavalcatura (GM 34);
minacciandogli col coltello la gola (64);
mantenere nella forgia la fiamma (CG 26);
seguo in un silenzio da western la pista (130);
tolse dal chiodo lo spiedo (BP 90).

Ciò a fini certamente prosodici (non dissimili da quelli che governavano la prosa regulata latina medievale)[5] e di liricizzazione o, meglio, «nobilitazione tonale» — come diceva Gianfranco Contini d’un altro grande prosatore per molti versi assimilabile al nostro celebrato, Giovanni Boine —,[6] ma soprattutto sintatticamente eversivi (non sfuggirà come nell’ultimo lacerto il distanziamento dell’oggetto — dato l’isosillabismo dei due complementi, legati per giunta da assonanza atona — non risponda a esigenze metrico-ritmiche, giacché tolse lo spiedo dal chiodo sarebbe un ottonario dattilico esattamente come la forma a testo). Ma non si finirebbe mai di citare casi di turbamento topologico, di frastagliamento dell’enunciato, in una parola di isteria della forma, tramite repentine fratture e sapienti incastri (nessun dubbio che per Bufalino comporre una frase equivalga a fabbricare il mondo e la sua visione).

* * *

OPERE DI BUFALINO CITATE PER ABBREVIAZIONE

AC Argo il cieco, Milano, Bompiani, 1994.
AM L’amaro miele, in.
BP Bluff di parole, Milano, Bompiani, 1994.
CG Calende greche, Milano, Bompiani, 1995.
CP Cere perse, in G. Bufalino, Opere. 1981-1988, a cura di Francesca Caputo, intr. di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1992.
GM Il Guerrin Meschino. Frammento di un’opra di pupi, Catania, Il Girasole, 1994.
IM Il malpensante. Lunario dell’anno che fu, in Opere, cit.
LL La luce e il lutto, ivi.
MN Le menzogne della notte, Milano, Bompiani, 1990.
QP Qui pro quo, Milano, Edizione Club, 1992.
UI L’uomo invaso e altre invenzioni, Milano, Bompiani, 1990.


Pubblichiamo una anticipazione della relazione che sarà letta al Convengo di studi Il miglior fabbro Bufalino fra tradizione e sperimentazione (Ragusa – Comiso, 11 – 12 aprile 2013).

[1] In Stefano Malatesta, Il mistero e la ragione, «La Repubblica», 22 novembre 1989.

[2] Gualberto Alvino, Artificio e pietà. Contributo allo studio di Gesualdo Bufalino, «Campi immaginabili», 25, 2001, fasc. ii, pp. 143-63, poi, riveduto e ampliato, in Id., La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, pref. di Pietro Trifone, Napoli, Loffredo Editore-University Press, 2012, pp. 129-58.

[3] G. Bufalino, Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tas, nota critica di Nunzio Zago, Roma, Òmicron, 1996, p. 8.

[4] ivi, pp. 40-41.

[5] Felicita Audisio ha recentemente dimostrato che in Pizzuto ricorre il cursus (Sul ritmo di Pizzuto, in Aa.Vv., La vera novità ha nome Pizzuto, Atti del convegno di Bagheria del 19-21 ottobre 2009, Acireale-Roma, Bonanno, 2011, pp. 103-26): non è affatto escluso che un analogo studio sulla prosa bufaliniana possa riservare più d’una sorpresa.

[6] Gianfranco Contini, Alcuni fatti della lingua di Giovanni Boine, in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 247-58.

______________________________________________

Foto AlvinoFilologo e critico letterario, Gualberto Alvino si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana contemporanea, da Consolo a D’Arrigo, da Bufalino a Sinigaglia, da Balestrini a Pizzuto, del quale ha pubblicato in edizione critica Giunte e virgole (Roma, Fondazione Piazzolla, 1996), Spegnere le caldaie (Cosenza, Casta Diva, 1999), Ultime e Penultime (Napoli, Cronopio, 2001), Si riparano bambole (Palermo, Sellerio, 2001; Milano, Bompiani, 2010), Pagelle (Firenze, Polistampa, 2010) e i carteggi con Giovanni Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini (tutti editi dalla Polistampa). Fra i suoi lavori più recenti, la curatela dell’ultima silloge poetica di Nanni Balestrini, Sconnessioni (Roma, Fermenti, 2008), Peccati di lingua. Scritti su Sandro Sinigaglia (ivi, 2009) e La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino (Napoli, Loffredo-University Press, 2012). Nel 2008 ha esordito nella narrativa col romanzo Là comincia il Messico e nel 2011 ha pubblicato la raccolta di versi Da caccia, da séguita e da ferma. Collabora con diverse riviste accademiche e militanti, tra cui «Strumenti critici», «Studi e problemi di critica testuale», «Filologia e critica», «Studi di filologia italiana», «Italianistica», «Studi linguistici italiani», «Filologia italiana», «Ermeneutica letteraria», «Letteratura e dialetti», «Giornale storico della letteratura italiana», «Moderna», «L’Immaginazione», «L’Illuminista», «Il Caffè illustrato», «Fermenti», «Microprovincia», «Avanguardia», «Alfabeta2».


Per una poesia dell’utopia: scrittura, frontiera, migrazione. La poesia italofona del XXI secolo (Resoconto delle Giornate Internazionali di Studio)

$
0
0

di Myriam El Menyar* e Davide Madeddu*

imagesMercoledì 13 e giovedì 14 marzo 2013, all’università Paul-Valéry di Montpellier, si sono svolte due giornate internazionali di studio dedicate alla poesia italofona. Intitolate: Pour une poesie de l’utopie: écriture, frontière, migration – La poésie italophone du XXIe siècle, queste costituiscono la terza parte di un ciclo di incontri cominciato a Montpellier nel 2010. Le due giornate, organizzate dal Dipartimento di Italianistica dell’Università Paul-Valéry – Montpellier 3, in collaborazione con il centro di ricerca LLACS (Langues, Littératures, Arts et Cultures des Suds), sono state animate dagli interventi del Prof. Flaviano Pisanelli, responsabile scientifico della manifestazione, della Prof.ssa Myriam Carminati (Université Paul-Valéry Montpellier III), Marie-Noëlle Ciccia (Université Paul-Valéry Montpellier III), Laura Toppan (Université de Nancy 2) e Daniele Comberiati (Libre Université de Bruxelles). Questi interventi critici sono stati accompagnati dalle conferenze dei poeti Nader Ghazvinizadeh (Iran), Vera Lúcia de Oliveira (Brasile), Francisca Rojas (Cile), Cheikh Tidiane Gaye (Senegal) e Pedro Sena-Lino (Portogallo), e alternati a dibattiti, tavole rotonde, letture poetiche con accompagnamento musicale (a cura degli studenti del Dipartimento d’Italianistica di Montpellier). I lavori sono stati aperti dalla Prof.ssa Laura Toppan, la quale ha introdotto le poetesse Vera Lúcia de Oliveira e Francisca Rojas con un intervento dal titolo “Il dolore nella poesia di Vera Lúcia de Oliveira e Francisca Rojas. Zone di contatto e divergenze”. Vera Lúcia de Oliveira nasce in Brasile nel 1958, mentre Francisca Rojas in Cile nel 1974; entrambe abbandonano il rispettivo paese per ragioni personali ed entrambe hanno conosciuto la dittatura e si sono laureate in Italia, dove attualmente vivono e lavorano. La poetica del dolore – sostiene L. Toppan – accomuna queste due poetesse. Le parole di Vera Lúcia de Oliveira arrivano come “frustate” al lettore: sono parole essenziali, crude, parole che feriscono e che richiamano alla mente i componimenti di Giuseppe Ungaretti; la sua poesia è una ferita mai rimarginata ed incurabile che non prevede una guarigione definitiva, ma soltanto un parziale sollievo, una possibile consolazione. Francisca Rojas indaga diversamente il dolore; la sua è una memoria “bloccata” e la sua poesia sembra voler essere piuttosto un grido di giustizia. Tuttavia entrambe le poetesse sembrano incentrare la loro personale poetica sul dolore della lacerazione, del lutto individuale e collettivo.

Vera Lúcia de Oliveira sostiene nel suo intervento intitolato “Mappare l’ignoto” che la poesia è luogo di salvezza, strumento escatologico, come una passeggiata fatta lungo la linea della frontiera. Poetare significa allora ascoltare la voce di chi sta sulla soglia, sul bordo, di chi è in grado di vivere la solitudine. La missione di Vera Lúcia de Oliveira sarebbe dunque quella di aprire una “breccia nel muro”, uno squarcio che permetta di portare in superficie la verità, la condizione umana, il nostro stare nel mondo. La poetessa precisa anche che non esiste una vera distinzione tra poeti migranti in viaggio e poeti autoctoni immobili, statici: ogni poeta abita la sua lingua ed è sempre in viaggio, ogni poeta vive necessariamente lo stato della migranza. Nella sua poesia non sembra esserci conflitto tra lingua madre e lingua d’adozione. Per Vera Lúcia de Oliveira il portoghese e l’italiano sono come due sorelle, due amiche, due madri; pertanto la poetessa si chiede se abbia senso parlare di italofonia e se sia ancora valida la distinzione tra poeti migranti e non. Francisca Rojas nel suo intervento “Dell’oscuro e dei giorni” evoca un sentimento di perdita: perdita della lingua madre, perdita del passato. L’italofonia per Francosca Rojas è una presenza, un viaggio conflittuale, una scissione, è un luogo di passaggio e di crisi, ma è anche una seconda casa “che può diventare la prima”. La seconda giornata si è aperta con l’intervento del Prof. Daniele Comberiati intitolato “Versi a margine. I poeti viandanti”. Il critico presenta la poetica di Nader Ghazvinizadeh e Cheikh Tidiane Gaye, per concludere poi con considerazioni di natura generale sulle delicate questioni del canone letterario e della poesia della migrazione. Così apprendiamo che Nader, nella sua ultima fatica letteraria Metropoli, ha voluto parlare del suo rapporto con la città, coi paesaggi urbani che diventano anche uno specchio delle inquietudini personali. La sua poesia è luogo di ascolto e confronto e, allo stesso tempo, la forza visionaria del poeta è capace di creare mondi fantastici, scenari inediti, luoghi che potremmo definire quasi cinematografici. Cheikh Tidiane Gaye si vuole invece un poeta-filosofo, ricollegandosi alla tradizione dei ‘griot’ (cantastorie africani), al movimento della Negritudine e alla figura del vate, poeta-guida.

La letteratura migrante, dichiara Comberiati, non può più essere considerata a parte rispetto alla letteratura cosiddetta ‘ufficiale’. La letteratura migrante può offrirci un’immagine dell’Italia futura e delle molteplici relazioni che si possono stabilire con l’altro da noi, può rimettere in discussione il canonephoto-libri letterario o creare una sorta di ‘ibridazione’ con la letteratura italiana contemporanea. Nader Ghazvinizadeh prende poi la parola, con un intervento intitolato “La finta naïveté del viaggiatore ed il pensiero magico: sul Medio-Oriente nell’Estremo Occidente”. Definendosi “rivoluzionario” e non “ribelle” (in quanto ogni ribelle aspira sempre in fondo a diventare un re), ha presentato la sua raccolta Metropoli come un romanzo in versi che si può consultare in totale libertà e partendo da qualsiasi punto, una sorta di opera aperta, senza inizio né fine. Ha parlato poi del “momento magico” della sua vita. Costretto a restare in Italia o, meglio, costretto a non poter rientrare in Iran a causa della difficile situazione politica, Nader ha imparato l’italiano dal padre persiano e il persiano dalla madre italiana; parla di sua sorella Susanna che si chiama così perché avrebbe dovuto vivere in Italia, mentre in realtà vive in Iran ed è musulmana, mentre lui si chiama Nader perché avrebbe dovuto vivere in Iran, mentre in realtà vive in Italia ed è battezzato. Cheikh Tidiane Gaye, col suo intervento “La negritudine, il fulcro della mia poesia”, ha dichiarato di sentirsi italiano a tutti gli effetti e di aver scelto l’Italia come patria pur sentendosi sempre ispirato dalle sue origini africane, origini che il poeta rivendica con orgoglio. Per Gaye la scrittura è impegno civile: l’arte ha il dovere di creare una società universale all’interno della quale le differenze culturali non dovrebbero essere appiattite bensì esaltate e valorizzate. Per il poeta italo-senegalese esistono più letterature italiane e rifiuta categoricamente la nozione di letteratura migrante. Il suo compito di poeta è quello di cercare, attraverso gli strumenti dell’arte, di riconciliare le sue matrici culturali: il wolof (la lingua madre), il francese (la lingua dell’ex colonizzatore) e l’italiano (la lingua d’adozione). Infine Pedro Sena-Lino, poeta portoghese presentato dalla Prof.ssa Marie-Noëlle Ciccia, ha concluso gli interventi. Egli non è un poeta italofono, ma anche la sua poetica si muove entro i confini dell’utopia. Il suo intervento “Will you marry me, Berlin? Mariages symboliques entre un poète et sa cité d’adoption” svela un rapporto tutto particolare tra il poeta e la sua città d’adozione, un rapporto che Pedro Sena-Lino definisce “mistico, trascendentale”, un rapporto dialogico biunivoco all’interno del quale la voce del poeta si arricchisce degli spunti forniti dalla città e la città stessa, viceversa, si alimenta dei versi del poeta, crescendo assieme a lui. Le giornate si sono concluse con un dibattito dal quale è emersa ancora una volta la volontà di rifiutare la categoria di letteratura migrante e l’aspirazione di fare dell’Italia un paese davvero multietnico e interculturale, aperto all’altro: un paese non di scrittori migranti, ma semplicemente di scrittori che esprimono e danno voce al proprio vissuto, alla propria memoria, alla propria poesia. La manifestazione si è chiusa all’insegna della poesia alla Maison des Relations Internationales di Montpellier, dove i poeti invitati hanno letto alcuni loro componimenti.

__________________________________

IMG_0483*Myriam El Menyar  è nata nel 1990 da padre marocchino e da madre francese. Ha vissuto a Casablanca e poi a Nizza. Laureata in lingua e letteratura italiana all’Università Paul-Valéry – Montpellier 3, è attualmente iscritta al primo anno di Laurea specialistica in lingua e letteratura italiana. Le sue ricerche si orientano in special modo sulla letteratura italiana prodotta da autori stranieri residenti in Italia.

Davide Madeddu*Davide Madeddu è nato nel 1986 a Cagliari, dove si è laureato in Lettere Moderne con una tesi dal titolo Nascita, sviluppo, critica ed evoluzione della Negritudine: il contributo francofono al concetto di Creolizzazione. Scrive su alcuni settimanali sardi, è musicista e un suo racconto è apparso sulla rivista Isola Nera. Un altro suo racconto è stato pubblicato in una antologia dalla casa editrice La Gru di Padova. Attualmente vive a Montpellier grazie al progetto Erasmus e sta ultimando la laurea magistrale in Filologie e Letterature Moderne presso l’Università di Cagliari.


Per i cent’anni di Vittorio Sereni. Sullo stile di “Frontiera”.

$
0
0

di Daniele Ciacci*

Vittorio-SereniPer un’accurata analisi del linguaggio di Frontiera può essere comodo assumere come termini di confronto dialettici alcuni autori che, in tempi diversi, hanno contribuito a formare la grammatica personale di Sereni. La prima coppia oppositiva, mette a sistema Ungaretti e Montale, la seconda coinvolge Dante e Petrarca. Già Mengaldo, trattando della prima silloge del luinese, prende posizione sull’eredità ermetica attivamente presente nell’esordio di Sereni:

E tuttavia anche in questo Sereni inaugurale la presenza di un linguaggio di matrice ermetica più ardito è qualitativamente e quantitativamente limitata: qualche plurale vago, qualche ellissi dell’articolo, sporadici costrutti preposizionali nuovi (“Morto in tramonti nebbiosi d’altri cieli”), rari attanti astratti (“un’insonnia di fuochi vaganti”), una sigla lessicale ermetica come decadere etimologico […]. Forse il maggior punto di contatto coi modi dell’ermetismo, e in particolare di Quasimodo, si coglie nelle modulazioni nominali fra pause forti (“Giovinezza vaga e sconvolta”, “Lunga furente estate”, “Questo trepido vivere nei morti” […]). Tutto sommato l’aria di famiglia con l’ermetismo è denunciata da fenomeni più generici, dico di generico “modernismo”: certe movenze epigrammatiche, il franto della metrica dominata dai versi medi o medio-brevi, le movenze scorciate, da improptu (”Sei salva e già lunare”)[1].

Il critico, di fatto, propone un’interpretazione storico-critica che vede Sereni vicino all’ermetismo, ma con alcune riserve che andremo ad approfondire. A Montale, invece, si fan risalire riprese e citazioni più in Diario d’Algeria e nelle opere seguenti che in Frontiera. Il rilievo di Mengaldo è sicuramente preciso. Egli, infatti, non manca di enunciare esempi a favore della sua ipotesi. Selezionando alcune costanti del linguaggio ermetico, Mengaldo inserisce Sereni all’interno di un ermetismo meno esasperato, opponendolo al trobar clus di poeti come Gatto o De Libero. Il luinese condivide con la koinè ermetica i tratti meno esasperati della nuova maniera come, ad esempio, l’utilizzo di sostantivi assoluti, specialmente astratti e perlopiù senza articoli determinativi (come in Ritorno, v. 6: «e la fermezza del verde»; in Compleanno, v. 19: «Maturità di foglie, arco di lago» o in Maschere del ’36, v. 4: «Giovinezza vaga e sconvolta»); l’uso di un sostantivo al plurale, quand’esso potrebbe essere singolare (come in Inverno, v. 11: «Armoniosi aspetti sorgono»; in Compleanno, v. 17: «senso d’acque mi spiri»; o in Concerto in giardino, v. 20: «Ma fischiano treni d’arrivi»); l’uso passe par tout della proposizione a e, più in generale, l’ampliamento dell’impiego dei nessi proposizionali (come in Compleanno, vv. 6-7: «Ancora al sonno / canti di uccelli sento»; la proposizione a è, almeno nelle prime liriche di Frontiera, quella che vanta un maggior utilizzo, che sia o meno grammaticalmente adeguato).

A queste costanti, si aggiunga l’impiego transitivo di verbi più frequentemente intransitivi (come il v. 1 di Terre rosse: «Il tuono spazia un rumore»; oppure Compleanno, v. 14: «Ma dove t’apri»); e la sintassi nominale, ottenuta preferibilmente per polisindeto. L’analisi critica di Mazzoni rivela che lo «schema base» tipico di Frontiera è riconducibile a «una sequenza di proposizioni principali, collegate per asindeto attraverso le congiunzioni coordinanti e o ma, la cui struttura elementare […] è ampliata di solito da nessi di luogo e di tempo»[2]. È però il saggio di Tomasin a scendere in profondità nella grammatica nominale di Sereni:

L’assenza di sintagmi verbali (forme nominali a parte) è addirittura totale in altri componimenti, come ad esempio in Maschere del ’36, incluso in Frontiera […]. L’assenza di un verbo di modo finito in questi versi si spiega con la loro natura di frammento fotografico, cioè di brevissima serie di immagini la cui fugacità visiva è sottolineata dall’allineamento dei sintagmi nominali, che in due casi sono ancor più impalpabili in quanto nomi astratti (ebrietà, giovinezza). […] Caratteristicamente sereniano è, tuttavia, l’impiego di questi costrutti nominali in sede incipitaria […]. Un enunciato costituito da uno o più sintagmi nominali ha la funzione di proporli come tema, come presupposto, come punto di partenza o, in alcuni casi, come “sfondo” su cui si muove il seguito del ragionamento poetico[3].

L’abuso dell’analogismo e di particolari iuncturae di sostantivo e attributo, spesso sinestetiche o addirittura ossimoriche (come in Ritorno, v. 5: «e l’oro dell’aria»; o come l’«amara estate» di Compleanno, v. 12), avvicina l’opera del primo Sereni alla linea ungarettiano-quasimodiana. L’analogia è ermetica per «la straordinaria forza di apparizione dell’oggetto indeterminato e improvviso […] ottenuta con la strana, perturbante concentrazione e la simultaneità di sensazioni diverse, incastrate per così dire, una nell’altra, e con la soppressione di tutti i legami logici e di quasi tutte le articolazioni vicendevoli»[4]. Spiega Luzzi:

Qui la funzione ellittica, che con frequenza ben maggiore sembra obbedire, in Frontiera, a leggi largamente praticate di essenzialismo allusivo (si pensi al frequente uso di sostantivi disarticolati, ovvero alla funzione evocativa degli aggettivi appositivi, o infine a certi slittamenti funzionali di marca genericamente ungarettiana del tipo: “Il tuono spazia un rumore”, ecc.), risponde alla esigenza vitale di affondare il proprio dramma di identità anche storica in un soprassalto ambiguo radicalmente situato dentro la corrente di reciprocità che si instaura tra soggetto e oggetto come cooperatori indistinti del processo percettivo. Questa reciprocità trova conferma grammaticale anche dentro l’uso, talora stilisticamente elevatissimo, dei verbi in forma riflessiva (di cui è traccia nell’incipit di Canzone lombarda: “le bevande si fanno più chiare”) che rivelano il rivolgersi dell’azione sul soggetto stesso, rendendo più fitto l’addensarsi speculare della reciprocità percettiva come autocoscienza e concentrando il valore predicativo dell’azione piuttosto sull’accadere del fenomeno che sul giudizio attivo all’esterno di esso[5].

Se quindi la retorica sereniana riceve alcuni contributi formali dall’ermetismo, evidenziamo però che le riprese dirette non sono le prime per frequenza. Sereni acquista dagli ermetici alcuni stilemi generici, formando però il suo lessico su un diverso vocabolario. Gli autori più assimilati da Sereni sono sicuramente Ungaretti (si veda come i «declivi sospirosi» di In me il tuo ricordo assomiglino ai «seni appena germogliati, / già sospirosi» di Le stagioni, in Sentimento del tempo; oppure, come l’incipit di Terrazza, «Improvvisa ci coglie la sera», si avvicini a quello di Vanità, ne L’Allegria: «D’improvviso / è alto / sulle macerie / il limpido / stupore / dell’immensità») e Quasimodo (si confronti Ecco le voci cadono, «Ma sugli anni ritorna / il tuo sorriso limpido e funesto», con Sulle rive del Lambro, «alla sua voce in servitù di dolore / funesta nel silenzio del petto. / Tutto che mi resta è già perduto»; si vedano anche Sul tavolo tondo di sasso, «E oggi attorno la quiete / dei vetri indifferenti», con «e fronde battono a vetri taciti / a mezzo delle notti » di Dove morti stanno ad occhi aperti ), ai quali si aggiungono modeste consonanze con Leonardo Sinisgalli, residente a Milano nel periodo della stesura di Frontiera (si confrontino i brani di Temporale a Salsomaggiore: «nell’ora finale dei convogli», «sotto tettoie sonanti in ascolto», con la poesia Narni Amelia Scalo: «Sostano in mezzo alla campagna / i convogli dei treni merci», «t’è lontana la voce lungo i nastri / trasportatori, straniera la terra / distesa sotto la tettoia»). Erano ben conosciuti, da Sereni, sia Alfonso Gatto (si vedano Ecco le voci cadono, «Ma sugli anni ritorna», e Musica, in Morto ai paesi, «In questa sera torna»); sia il più giovane Mario Luzi, che anticipa Frontiera con le raccolte La barca e Avvento notturno (e si possono accostare i brani di Strada di Zenna, «per prati che rasentano l’Eliso», con Già colgono i neri fiori dell’Ade, in Avvento notturno: «decade sui fiochi prati d’eliso / sui prati appannati torpidi di bruma»). Estemporanee rispetto alla temperie ermetica, ma rilevanti per la cultura del giovane Sereni, sono le riprese da autori a latere dell’antinomia montaliano-ungarettiana, come Clemente Rebora (si confronti il verso «cresciuto ai più tristi sobborghi» di Diana con «fra il rincasar tumultuoso / che ai sobborghi nereggia negli echi» nei Frammenti lirici di Rebora), e Camillo Sbarbaro, precedente ligure del più assorbito Montale (si paragoni il verso di Nebbia, «di fabbriche fonde, di magli», con lo sbarbariano «quando, sentendo batter nell’infermo / petto qual maglio il mio misero cuore, / pensai che fosse il tuo gran cuore, o terra»). Oltre all’eccezionale somiglianza che unisce alcuni brani di Sereni a loca dell’amato Saba (si veda ancora Nebbia, «e un fiato d’alti forni la trafuga», a paragone con il sonetto Passeggiando la riviera di Sant’Andrea, di Saba: «Dove finisce, e di pannello il mare / pute e di scorie, à fuoco d’altiforni»), è tuttavia più interessante, e meno prevedibile, il riuso di Vincenzo Cardarelli, la cui conoscenza è comprovata da una buona dose di testimonianze: come l’impiego del verbo sorvolare nel titolo A M. L. sorvolando in rapido la sua città, dalla poesia di Cardarelli Passaggio notturno: «Nessuno pensa o immagina / che cosa sia per me / questa materna terra ch’io sorvolo / come un ignoto, come un traditore».

Si deve però sottolineare che le maggiori riprese pescano da un altro insieme, e che la somma di tutte le citazioni tratte da poeti ermetici sembra non reggere il confronto con le riprese montaliane. Ciò testimonia che Sereni, subìto, per così dire, l’influsso ermetico del suo tempo, manifesta una maggiore consonanza immaginativa con il poeta degli Ossi di seppia e delle Occasioni. Al fine di non perdersi tra le innumerevoli citazioni possibili, ci si limita a rilevare che i versi che più influiscono nell’immaginario di Sereni sono tratti dalle ultime poesie di Ossi di Seppia (in particolare Arsenio: si notino le somiglianze tra Temporale a Salsomaggiore, «nelle piazze s’ingolfa e appanna i globi», e i montaliani «globi accesi, dondolanti a riva») e Buffalo, Eastbourne delle Occasioni (per la seconda, si rilevano molte concordanze con Inverno a Luino. Ad esempio, il montaliano «guizzo accende i vetri» si traduce nella «luce di calma, una vetrina» di Sereni). Non si nota, peraltro, una predilezione per l’una o l’altra raccolta. Le riprese di Ossi di Seppia superano, con minimo distacco, quelle de Le Occasioni, ma tale maggioranza può essere giustificata dalla cronologia delle due opere. Le Occasioni, del ’39, ha una stesura in buona parte contemporanea a Frontiera, e il libro passa tra le mani di Sereni relativamente più tardi di Ossi di Seppia, oggetto, invece, di uno studio più approfondito. Se poi la lingua di Ossi di Seppia è ancora parzialmente ancorata a canoni letterari con punte di espressionismo rilevabili in termini “petrosi”, botanico-faunistici (ed è sicuramente importante il peso di Pascoli) o idiotismi, Le Occasioni si distingue invece per una preponderanza del lessico tecnico-specialistico, spesso estratto dall’epoca contemporanea. Questa caratteristica piace molto al giovane Sereni: si vedano, ad esempio, le occorrenze di «autocarri» in Soldati a Urbino, di «torpediniera» in Terrazza, di «siluri» in Concerto in giardino, ecc. È, forse, quest’utilizzo denotativo di sostantivi rari ed extra-poetici (cioè estranei al vocabolario lirico della tradizione) a connettere Sereni non solo a Montale, ma anche a Gozzano e a Pascoli (sono invece sporadiche le citazioni da D’Annunzio).

Montale è inoltre mediatore d’immagini derivanti da un altro grande poeta della nostra tradizione: Dante. Un esempio fra tutti può essere chiarificatore: la lirica Inverno presenta un paesaggio ghiacciato che riecheggia Arsenio di Montale. La donna che saluta il poeta «di sotto un lago di calma», mentre essa viaggia verso un luogo dove «le montagne nel ghiaccio s’inazzurrano», ricorda la «ghiacciata moltitudine di morti» montaliana, ma è memore del più lontano Inf. XXXIII. Inoltre, la “frontiera” ha, in molte poesie, caratteristiche comuni al paesaggio di Dite, città infernale cui approda il fiorentino nel suo pellegrinaggio (si veda, ad esempio, la vicinanza tra Inf. III, «Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle / facevano un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira», e Strada di Zenna, «vedi sulla spiaggia abbandonata / turbinare la rena»). Tuttavia, pur essendo presenti immagini sicuramente dantesche, il versante “petrarchesco” è quello più apprezzato nella discussione critica sulla lingua di Sereni. Lo stesso Dante Isella indicava, in Sereni, una dimensione “petrarchesca” nella attenta selezione e limitata escursione del vocabolario e nella presenza di un tono medio, difficilmente propenso a esplosioni espressioniste e a termini esasperatamente aulici. Dice Ciccuto: «Non è estraneo a Sereni il gusto della parola rara, dello stilema ricercato (e qui egli paga un altro debito verso Montale), dell’elemento aulico o arcaico (un po’ alla maniera di Saba), ma insomma lo stile generale aspira sempre al tono medio e discorsivo e in questo senso raggiunge una notevole originalità espressiva»[6]. Petrarca è ricordato, di fatto, per un certo “uso” della lingua, più che per una vera e propria trama di citazioni e occorrenze comuni. Le riprese petrarchesche sono saltuarie, e di solito “atmosferiche” (endecasillabi perfetti come «il tardo immaginare che mi svia» di Ritorno).

Sulla linea “petrarchesca”, che raggiunge Sereni anche per la mediazione degli ermetici, tesi alla rarefazione del vocabolario, s’inserisce l’esperienza leopardiana. Particolarmente affini al luinese e al recanatese sono l’attenzione al paesaggio, dove gli elementi naturali fanno da espressione concreta dell’elemento psicologico, insieme all’indicazione stagionale; la forma dell’”idillio” in versi settenari ed endecasillabi; la mite disperazione per lo scorrere della giovinezza. Specialmente la reminiscenza di A Silvia influenza molti loca di Frontiera (si veda, ad esempio, l’incipit di Immagine). Sereni è solito comporre “frammenti”. Le poesie sono in genere brevi, e composte di poche strofe. I versi sono franti, perlopiù imparisillabi, e uniti non di rado da enjambement o da iperbati. Il termine “frammento” dà, però, l’idea di incompiuto, non finito. Così, è forse preferibile parlare di “idilli” (e, in buona parte, di “idilli brevi”), prendendo a prestito un termine leopardiano. Nell’illustrarci le connessioni strofiche che legano le poesie di Sereni, Frasca spiega che:

il passaggio da una strofa all’altra, per quanto mascherato in varie congiunzioni o indicatori di conseguenzialità posticce, risulta sintatticamente e logicamente arbitrario, nel senso letterale di essere affidato all’arbitrio del poeta, unico a conoscere le sottili connessioni esistenti fra, ad esempio, un paesaggismo rarefatto e stilizzato (ancor più, per intenderci, di quello degli Idilli leopardiani) e il pensiero che viene su ad incarnarlo, ritrovandoci il nòcciolo del senso. Queste connessioni, dunque, appaiono reperibili dal solo poeta, costantemente in ascolto, dunque irrigidito nell’atto di percepire dal reale elementi altrimenti (cioè fuori del suo intervento) ignoti[7].

Le forme metriche preferenziali in Sereni sono quelle imparisillabe, con una particolare predilezione per l’endecasillabo. I versi di misura inferiore scendono raramente sotto il settenario, ma non mancano senari, quinari e ternari. Secondo l’opinione di Frasca, un impiego di misure così eterogenee costituisce «una rimessa in circolo del dettato pascoliano, cui però è stato sottratto il residuo isosillabismo in nome di un versoliberismo moderato (vale a dire comunque allestito secondo misure sillabiche per lo più della tradizione, sia pure nell’ibrido, più sciolto rispetto a quello pascoliano, parimparisillabico), nel quale tuttavia si assiste alla consueta coazione all’endecasillabo»[8]. È raro pure incontrare misure eccedenti l’endecasillabo: citiamo, ad esempio, l’alessandrino in posizione incipitaria di Piazza, «Assorto nell’ombra che approssima e fa vana». L’endecasillabo è però trattato da Sereni con grande flessibilità, sia negli spostamenti degli accenti secondari (a maiore, a minore), sia nella quantità delle sillabe, con esiti frequentemente ipometri o ipermetri. Non sono rare le poesie che hanno un incipit e un explicit in endecasillabo, quasi a chiudere il frammento poetico in una struttura ad anello. Nisticò, analizzando l’impiego sereniano di questo metro, individua in esso una ripresa della tradizione. A questa, ricordiamo, fa da contraltare un linguaggio moderatamente denotativo, dal quale si originerà un lessico pienamente realista: « L’uso dell’endecasillabo procura anzitutto – lo abbiamo visto con i richiami all’Infinito leopardiano – un effetto di allusione alla tradizione. Esso è infatti il metro classico, standard, della tradizione lirica italiana, petrarchesca e leopardiana in primis. […]»[9].

______________

[1] P. V. Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica, in Id., La tradizione del novecento. Terza serie, Einaudi, Torino, 1991, p. 144.
[2] G. Mazzoni, Le prime raccolte di Sereni, in “Annali della Scuola Normale di Pisa”, s. iii, XXV/1-2, 1995, p. 486.
[3] L. Tomasin, Una costante sereniana, in “Lingua e Stile”, XL, dicembre 2005, p. 240.
[4] G. Debenedetti, Italiani del Novecento, Giunti, Firenze, 1994, p. 244.
[5] G. Luzzi, Figurazione e defigurazione in “Frontiera”, in D. Isella (a cura di), Per Vittorio Sereni, Luino, 25-26 maggio 1991, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1992, pp. 88-89
[6] M. Ciccuto, Sereni, “Corrente” e il pensiero materiato in immagini, Fabrizio Serra editore, Pisa-Roma, 2009, p. 20.
[7] G. Frasca, Il luogo della voce, in D. Isella (a cura di), Per Vittorio Sereni, p. 22.
[8] Ivi, p. 21.
[9] R. Nisticò, Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa, Piero Manni, Lecce, 1998, p. 36.

_________________________

DanieleCiacci*Daniele Ciacci nasce il 22 agosto 1987 ad Urbino, ma da sempre vive a Milano dove, nel settembre 2011, si laurea in Lettere Moderne all’Università Cattolica di Milano con un’edizione critica e commentata di Frontiera di Vittorio Sereni. Intanto, ha collaborato con le riviste Cenobio, Poesia e Clandestino e ha pubblicato un saggio per l’editrice Puntoacapo sulla lingua de Il Male Minore di Luciano Erba. Una breve raccolta di poesie, Ogni nota di blu, è stata data alle stampe dall’editrice Alla chiara fonte di Mauro Valsangiacomo. Attualmente scrive per il sito <lanuovabq.it>, collabora con Tempi ed è autore di testi e libri per l’infanzia. Dall’ottobre 2012 ha iniziato un dottorato all’Università di Friburgo, seguito dal prof. Uberto Motta, sviluppando una ricerca comparativa sulla lingua poetica italiana nella seconda metà degli anni Sessanta.



Profane commedie. La quarta dimensione tra scienza e arte

$
0
0

di Luigi Zuccaro*

Florenskij e Bulgakov, 1917

Florenskij e Bulgakov, 1917

Perché, secondo l’opinione mia, a chi vuole una cosa ritrovare, bisogna adoperar la fantasia. E se tu non puoi ire a dirittura, mill’altre vie ti posson aiutare.  –Galileo Galilei, “Contro il portar la toga”

1. Introduzione. Anche la letteratura ha una sua unità di tempo, spazio e azione, come ci insegnava  Aristotele; questa unità, nell’età contemporanea si rifrange in un multiverso e cioè in molteplici piani narrativi, in più dimensioni. Dimensioni non solo figurate, sono dei veri e propri cronotopi si direbbe con Michael Bachtin, sono dimensioni nello spazio e nel tempo ulteriori rispetto a quelle convenzionali. Arte, estetica e letteratura sono qui tenute in conto con un aspetto prettamente matematico e relazionale, tipico della scienza contemporanea. Dai racconti di Hinton, sino ad Abbot, i futuristi russi e Michael Bulgakov, tutti sviluppano il plot, l’intreccio narrativo, l’epos, tenendo conto della costituzione molteplice dell’universo e, dunque, di molteplici piani e livelli di realtà sia essa spazio-temporale sia essa simbolica. Dietro queste espressioni si cela una nuova antropodicea, un far questione sull’uomo e la sua collocazione nel cosmo, che può far pensare unicamente a delle “profane commedie”, dei viaggi nel mondo degli astri, o dell’immaginazione matematica, in cui ne va dell’eskhaton dell’uomo, del suo destino e della propria collocazione in un mondo plurale, un caleidoscopio di forme e colori, frattale nel tempo-spazio o, per usare un’espressione di Lotman, nella semiosfera.

2. Un mondo in quattro dimensioniTra lo scorcio di fine XIX secolo e di inizio XX secolo la riflessione sulla quarta dimensione è divenuta un tema di scottante attualità che ha travalicato i confini della geometria per giungere dalla fisica-matematica, alla filosofia, alla letteratura e all’arte. Si usciva definitivamente dal paradigma della meccanica retto dai cosiddetti gruppi di Galileo. Già dal 1908 i modelli di coni di luce di Hermann Minkowski precorsero le analisi di Einstein e di Hermann Weyl[1] sui rapporti tra spazio, tempo e materia e consentirono di comprendere spazio e tempo non più assoluti, come nella concezione newtoniana, ma in relazione. Artisti, filosofi e letterati al corrente delle rivoluzioni scientifiche del secolo lungo, si cimentarono nell’opera di una rivoluzione linguistica volta a cristallizzare una quarta dimensione nella prosa, nella poesia, nella pittura e talvolta nella scultura. Se nelle scienze si assiste ad un influsso della fisica sperimentale su quella teorica, spazio e tempo d’ora in poi saranno considerati come uniti, nell’arte vi è un chiasmo con la scienza che pone difronte ad un oltrepassamento della soglia dell’umano, si giunge ad una concezione, non già suprematista, di artista come Ubersmench, dal momento che questi oltrepassa le visioni canoniche sul mondo e giunge ad una sintesi ulteriore di cultura e natura che estenda la conoscenza umana. Aperto dinamico e relativo a confronto con uno spazio tridimensionale, lineare, chiuso, statico e gerarchico, codificato nelle sue implicazioni artistiche dal Rinascimento (con la prospettiva lineare, il punto di fuga, l’orizzonte, le coordinate) ed arrivato quasi inalterato fino alle soglie del XX secolo. In rapida successione si assisteva all’emergere di nuovi paradigmi anche in merito al rapporto tra località e globalità, che portarono a nuove e inaspettate analogie tra i problemi della microfisica e quelli della cosmologia. Su questo fronte i dilemmi dell’esistenza umana vengono trasposti in universi patafisici[2], entro cui si ripropone la tematica del viaggio in altri mondi che è stata emblematicamente espressa nella Divina Commedia, ritorna nel romanzo e nella poetica fantascientifica o metastorica di fine Ottocento e inizio Novecento. La categoria di cronotopo, impiegata da Michael Bachtin, mutuata dalla fisica dello spazio-tempo, risulta utile a comprendere non più secondo la lezione aristotelica “l’unità, di tempo, luogo, azione” si apre con la fine dell’Ottocento un multiverso[3] e l’uomo, un tempo compreso come materia signata, secondo le categorie tomiste, cessa di essere “uomo ad una dimensione”.

3. Oltre Riemann, la matematica dello spazio e del tempo a fine Ottocento. La scienza di fine Ottocento, con i suoi progressi nell’algebra, dovuti prevalentemente alle figure di Hermann Grassmann e al lavoro precedente di Hamilton, portò ad ulteriori progressi nella teoria fisica. Si comprese come ogni corpo dovesse avere un’estensione in quattro dimensioni quali lunghezza, larghezza, profondità e durata.  Le prime tre pertengono allo spazio e la quarta al tempo, almeno in un contesto pre-relativista come questo[4]. I geometri si sono interessati allo spazio multi-dimensionale almeno dal lavoro di Georg Riemann, lavoro pubblicato nel 1857. Il concetto di geometria multidimensionale era presente anche in Hermann von Helmoltz, celebre fisico e fisiologo tedesco, il quale diede un’interpretazione empirista della Critica della Ragion Pura, ma tal corso di idee era vivo in alcuni matematici tra i più rilevanti dell’epoca quali ad esempio l’algebrista Arthur Cayley e Felix Klein. Tali autori hanno preparato il terreno fecondo su cui è attecchita la teoria dello spazio-tempo di Hermann Minkowski. Già Jean Rond d’Alambert e Joeseph Louis Lagrange, nel contesto della meccanica, avanzarono la possibilità di elaborare una quarta dimensione, peraltro anche Immanuel Kant, su un fronte prettamente teoretico avanzò la medesima ipotesi. Per quanto concerne le teorie di campo è bene ricordare l’apporto e il contributo specifico di Grassmann[5] ed Hamilton. Come lo stesso matematico tedesco affermava essa era un metodo per condurre la geometria a risultati fruttuosi, un metodo per risolvere diversi problemi di analisi e di meccanica, in cui vengono ad essere ripresi i fattori simbolici di Cauchy tradotti in quantità estensive. Grassmann sviluppò, in tal modo, un calcolo vettoriale sulla base delle concezioni di Arthur Cayley che definivano vettore di uno spazio a n dimensioni un sistema di n numeri reali o immaginari. Tale tipo di calcolo venne ripreso anche da Giuseppe Peano nel suo Calcolo geometrico, opera del 1888. Successivamente tale tipo di analisi dello spazio, in conformità con un rinnovato approccio vettoriale, influenzò anche Henrì Poincaré e Cartan[6]. La geometria, in tal senso, è un’applicazione della teoria delle forme alle intuizioni fondamentali dello spazio, ed è in virtù dell’impiego di una dialettica tra reale e formale che, a livello geometrico, il continuo può essere compreso come discreto e il discreto come continuo sulla base della dialettica uguale e distinto.

4. Da Grassmann ad Hamilton. Il nucleo teorico del calcolo dell’estensione e dei quaternioni[7], è la cosiddetta moltiplicazione polare con proprietà opposte alla moltiplicazione commutativa e scalare, infatti vale ab = -ba; dal momento che un prodotto binario è una lunghezza misurata sulla linea avente come estremi i due punti, mentre un prodotto ternario è l’area misurata e compresa tra i tre punti.  Nelll’Ausdehnungslehre una linea è vista come prodotto di due estremi, tali parti sono da considerarsi parti simili, mentre nei quaternioni[8] l’operazione di qp= Σ  in cui p e Σ  sono vettori, il quaternione q è un’operazione che converte il vettore p in Σ. Maxwell[9] è stato uno dei primi fisici ad introdurre il concetto di quarta dimensione, il suo lavoro sulla teoria elettromagnetica, ora considerato come il più importante sviluppo nella fisica del diciannovesimo secolo, ha ricevuto non molta attenzione nell’immediato.  Il dibattito dell’epoca si era concentrato sulla natura della forza gravitazionale, e sulla forza ad azione a distanza, in cui si comprendeva ancora l’etere come il medium di tali forze.

Poincare, Disco Iperbolico

Poincare, Disco Iperbolico

5. Dal gruppo di Poincaré alla metrica di Hermann Minkowski. L’interesse di Poincaré per questo genere di tematiche, concernenti spazio e tempo in relazione, si profilò grazie ad una circostanza curiosa,  non già per via di uno specifico interesse teoretico, difatti, studiò presso il Bouerau[10] la via per sincronizzare i fusi orari internazionali, riferendosi ad uno spazio assoluto. Tale spazio assoluto rimandava ancora alla nozione di etere. Lorentz nel frattempo studiò il cosiddetto tempo proprio, a partire nell’ambito delle riconsiderazioni a proposito degli esperimenti falliti circa la misurazione del moto dell’etere, difronte all’impossibilità di determinare la simultaneità, riprendendo l’aspetto a lui caro del convenzionalismo delle teorie, la stabilì per sola via ipotetica, siamo nel 1898. Poincaré, giunse quindi a comprendere come dovesse essere postulata la velocità della luce come costante per poter avere, per usare un’espressione cara ad Ernst Mach, una semplicità teorica. In due quaderni del 1900, Poincaré trattò del “moto relativo” questione di primo livello nell’ambito della meccanica galileiana e fondamento del gruppo di Galileo.  Quattro anni dopo elaborò un principio di relatività, per cui nell’ambito della meccanica o dell’elettromagnetismo non si può distinguere tra uno stato uniforme o di quiete. Nel 1905 Poincaré confrontandosi con Lorentz affrontava il problema del fattore di dilatazione temporale, Poincaré si poneva sul crinale di una vera e propria rottura epistemologica, lavorò affinché le trasformazioni di Lorentz divenissero un gruppo, per farlo, formulò quella che è oggi nota come legge di composizione della velocità relativistica. Il punto essenziale, stabilito da Lorentz, è che le equazioni del campo elettromagnetico non vengono alterate da una certa trasformazione che Poincaré affermò fosse un’invariante.  Il matematico francese comprese come la trasformazione di Lorentz fosse effettivamente una rotazione nello spazio quadridimensionale attorno all’origine mediante il ricorso ad una coordinata immaginaria, e inizialmente formulò questa geometria con un quadivettore. Il tentativo di Poincaré di riformulare la meccanica nello spazio quadrimensionale fu rifiutato da lui stesso nel 1907, perché riteneva che la traduzione della fisica nel linguaggio della metrica quadrimensionale richiedesse troppo sforzo per un beneficio esiguo. Hermann Minkowski riprese questo modello nel 1908, rappresentandolo mediante i cosiddetti “coni di luce” che consentono di comprendere i sistemi di riferimento inerziale.

6. Verso il quadridimensionalismo come luogo letterarioIl mondo tridimensionale, l’universo rappresentato dallo spazio affine che interseca i coni di luce di Minkowski è un eterno presente. Un eterno presente che anche nell’induismo è stato ricompreso soprattutto in riferimento al cosiddetto samsara, l’oceano dell’esistenza. Questo concetto compare nelle Upanisad vediche e fa riferimento ad una ruota, che simboleggia il ciclo delle esistenze, su cui ritornò la riflessione sulla quarta dimensione di Ouspenskij come si vedrà di seguito.

7. Dai cubi di Charles Hinton a BorgesIn A New Era of Thought Hinton, del 1888, Hinton, affermava che, quando si incontra l’infinito in ogni forma del nostro pensiero, l’infinito sia parte di una realtà superiore, un ordine altro. Per Hinton, che pure da Kant muoveva, gli esseri umani porterebbero al proprio interno le condizioni della percezione dello spazio ciò significa che anche la quarta dimensione potrebbe essere radicata nella nostra costituzione trascendentale e occorre trovare un metodo, una via per renderla perspicua. Il termine tesseracto, riferito alla realtà spaziale in cui vive l’uomo, un ipercubo, è stato coniato in A New Era of Thought. Mentre, nel saggio Casting out of the self, del 1904, Hinton inventò dei termini per descrivere le direzioni quadridimensionali che nel suo sistema di cubi colorati costituivano dei punti di riferimento in una estetica della quarta dimensione. Hinton viene citato da Borges che scrisse peraltro una prefazione ai suoi racconti scientifici, anche in Tlon Uqbar Orbis Tertius ed è riconosciuto dallo scrittore argentino come un ispiratore. Ne  El milagro secreto Borges, evidenzia la storia delle diverse concezioni del tempo da quella parmenidea per giungere al passato alterabile di Hilton, argomentando con Francis Bradley, il neohegeliano inglese, autore di Appearence and Reality, Borges fa di Hilton un precursore della metafisica dell’irrealtà del tempo, dal momento che non esisterebbero serie temporali e basta anche una sola ripetizione di esperienze nell’uomo e questo basta ad inficiare l’argomento della irreversibilità del tempo o quanto meno della sua illusorietà compresa in tal modo da Ibn Arabi che influì pure su Dante.

8. Quarta dimensione e occultismoOuspenskij matematico che finì ben presto per occuparsi di interessi alquanto esotici è stato l’interprete russo più importante del pensiero di Hinton, difatti, il suo influsso sulle avanguardie russe appare innegabile ed ha condizionato la stessa estetica futurista, in un milieu che coede fantasie magiche con il portato della scienza. Vicino alla teosofia e alla visione discutibile di Gurdjeff dei rapporti tra microcosmo e macrocosmo, Ouspenskij con l’opera Tertium Organum, prospetta una nuova era dell’umanità che superi definitivamente l’impostazione aristotelica e baconiana, per giungere ad una logica dell’et-et, una logica inclusiva e non dell’aut-aut, che permetta di integrare le scienze della natura con quelle dello spirito, proprio grazie al ruolo della quarta dimensione.

9. Arte di confine. Verso la fine dell’Ottocento si possono collocare i natali della tendenza futurista, una sorta di luddismo artistico in grado di scardinare la tradizionale metafisica della rappresentazione Vorstellung, e di mostrare come il tempo per dirla con Aristotele, sia immagine, mobile dell’eternità. Il cubismo è la tendenza artistica più pregnante su questo fronte, una corrente in grado di rappresentare sul supporto del quadro lo stratificarsi dell’immagine nel tempo e lungo vari assi e dimensioni, il supporto bidimensionale attraverso dei giochi di ombra e tra le polarità cromatiche rappresenta un fotogramma del moto nelle quattro dimensioni, un esempio emblematico è il dipinto di Pablo Picasso, il Ritratto di Ambroise Voillard.

Picasso, Ambroise Vollard, 1915

Picasso, Ambroise Vollard, 1915

In questo dipinto come pure nella scultura è manifesto il Welt-Geist, l’immagine si rifrange, si stratifica, essendo modello di una “cosa” di un’altra dimensione, essendo l’immagine cinematica e non più statica, un je ne se quoi in movimento, in divenire. J. Metzinger, ben al corrente, peraltro dei progressi e dei risultati a cui pervenne Poincaré, nel manifesto Du cubisme del 1912, affermava che se si dovesse fare riferimento alla geometria dei cubisti occorrerebbe prendere in considerazione gli scienziati non euclidei e meditare alcuni teoremi di Bernard Riemann.

10. L’avanguardia russaChlebnikov può essere considerato uno dei più emblematici simbolisti russi, il suo influsso è vivo in Majakovskij, Pasternak, è viva in lui la tematica della Russia intesa come grosse raum, come spazio immenso, come Eurasia, e questa magica asiacità, quest’esotismo di cui trasuda la propria poesia si sposa con i suoi studi matematici. Il nomadismo, le peregrinazioni nell’immenso territorio russo assieme alla sua esistenza da criptorivoluzionario, fanno di lui un poeta che anche nella sua esistenza ha incarnato quanto da lui professato ed espresso nel linguaggio onirico della sua poesia. Chlebnikov riprese le teorie di Lobacevskij ed è emblematico che il poema omonimo, dedicato al rivoluzionario Razin, ponga in corrispondenza la sua ricerca linguistica con lo spirito rivoluzionario di quest’ultimo con la rivoluzione matematica di Lobacevskij. Il nomadismo è una delle caratteristiche della sua poesia, attraversata da una iterazione erratica di figure e immagini che si dispongono con la frammentarietà e il disordine dei disegni infantili e della prospettiva cubista. Tra questi nuclei semantici ricorrenti, unici elementi di coesione in una lirica disarticolata, uno dei più suggestivi propone immagini di civiltà arcaiche, spaccati di epoche remotamente maestose, che Chlebnikov contrappone al trambusto meccanico della civiltà moderna. La lingua di un popolo può essere equiparata alla geometria di Euclide, la sua opera vuole sperimentare vie alternative per rendere la lingua del popolo russo in grado di rappresentare la metrica di Lobacevskij. Lo stesso Michael Bulgakov, se pur distante dal futurismo, risente di questo tipo di riflessione sullo spirito geometrico, anche la sua celebrata opera allegorica Il maestro e Margherita, contiene delle parti che sicuramente riecheggiano questo dibattito, more geometrico. Il romanzo si apre infatti con una disputa su Kant fra Berlioz, Bezdomnyj e lo straniero, nel corso della quale sono messe in ridicolo le disquisizioni kantiane sull’argomento delle dimostrazioni di Dio, che “possono soddisfare solo degli schiavi”.

11. Una macchina del tempo tra science fiction e apocalissiFlorovskij riflettendo sulla teologia di Vladimir Solov’ëv, affermava che stesse arrivando il tempo apocalittico, mai espressione più felice per celebrare anche un nuovo tipo di scrittura, sul fronte dello stile e delle tematiche, non solo nella teologia russa, ma nelle stesse avanguardie. H. G. Wells si ispirò alle implicazioni della matematica di Bernard Riemann per giungere a comprendere la realtà di una quarta dimensione che consentisse di viaggiare nel tempo, così come si viaggia nello spazio. Un racconto per alcuni versi profetico, come diversi altri di Wells, ma a tratti apocalittico, pretesto per mettere in luce la possibile estinzione del genere umano. Il tempo interpretato come quarta dimensione è presente anche nella letteratura russa anche in un romanzo che apparentemente sembra lontano dal quadridimensionalismo tipico dell’avanguardia futurista Il maestro e Margherita. Berlioz afferma di essere stato a pranzo anche con Kant, una sorta di messaggio subliminale questo, un riferimento non casuale, a questi, difatti, si deve la rivoluzione copernicana della percezione e della conoscenza, egli è visto da Ouspensky come antesignano di Gauss e Lobacevkij. Per Charles Hinton, matematico e personaggio a tratti discutibile, in odore di pseudoscienza le leggi del nostro universo sarebbero le tensioni di superfici in un’altra dimensione, come in un liquido, queste tensioni spiegano il comportamento globale e fluido della materia corpuscolare in un quadro ondulatorio. Ed è lo stesso incrocio di realtà appartenenti ad ordini diversi si osserva nel plot narrativo de Il maestro e Margherita difatti, gli eventi passati di Gerusalemme vengono espressi con una descrizione realistica, mentre gli eventi presenti, nella narrazione subiscono uno straniamento fantastico. Nell’opera di Bulgakov confluiscono le due concezioni del tempo fisico e metafisico, nella scena del gran ballo  che accade tra quarta e quinta dimensione. A questo ballo, patrocinato da Berlioz, viaggiatore nel tempo e nello spazio, partecipano invitati di epoche storiche diverse. La quotidianità è rappresentata con un ricorso alla terza dimensione.

12. L’amore al tempo… dei triangoliFlatlandia dell’abate E. A. Abbot è un romanzo, a suo modo, esistenzialista, e ha come sottotitolo, racconto fantastico a più dimensioni. Un quadrato è il protagonista del romanzo, ambientato appunto a flatlandia un universo piatto a due dimensioni, giunge a rompere la monotonia una sfera che rappresenta l’ingresso della terza dimensione, venuta a propagandare il verbo della terza dimensione, il che appare al quadrato inammissibile. Oltre ad essere un romanzo a tratti satirico a tratti pedagogico, Abbot, partendo dalle ricerche di Riemann e ispirandosi a Charles Hinton, giunge ad ammettere dimensioni superiori alla terza. Flatlandia è un’opera di fantasia, ma la facoltà dell’immaginazione è stata impiegata anche da Henrì Poincaré che si propose di studiare le invarianze topologiche a più dimensioni con il ricorso al concetto di varietà il primitivo la 3 sfera e le varietà sono in uno spazio quadridimensionale. Ogni varietà è studiata in rapporto con la n-sfera di dimensione corrispondente,  la proprietà di contraibilità permette di studiare una sfera bidimensionale, tramite la contrazione di un cappio fino ad un punto sulla sfera, la cosiddetta congettura di Poincaré, difatti, è un’ipotesi. La caratteristica di Eulero-Poincarè è pari alla somma algebrica degli ordini di singolarità dei punti che servono a reticolare una superficie chiusa. Per reticolare una superficie si usano dei quadrati, per un oggetto tridimensionale si usano dei cubi. Generalizzando ad n dimensioni, si utilizzano degli ipercubi.

13. L’estetica di Pavel FlorenskijPavel Florenskij La colonna e il fondamento della verità, Lettera sesta, la contraddizione. Il tribolo è uno strumento di ferro con quattro punte detto anche piede di corvo, che ha la capacità di restare sempre in piedi. I triboli venivano sparsi sul terreno per ostacolare l’ avanzata dei nemici. Per il pensatore russo il tribolo è immagine della verità, che è sempre antinomica: una congiunzione di contrari, non però simmetrici, per cui “una punta è sempre rivolta all’insù”  Florenskij, ne La prospettiva rovesciata, fa riferimento al valore quadridimensionale dell’icona, come immagine, figura, del tempo-spazio, dell’icona trattata come evento e discontinuità nella continua processione di forme. Diversamente dunque, da Le porte regali, quest’opera pone in luce l’aspetto “fisico” delle icone, comprese non solo come ponte per una dimensione altra, ulteriore, ma come increspatura e forma saliente che emerge dalla natura con la sua continuità di forme e di apparenze. Le icone, comprendono il tempo sub spaecie aeternitatis, ed alludono ad un eterno presente, ad un tempo in cui le distinzioni tra passato, presente e futuro, sono inconsistenti, questo è il tempo della spiritualità, ma anche di un Universo, compreso come relazione come quello che Florenskij afferma sia quello einsteiniano.

Bibliografia essenziale

Edwin Abbott Flatlandia: storia fantastica a più dimensioni, ed. it  Adelphi
L. Boi, D. Flament, J. M. Salanskis 1830-1930 : A century of geometry : epistemology, history and mathematics  Berlin  Springer,
Pavel Florenskij La prospettiva rovesciata ed. it. Adelphi
Ettore Lo Gatto, Storia della letteratura russa  ed. – Firenze : Sansoni
Peter Galison, Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo ed. it. Raffaello Cortina Milano
Pëtr Demianovič Ouspensky Tertium Organum, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma
Rudy Rucker, La quarta dimensione Milano, Adelphi,
Elemire Zolla Uscite dal mondo ed it Adelphi Milano


[1] Secondo Hermann Weyl, il principio di calcolo tensoriale, su cui si radica la teoria fisica dei quaternioni. inerisce alla conservazione dell’energia, comprende come l’azione totale che è la somma delle cariche in azione all’interno di un campo, sommate alla azione della sostanza della massa per ogni variazione arbitraria del campo e lo spazio-tempo (ricompreso nel decorrere delle linee di tempo di ogni punto della sostanza)  non siano soggette a cambiamento.
[2] Per usare l’espressione di Alfred Jarry
[3] Il fenomeno dell’interdiscorsività è un fenomeno molto importante che è stato studiato, proprio, da Bachtin. Quando due culture sono in stretto contatto, i vocaboli, le idee, i pensieri, i concetti di una cultura passano ovviamente all’altra e quindi non si riesce più a trovare la fonte diretta, perché quando un’espressione comincia a circolare non si sa più chi l’abbia creata o chi l’abbia messa in circolo.
[4] La celebre opera di H.G. Wells The Time Machine  è un racconto fantascientifico memore di questa impostazione ed è scritto prima della trattazione minkowskiana dello spazio-tempo.
[5] La teoria dell’estensione di Grassmann è una branca della matematica qualitativa, una teoria generale delle forme.
[6] Un’ulteriore attestazione del valore di questo tipo di calcolo, la si reperisce nelle parole di Hermann Weyl in Filosofia della matematica e delle scienze naturali, laddove si afferma che il migliore approccio del suo tempo alla geometria analitica sia quello derivante dalla teoria dell’estensione di Grassmann. Le forme di cui tratta l’Ausdehnungslehre sono forme geometriche primitive che andrebbero a comporre quella che Leibniz, nell’Analysis Situs, denomina caratteristica geometrica che afferisce alla characteristica universalis.
[7] I quaternioni di Hamilton, invece, sono comprensibili come rotazioni, tensori, nel dominio dei numeri complessi. I tensori sono dei vettori che operano in maniera tale per cui direzione e grandezza sono cambiati, il tensore è un’operazione di secondo grado, su dei vettori, dunque un operatore di un operatore. Si tratta di operatori di un livello più alto, il prodotto non ha proprietà commutativa. Da qui nacquero le algebre non commutative e la teoria delle matrici impiegatissima in fisica, per esempio in meccanica quantistica laddove, oggi, si tratta delle matrici di spin di Pauli e Dirac, mediante tali matrici si rappresentano i momenti angolari.
[8] Secondo Clifford vi è tuttavia una distinzione netta tra Ausdehnungslehre, ovvero il calcolo dell’estensione di Hermann Grassmann e i quaternioni di Hamilton. Questo tipo di studi, con Gibbs, ebbe anche un influsso sulla teoria fisica, questi lavorò sullo spazio n-dimensionale mediante la meccanica statistica e pubblicò  delle sue note: Multiple Algebra for Dynamics.
[9] Maxwell ha distinto i due tipi di vettori in forza e flusso, i quali sono funzioni lineari delle unità e dei prodotti lineari. Inoltre l’etere ebbe un suo impiego immediato nella teoria della luce e nell’elettromagnetismo.
[10] Peter Galison, Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo ed. it. Raffaello Cortina, Milano, 2004.
___________________________________________
CIMG0219*Luigi Zuccaro nasce nel 1984 a Cantù, si laurea in filosofia della scienza nel 2009 con una tesi dal titolo “Ontologia ed epistemologia del processo a partire da C. S. Peirce e A. N. Whitehead. Si interessa ai rapporti tra scienze umane ed epistemologia della complessità

Il viaggio e la clessidra. La poesia di Giancarlo Majorino

$
0
0

di Elisabetta Cerigioni*

Orologio Astronomico Borghesi

Orologio Astronomico Borghesi

L’orologio di Majorino, quello che scatta e inarrestabile gira nelle pagine di Viaggio nella presenza del tempo, sembrava essersi fermato con la pubblicazione del poema nel 2008 (Milano, Mondadori) che, in qualche modo, ne assicurava il punto di arrivo. Di conseguenza, anche il viaggio attraverso le linee temporali che compongono la rete segreta dell’opera si credeva concluso; tuttavia già a due anni di distanza usciva il pamphlet dal titolo La dittatura dell’Ignoranza che nel recupero di motivi e nuclei di significato propri del poema indicava in maniera tutta scoperta la continuità con esso. Ugualmente si è avuta l’impressione di una ulteriore estensione di quel Viaggio, quando qualche mese fa, nel novembre 2012, l’autore e critico di Milano ha presentato quel libro che raddoppia ed eleva alla potenza l’idea di un attraversamento, ovvero Viaggio nel viaggio. (Anche per chi nel frattempo si fosse perso) [Milano, La vita felice, scritto con Barbara Pietroni], scorta preziosa per chi intende addentrarsi nel poema e bussola favorevole per chi si fosse smarrito là dentro, in quella selva-mondo e in quel «Paradiso nervoso» collocato in un indefinito futuro verso il quale tutto il poema è proteso. Dunque il tempo, vera e propria, nonché seducente ossessione per l’autore, non si è fissato entro i confini della prima opera: Majorino ha di nuovo scelto, per la terza volta – o quarta, a voler considerare l’antefatto del Prossimamente (Milano, Mondadori, 2004) -, di girare la clessidra. Ciò che è certo è che il Viaggio, affollatissimo, straripante quasi nei motivi, nei possibili modelli, ma anche nel numero dei personaggi, nonché nelle potenzialità di poesia e del linguaggio, e fuori misura poi nelle oltre quattrocento pagine, resta la storia di una giornata lunga quasi quarant’anni, perché quest’ultimo è il tempo grande impiegato dall’autore per la redazione del poema nel quale tuttavia ciò che si racconta, vale a dire l’avventura di un folto gruppo di persone, direbbe l’autore di «similidissimili» e di «singoli di molti», accade, alla maniera di Joyce, in un’unica, sospesa e ugualmente gremita, giornata qualunque. Ed è in quest’unica giornata che risiedono le diverse coordinate cronologiche del poema, perché la macchina del Viaggio si edifica prima di tutto su di una fitta rete di vettori temporali che si inseguono, ma si affiancano anche e si sovrappongono in una insistente, scardinata geometria di tangenze e perpendicolarità. Ad esempio la compresenza di più tracciati del tempo si fa vedere in quei versi nei quali Majorino scrive:

ormai sono anni, sono mesi che scrivo questa roba, intensità pura
Come mai m’era successo, credo di non sbagliarmi
Quasi mi sentissi alla vigilia di non so che cosa …
Io nella mia doppia vita che qui si unisce, scrivere vivere.

Dove la congiunzione di linee cronologiche coinvolge il tracciato di un tempo privato e insieme quello relativo al tempo della scrittura. L’origine dell’opera è così quella di un vasto sentimento del tempo che lascia in eredità al testo una matassa di linee cronologiche il cui rebus può essere spiegato solo ricostruendo, con l’ausilio di tracce e indizi disseminati dall’autore, le differenti linee temporali: quella autobiografica; poi un secondo vettore che promuove e accompagna la scrittura, nonché la costruzione del poema; quindi una terza cronologia che fa capo alla dimensione storica e sociale d’Italia; infine, il crono della finzione narrativa, relativo alla vicenda dei personaggi. In questa compresenza di ipotesi cronologiche si intravede una certa ottica esplosa di sapore cubista in grado di cogliere allora, contemporaneamente, più dimensioni, secondo una prospettiva insieme interna ed esterna al poema. E Majorino è davvero all’interno del suo mondo-poema, lo abita in quelle personalità riflessive del sé che sono i suoi alter-ego nell’opera, nella quale un’ulteriore folla di caratteri poi, un vero e proprio carnevale di comparse svolge la funzione corale e riempitiva di una scena e di una pagina allestite a teatro. A tutto questo si aggiunge l’estrema libertà del gesto poetico di Majorino, il quale continuamente mette alla prova il materiale linguistico: ecco infatti tutto quel campionario di spaziature, rime, versi e «rigo-versi», o ancora deformazioni e neologismi che pervadono lo spazio del Viaggio, insomma un vero e proprio tilt del significante che fa capo a quel «neostile» di cui parla l’autore, vale a dire quella «magnifica potenza della lingua che – afferma Majorino – ormai conosco a stramemoria». Si tratta di un’opera a tratti silente, ma che subito dopo deflagra nel tremendo vociare di una coralità quotidiana: in questo, Viaggio nella presenza del tempo è un libro che cambia continuamente, dove il «continua e cambia continua e cambia» è uno di quei motivi forti che sostengono l’epica majoriniana; così nel corso della lettura permane l’idea di una scrittura che scatena dal suo interno sempre nuove esplosioni, le quali finiscono per accrescerne la trama e che quasi quasi fanno pensare alle teorie fisiche e astronomiche dell’universo a bolle o a frattali; a strutture, dunque, potenzialmente infinite e illimitate nello spazio e nel tempo. Ma in questo potenziale sconfinato del reale, del gesto poetico e dello spazio poematico, l’autore non lascia mai che i suoi cinquanta personaggi finiscano alla deriva: al contrario, li trattiene e li tiene al sicuro nella sua opera-mondo, nella quale non vi è mai una vera e propria dispersione della materia. Piuttosto, ancora una volta, una grandiosa ed entusiasta manifestazione di libertà, perché infatti «la libertà del verso è dappertutto» e di entusiasmo è impossibile non parlare, quando si leggono versi e «rigo-versi» come ad esempio quelli che seguono:

Facciamo un libro insieme, nuovo, complessivo, due scale di lettura, e di tempo: tutto lui, coi testi compiuti o incompiuti, al loro posto, emergenti dai diari, dalle lettere, dal vissuto
Che idea!

mussolini personaggi similidissimili

Ma anche i personaggi, allo stesso modo del sistema linguistico e delle trame romanzesche, “sono stabili e fluttuano allo stesso tempo” e in loro risiedono il molteplice e l’astrazione, una componente di realtà e una seconda protesa verso l’altrove costituito dai territori della fantasia che sembrano manifestarsi solo per barlumi e filamenti; «muovermi nel tutto inventato – afferma l’autore – mi sembrerebbe troppo astratto. Ma non riuscirei a stare nel reale e basta». Sono due i personaggi che più di tutti gli altri restituiscono in immagine l’idea di questa duplice natura di realtà e fantasia del poema; si tratta di due «concetticona», un termine, ancora una volta di conio majoriniano, che si riferisce qui ai ruoli di Ariele e della Beatrice Nera, i quali in un’allusione tutta scoperta sono rispettivamente di matrice shakespeariana e dantesca. Ma la Beatrice di Majorino pur conservando il ruolo di salvatrice e di guida si fa vedere come creatura niente affatto celeste, bensì tutta terrena, corporea, per così dire materica; si tratta in effetti di una «strana Beatrice perché opera nell’Aldiquà non nell’Aldilà»:

faccia spinta in avanti la Bean
passa la soglia del bagno apre gli scuri
abbastanza contenta, parla, in un dì qualsiasi
cioè questo, entro il pianeta Terra

La «Dalia Nera» di Majorino risiede sì in un Paradiso, ma pur sempre un «Paradiso nervoso», assolutamente vero, entro cui questa Beatrice laica rimanda direttamente ai caratteri della poetica majoriniana, secondo  la quale dicibilità del mondo, di un universo che cambia attraverso moti ininterrotti, non può che tradurre una  visione immanente della realtà. Viceversa il personaggio aereo di Ariele è la figura più insolita del poema proprio perché dotato di una maggiore vaghezza e di un diverso grado di realtà: egli infatti possiede caratteristiche immaginose, basti pensare ad alcune delle formule con le quali Majorino lo definisce: «Ariele e o le sterminate distese della fantasia che lo compongono». E l’instancabile Ariele di Majorino fatto di infinita fantasia è proprio come l’Ariel di The Tempest e come quest’ultimo è il collaboratore infaticabile del personaggio principale (di Prospero come di tutti gli alter-ego majoriniani nel poema) ma anche aiuto regista dell’autore, di Shakespeare prima e Majorino poi.

Ariel, dalla Tempesta di ShakespeareA certificare la natura shakespeariana del personaggio esistono inoltre spie di carattere linguistico: ad esempio con l’autore inglese lo spirito dell’aria Ariel cavalca le «ricciute nuvole» (La Tempesta, I, 2) e similmente nei versi di Majorino Ariel diventa «orlo d’aria e ricci». La materia frammentata e mobilissima del Viaggio che è poi sempre e comunque quella della realtà, viene in ogni caso ricondotta ad un unicum di senso e per così dire all’ordine dalla dimensione vettoriale e cronologica del poema, quella di un tempo enorme e smisurato che sotto il segno di Proteo può assumere nell’opera valore di istante, ma anche di transito epocale, così che la voluminosa macchina del tempo di Majorino può spostarsi liberamente nel presente, nel passato, ma anche proiettarsi nel futuro. Il poema finisce per assumere l’aspetto di un vasto e complicatissimo dedalo percorribile lungo diverse, ma pur sempre esatte direzioni; un insolito labirinto quindi corredato da più accessi e uscite che conducono tutte, indistintamente, nella babele del tempo e della contemporaneità. Il libro incandescente di Majorino ripercorre la Storia del Paese dall’epoca fascista fino a quella proiezione futura che nel poema viene definita come «Paradiso nervoso» o, ancora, «utopia della felicità»; ma è alla contingenza che si offre ampio spazio, ovvero a questo tempo presente che disorienta gli individui. Proprio per questo quella del poema è la storia di un’era di avvelenati, di uomini intossicati da falsi modelli e sottomessi alla logica sempre uguale dei soprusi e degli strapoteri; è quella che Majorino ha voluto definire con il pamphlet «la dittatura dell’ignoranza» che rende gli uomini vuoti o, per dirla alla Eliot, degli «stuffed men». L’uomo di conseguenza, come un pupazzo impagliato, si trova imbottito solo di una dannosa cultura-segatura che tende al ribasso e sottostà all’unico imperante dominio che regge e governa ogni epoca, vale a dire quello del potere e del denaro. Eliot è sicuramente una delle molteplici letture che hanno preso residenza nell’opera di Majorino assieme a molte altre, tra le quali si lasciano cogliere i nomi di Kafka, Albert Speer, Pound, Hegel e ancora Dante e Shakespeare. È al drammaturgo inglese che più di tutti sembra guardare l’autore quando decide di raccontare il presente abitato da quegli Hollow men: «Non a caso Shak è intervenuto», scrive Majorino, accomunandolo al suo interprete per eccellenza, Jan Kott, ad offrire il necessario «soccorso magno» alla realtà del poema: la parola autorevole di Shakespeare e soprattutto la consequenzialità con cui si devono leggere le sue opere drammaturgiche, avvalorano la tesi majoriniana secondo cui la girandola della Storia si ripete costantemente, con le medesime peculiarità e con il medesimo funzionamento. Figure come Riccardo II, Enrico IV, ma anche Macbeth e Prospero, incarnano la tensione universale e, a questo punto, a-storica dell’uomo verso il sopruso ed il potere. La storia si ripete, dice Kott, proprio come nell’Enrico IV si ripetono le vicende dell’usurpazione già raccontate da Shakespeare nel Riccardo II ed è per questo che Giancarlo Majorino si serve dei drammi storici e delle commedie shakespeariane, perché attraversandoli riesce a spiegare come la dialettica denaro-potere sia da sempre la matrice dell’ordine (o meglio disordine) sociale. In Viaggio nella presenza del tempo infatti l’autore ricorre all’interpretazione kottiana:

«Nel Macbeth agisce lo stesso Grande Meccanismo del Riccardo III, con la differenza che forse qui è messo ancora più a nudo. La repressione della rivolta ha portato Macbeth molto vicino al trono. Potrebbe diventare re, quindi deve diventarlo. Uccide il sovrano legittimo. Poi deve uccidere i testimoni del delitto e coloro che lo sospettano. Poi i figli e gli amici di quanti ha ucciso prima. Infine deve uccidere tutti, perché sono tutti contro di lui.

Fate uscire degli altri cavalieri, e correr la campagna intorno; impiccate
Tutti coloro che parlan di paura. Qua la mia armatura!               (V, 3)

Alla fine viene ucciso lui stesso. Ha percorso da cima a fondo la grande scala della storia».

Majorino racconta del medesimo meccanismo, ovvero di come gli individui tutti tendano al successo e contemporaneamente siano uguali vittime di un potere che esiste già a priori e che trova nelle milizie massmediatiche il privilegiato mezzo di diffusione e contagio; ma se la ripetizione è la vera chiave di lettura della Storia, sia per Majorino che per il suo referente, è anche vero che a distinguerli è una differente valutazione del tempo futuro, e questo perché se con Shakespeare non vi è soluzione al dramma e non c’è possibilità per la Storia di rinnovarsi, al contrario nel poema resiste sempre una smisurata fiducia nella Storia che è prima di tutto un impegno a confidare nei similidissimili. Nel ‘libro totale’ dell’autore e ancora oltre nelle due opere successive, non occorre la presenza di una guida spirituale e non serve nessuna scorta giunta da alcun altrove, proprio come non vi è necessità di una Beatrice celeste che sia garante di salvezza. È nella realtà illimitata e restituita in figura dalla Beatrice Nera che Giancarlo Majorino fa risiedere tutte quelle virtù morali e di bellezza per le quali può parlare di una realtà come “Beatrice ininterrotta” e attraverso la quale si rivela l’ininterrotto discorso majoriniano, assieme filosofico e poetico. Dunque le opere che seguono il Viaggio stanno lì, già altro dal poema, ma ad esso ugualmente e geneticamente congiunte, proprio come in una tempesta solare, quando l’astro più luminoso produce forti e spettacolari emissioni di materia provenienti dalla sua corona.

_____________________________________

E. Cerigioni*Elisabetta Cerigioni nasce a Chiaravalle nel 1984, vive tra la provincia di Ancona e Urbino, dove sta conseguendo il dottorato in italianistica con una tesi su un poema inedito del Seicento: il Carlo V, overo Tunesi raquistata, del marchese Francesco Maria Santinelli. Si è laureata presso la stessa università “Carlo Bo” con una tesi di letteratura contemporanea dal titolo “Per un’ipotesi di lettura di Viaggio nella presenza del tempo, di Giancarlo Majorino”. Nella medesima occasione ha avuto modo di intervistare l’autore e la conversazione si trova oggi pubblicata in Carte Urbinati n. 2/3. Ha scritto saggi sulle categorie dello spazio e del tempo nel poema santinelliano, sulla poesia di Nino Pedretti e sulla scrittura di Franco Scataglini. Collabora con l’Associazione Artistica “Artemisia” di Falconara Marittima, per la quale ha partecipato alla redazione dei cataloghi d’arte; attualmente scrive nella rivista Il Falco letterario, occupandosi delle rubriche di letteratura e di poesia.


«C’era una volta un pezzo di legno…»: centotrent’anni e non sentirli

$
0
0

di Diego Bertelli*

Pinocchio, Guillermo del Toro,

Pinocchio, Guillermo del Toro

Il volume completo de Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino è pubblicato per la prima volta dalla libreria editrice Felice Paggi di Firenze nel 1883.[1] Le illustrazioni sono a cura di Enrico Mazzantini, mentre l’autore, Carlo Lorenzini, sceglie di usare il nome del paese di origine della madre come pseudonimo: è questo, all’anagrafe letteraria, l’atto di nascita del burattino di Collodi. Cominciato nel 1881 ed apparso a puntate sul «Giornale per i bambini» a cominciare da quello stesso anno, le vicende di Pinocchio si interrompono iniziamente all’attuale capitolo XV del libro, con il lettore messo di fronte al macabro spettacolo del burattino morto impiccato per mano di due assassini. Collodi riprende in seguito la storia dal punto in cui l’aveva lasciata, terminandola col lieto fine noto a tutti: il pentimento sincero di Pinocchio e la sua trasformazione finale in bambino.  Se in letteratura esistesse davvero la possibilità, come in passato si è creduto, di poter separare l’opera dall’autore, Pinocchio sarebbe senz’altro uno di quei libri capaci di far dimenticare Collodi. Non si tratta di una provocazione, né tanto meno di una presa di posizione. È più che un fatto: se ne accorse già Italo Calvino in un articolo del 1981 dal titolo Ma Collodi non esiste, uscito in occasione del centenario del libro sul quotidiano «La Repubblica».[2] Anche perché, con l’eccezione di Pinocchio, la restante produzione di Collodi non ha goduto, a torto o a ragione, della stessa sorte. Pinocchio è senz’altro un caso “eccezionale” in senso stretto. Ancor prima del giudizio favorevole di Benedetto Croce, la vicenda editoriale di questo libro, scritto negli ultimi anni di vita di Lorenzini, conosce una fortuna crescente sia in Italia sia all’estero: «[…] La prima traduzione avvenne già nel 1891 (Inghilterra). Il romanzo si diffondeva successivamente in Francia (1902), in Germania (1905), in Russia (1908) e negli Stati Uniti (1909)». Seguono negli anni versioni «in esperanto, in latino e in alcuni dialetti italiani (il veneto, il friulano, il piemontese, il sardo, oltreché versificato in siciliano)».[3] La diffusione si fa tale da poter parlare, liberamente, di una «geografia libresca infinita».[4] Pinocchio è stato ed è ancora oggi uno dei libri più tradotti e divulgati al mondo assieme alla Bibbia e a Le petit prince di Saint-Exupéry, a cui per altro il burattino di Collodi è vicino, se non per temi, perché a un asteroide del tutto simile a quello da cui proviene il piccolo principe è stato dato, in anni abbastanza recenti, il nome di Pinocchio.

Va subito detto che Pinocchio non è soltanto una storia per bambini, ma un vero romanzo di formazione, in cui anche il lettore adulto può riconoscere come propri sia i comportamenti sia le scelte del personaggio. Il burattino di legno assurge quindi al rango di figura archetipica, riassumendo in sé delle costanti ben precise, «modelli funzionali innati costituenti nel loro insieme la natura umana»,[5] volendo usare le parole di Carl Jung. Il padre della piscologia analitica aveva appena otto anni quando Pinocchio fu pubblicato in volume sul «Giornale per i bambini» ed è quindi improbabile una conoscenza diretta dell’opera in italiano. Non è però da escudere a priori la possibilità che Jung conoscesse Die Geschichte vom hölzernen Bengele (“Storia di un monello di legno,” questo il titolo delle prima traduzione), vista l’ampia risonanza dell’opera in Germania: «sul piano internazionale la ricezione tedesca è unica dal punto di vista quantitativo».[6] Nonostante Jung non abbia mai fatto riferimento esplicito al burattino di Collodi nella sua imponente produzione saggistica, non sono mancate negli anni importanti letture in chiave archetipica dell’opera di Collodi, come nel caso di Elémire Zolla e Antonio Grassi.[7] È vero però che l’universalità del carattere umano che riconosciamo oggi a Pinocchio non è stato il motivo che ne ha sancito, inizialmente, la fortuna. Per capire invece l’importanza storica di Pinocchio bisogna fare un passo indietro e risalire a un problema fondamentale per l’Italia postrisorgimentale. «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani» aveva affermato perentoriamente Massimo D’Azeglio e l’identità linguistica del paese rientrava a pieno titolo all’interno di questo imperativo.

Era dunque in ballo una definizione geopolitica, con ripercussioni evidenti anche in ambito letterario, specie dopo che la questione della lingua era divenuta nuovamente oggetto di dibattito culturale negli anni in cui Alessandro Manzoni «risciacqua» in Arno I promessi sposi. Rispetto all’approccio storiografico di Francesco De Sanctis, che nel biennio 1870-71 ricostruiva a posteriori una storia della letteratura italiana che di fatto non esisteva come storia di una nazione neonata, era stato l’interesse specifico del Romanticismo nostrano per l’educazione delle masse (basti qui ricordare la Lettera semiseria di Giovanni Berchet o la scelta di Manzoni di far illustrare il suo romanzo) a dare una spinta fondamentale in questo senso. Sebbene Pinocchio non conosca la “canonizzazione” spettata al libro Cuore, la storia di Collodi si inserisce di diritto nel quadro di un fermento culturale che aveva raggiunto un’altra sua tappa decisiva nel 1873, con la pubblicazione da parte di Graziadio Isaia Ascoli del Proemio all’Archivio glottologico italiano.  Mentre sul piano dell’acquisizione pratica il popolo italiano, allora giovane di appena trent’anni, traeva benefici concreti dal ricettario di Pellegrino Artusi (La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene esce nel 1891), è necessario senz’altro distinguere, non soltanto tra l’approccio di Manzoni e quello di Ascoli, per altro molto distanti tra loro negli esiti, ma anche tra il loro taglio teorico e i contributi di autori toscani più esposti all’uso vivo e meno filtrato della lingua. Il libro di Collodi, seppure scritto in ambiente fiorentino, si inserisce per temi e uso della lingua in un contesto geografico particolare, quello della Valdinievole, dove in quegli stessi anni opera anche Giuseppe Giusti, il cui apporto nel processo di formazione dell’italiano è stato recentemente rilevato da un saggio di Amadeo Bartolini.[8] Collodi porta con sé un’eredità materna che va bene al di là del mero dato anagrafico, manifestandosi concretamente nella lingua. C’è da aggiungere che l’area toscana conta, nello stesso periodo, un altro autore col quale l’ambiente rurale e povero di Pinocchio ha rapporti di continuità almeno in spirito, se non concretamente: si tratta di Renato Fucini, scrittore in vernacolo di “veglie,” storie di estrazione contadina raccontate davanti al focolare, che escono in rivista negli anni appena precedenti alla pubblicazione di Pinocchio.

Entro questi confini geografici e lingustici, il toscano di Collodi deve essere collocato tra la revisione fiorentina di Manzoni e i valori pedagogico-patriottici di De Amicis, ma in modo trasversale, con una qualità concreta e calibrata della scrittura; come ebbe a dire Contini: «stilista espertissimo che alla lingua viva, venata per maggior concretezza di toscanismi vernacolari, applica una sintassi essenziale, e perciò […] meno prossima al manzonismo».[9] Un toscano che parte dal basso, per di più ancorato a un contesto grottesco, la cui tensione redentrice rende il percorso del libro sostanzialmente dantesco: “commedia” di un personaggio, la cui anabasi è anch’essa: «a principio horribilis […] in fine prospera et grata».[10] Con una differenza però: la struttura morfologica del racconto, per usare il linguaggio di Vladimir Propp, è quella di una fiaba, con tutto il sostrato di crudeltà e tensione morale che ad essa appartiene.[11]  La descrizione del processo di crescita interiore di Pinocchio non è mai lineare; agiscono invece tensioni interne, con ripercussioni sul piano sociale e dei valori civili (si pensi al tema della disobbedienza) che portano il burattino a credere di essere «il figliuolo più cattivo che si possa dare»,[12] senza che ciò sia sufficiente a fornire da subito lo stimolo necessario a far bene. Nella «rappresentazione di un infanzia non agiografica»,[13] l’escatologia di Collodi non è assolutamente quella manzoniana; il suo Pinocchio, in ogni caso, al di là delle aspirazioni ideologiche e pedagogiche postrisolgimentali, non potrebbe neanche prendere il posto del Franti di Cuore. Per queste ragioni Pinocchio è molto di più di un libro per l’infanzia e, per le stesse ragioni, Collodi non è un semplice scrittore per bambini.[14] Varrà la pena ricordare che Carlo Lorenzini è in tutto e per tutto un uomo del suo tempo, un intelletuale engagé: abbraccia le idee mazziniane, partecipa alla prima guerra d’Indipendenza, combattendo a Curtatone e Montanara; si dedica prestissimo all’attività giornalistica, (a spiegazione, questo, anche del carattere “cronachistico” della sua scrittura); è drammaturgo; fonda una rivista satirica, «Il lampione», censurata immediatamente dopo la restaurazione in Toscana del Granduca Leopoldo. Con l’unità d’Italia, diviene prima funzionario statale, poi Ministro dell’Istruzione; nel frattempo, lavora anche come critico teatrale e traduce fiabe dal francese, tra cui quelle di Perrault. Oltre alla letteratura propriamente d’infanzia, Collodi è pamflettista; pubblica nel 1856 un Viaggio a vapore in forma di «guida storico-umoristica» e un romanzo d’appendice, I misteri di Firenze (i cui toni “scuri” riverberano anche in Pinocchio), sul modello di Eugène Sue.

Pinocchio è dunque il crogiuolo di un’esperienza umana e culturale complessa, in cui l’ascendente paradossografico di un’attenzione eccentrica per vicende e caratteri umani è essenziale alla comprensione del modo in cui Collodi guarda alla letteratura. Si prenda il caso di Sussi e Biribissi, un’altra storia per l’infanzia dell’ultimo periodo, in cui Collodi fa rifare ai due protagonisti omonimi un “verniano” viaggio al centro della terra, partendo, però, a differenza del brusco professor Lindenbrock e del nipote Axel, dalle fogne di Firenze. Il gusto per la catabasi, la discesa in un mondo sotterraneo e buio, ricollega Collodi a una certa tendenza di fine Ottocento (soprattutto tedesca, ma in parte anche inglese, con la poesia sepolcrale). Si tratta della derivazione meno languida di una specifica attenzione del Romanticismo per i notturni, le rovine e i cimiteri, che nasce da un rinnovato interesse per i classici greco-latini e per l’immaginario noir del folklore tipico delle fiabe: basti pensare, in Italia, ai “notturni” e alla riscoperta del concetto di sublime, a partire dai Sepolcri di Foscolo ai modi più trasversali e complessi di Leopardi, fino a compendere il temperamento antiborghese degli Scapigliati. Per questo sembra pertinente collegare i temi scuri e grotteschi di Collodi (anche ai fratelli Grimm, per altro esimi linguisti e compilatori di un importante Dizionario della lingua tedesca) e ai Canti della forca di Christian Morgenstern (egli stesso notevole traduttore dai classici). Dalle figure antropomorfe del gatto e della volpe, alle metamorfosi in asino e in bambino, alla morte, anche violenta, per impiccagione, del protagonista, la possibilità di riferimenti all’area tedesca e non solo al sostrato classico, con Fedro e Apuleio, è più che palusibile. Pur non avendo prova di un legame culturale tra Collodi e la Germania, la fortuna di Pinocchio in Germania è quanto meno indicativa di una condivisione di temi e atmosfere che va ben oltre le genealogie culturali. Dal passato al presente: la crescente fortuna di Pinocchio ha esercitato una fascinazione sempre più complessa e aperta a contaminazioni, tanto da poter parlare oggi di una postmodernità di Pinocchio. Da un punto di vista prettamente intertestuale, in Italia, già il Ventennio aveva proposto le sue riscritture, sebbene a uso e consumo ideologico: da Pinocchio fascista di Giuseppe Petrai, a Pinocchio fra i Balilla di Cirillo Schizzo, alle Nuove straordinarie avventure del celebre burattino (come le narrerebbe oggi il Collodi ai Balilla d’Italia) di Alberto Mottura. Così, sulla scia della deformazione fascista, il burattino nero vestito era stato portato fin dentro alle nuove colonie italiane, con Pinocchio istruttore del Negus o Pinocchio vuol calzare gli Abissini. In tutt’altro clima e contesto culturale, risultati più godibilili sul piano letterario si sono avuti nel dopoguerra: si ricordi la Filastrocca di Pinocchio (1955) di Gianni Rodari o il magistrale Pinocchio: un libro parallelo (1977) di Giorgio Manganelli. Si aggiunga a questi l’ennesimo «esercizio di stile» di Umberto Eco, col più recente Povero Pinocchio (1995), tautogramma (brano scritto sempre e soltanto con una sola lettera, in questo caso la «p») eseguito per un’edizione Comix che raccoglieva gli esperimenti di un corso di composizione tenutosi presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Bologna. Pinocchio, ma stavolta in versione destrutturata, ritorna anche nelle pagine dell’Accademia Pessoa (2007) di Errico Buonanno, divertissement postmoderno che segna la definitiva vittoria del Pierre Menard di Jorge Luis Borges sulla figura tradizionale dell’autore. Fuori dei confini nostrani, ricordiamo almeno il newyorkese Jerome Charyn, il cui Pinocchio’s Nose (1983), rivisitazione della storia di Collodi in chiave apertamente erotica, è stato forse il miglior esorcismo alle prime riscritture fasciste della storia di Collodi.

Se poi intendiamo l’intertestualità entro i rapporti più ampi dei linguaggi della comunicazione, sarà interessante notare l’evoluzione iconografica del burattino, dai primi illustratori (Mazzantini, Giuseppe Magni, Carlo Chiostri, Attilio Mussino, Sergio Tofano, per tutti, Stò), al tratto “carnascialesco” di Benito Jacovitti (Jac), alle interpretazioni di artisti di fama internazionale.[15] Conclusa la seconda guerra mondiale, è la volta del fumetto, con un’ulteriore rinnovamento di Pinocchio: inzialmente, volendo sintetizzare al massimo, con Carlo Cossio e Giorgio Scudellari; più di recente, invece, con Nadia Zorzin. Notevole anche l’affermarsi della presenza di un “Pinocchio giapponese,” specie nelle versioni di Osamu Tezuka e in quelle più rielaborate di Tomonori Taniguchi. Last, not least, il cinema e le versioni per la TV: nei prima anni Quaranta, a Viareggio, un gruppo di giovani appassionati (tra cui Giuseppe Zacconi e Renato Santini) si cimentarono nella realizzazione del lungometraggio Le avventure di Pinocchio (1946). Il film, per la regia di Giannetto Guardone, contò perfino sulla partecipazione di un allora giovanissimo Vittorio Gassman. Ma prima ancora di questa esperienza, Giulio Antamoro aveva addirittura proposto una versione muta della storia di Collodi, con Pinocchio (1911).[16] Fra queste due esperienze si inserisce Walt Disney, che ottiene due Oscar e suscita qualche polemica per la sostituzione del pesce-cane di Collodi con una più biblica e pacifica balena. Dalla fine della seconda metà degli anni Quaranta si passa, con un grosso salto temporale, allo sceneggato di Luigi Comencini, Le avventure di Pinocchio (1972), con Geppetto interpretato da Nino Manfredi e dagli indimenticabili Franco e Ciccio nei panni del Gatto e la Volpe. Versioni più o meno fortunate seguono nuovamente al cinema: basti ricordare Occhiopinocchio di Francesco Nuti (1994) e Pinocchio di Roberto Benigni (2002), conclusione di un progetto felliniano che l’attore toscano ha tentato con grande coraggio. Un ultimo accenno al teatro: da Carmelo Bene, che porta sulle scene, in una serie di rielaborazioni successive, Pinocchio (1961), Pinocchio, storia di un burattino (1981) e infine Pinocchio ovvero lo spettacolo della Provvidenza (1998), fino alle rivisitazioni più marcatamente popolareggianti di un toscanissimo trio composto da Carlo Monni, Massimo Ceccherini e Alessandro Paci, con Fermi tutti questo è uno spettacolo, Pinocchio! (1998) e Pinocchio (2008). Fuori d’Italia, Pinocchio conosce inoltre la complessità della rielaborazione interculturale, con l’Ajantala-Pinocchio (1990) del nigeriano Bode Sowande, opera permeata dal mito e dal folklore Yoruba.[17] Va da sé che Pinocchio, da quel lontano 1883, è cresciuto, diventando grande; e come tutti i grandi, ha cercato di tornar piccolo, di ritrovare un’infanzia perduta attraverso le molteplici forme che i suoi interpreti gli hanno fatto assumere. È in questa prospettiva che dobbiamo leggere i tanti modi in cui scrittori, musicisti e artisti hanno reinterpretato, nel tempo, la storia di Pinocchio. È fuor di dubbio, tuttavia, che la cosa veramente impressioniante e unica di questo libriccino resta tutt’oggi il modo in cui Pinocchio, pur cambiando nel tempo, è rimasto fedele alla grande intuizione del suo primo autore.

_____________________

[1] Si è usata come edizione di riferimento Carlo Collodi, Pinocchio, ed. critica a cura di Amerindo Camilli, Firenze: Sansoni 1946.

[2] Italo Calvino, Ma Collodi non esiste, in Id., Saggi 1945-1985, I, Milano: Mondadori 2007.

[3] Dieter Richter, Pinocchio o il romanzo d’infanzia, Milano: Feltrinelli 2002.

[4] Piero Zanotto, Pinocchio nel mondo, Milano: Edizioni Paoline 1990. La citazione è tratta da Isabella Maria Zoppi, Tra mito e allegoria, un’avventura di magia moderna: Ajantala-Pinocchio, di Bode Sowande, in La poetica mobile: dalla cultura al testo, a cura di I. M. Zoppi, Roma: Bulzoni Editore 2002.

[5] Carl Gustav Jung, Simboli della trasformazione, in Opere, vol. V, Torino: Bollati Boringhieri 1970.

[6] Cfr. Elémire Zolla, Uscite dal mondo Milano: Adelphi 1992 e Antonio Grassi, Pinocchio nell’ottica mitologico-archetipica della psicologia analitica di Carl Gustav Jung. Atti del convegno C’era una volta un pezzo di legno, Milano: Emme, 1981.

[7] Dieter Richter, Pinocchio cit.

[8] Amedeo Bartolini L’nfluenza di Giuseppe Giusti nell’affermarsi della lingua nazionale. Atti del convegno Fra Toscana e Italia, la Valdinievole nel processo di unificazione italiana, edito dal Comune di Buggiano 2010.

[9] Gianfranco Contini, Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze: Sansoni 1994.

[10] Dante Alighieri, Lettera XIII, in Tutte le opere, Firenze: Sansoni 1965.

[11] Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Torino: Einaudi 2000.

[12] Carlo Collodi, Avventure di Pinocchio, cap. XIV, Firenze: Giunti 1994.

[13] Contini cit.

[14] Per una conoscenza completa della biogrfia e delle opere di Collodi cfr. Carlo Collodi, Opere, a cura di Daniela Marcheschi. Milano: Mondadori 1995; il volume Collodi giornalista e scrittore, a cura di Riccardo Maini e Piero Scapecchi, Firenze: S.P.E.S. 1981 e Fernando Tempesti, Chi era Collodi. Com’è fatto Pinocchio, Milano: Feltrinelli 1972.

[15] Cfr. Pinocchio a Collodi, a cura di Ornella Casazza e Marco Moretti, introduzione di Vincenzo Cappelletti e prefazione di Antonio Paolucci, San Gimignano: Nidiaci grafiche 2003.

[16] Le avventure di Pinocchio nel cinema muto di Antamoro cit.

[17] Cfr. Tra mito e allegoria, un’avventura di magia moderna: Ajantala-Pinocchio cit. e Isabella Maria Zoppi, Ajantala-Pinocchio di Bode Sowande: gemelli diversi, dal testo collodiano alla scena nigeriana, in Pinocchio. Nuove avventure tra segni e linguaggi, a cura di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini, Milano-Udine: Mimesis Edizioni 2012.

_______________________

IMG_0130_1*Diego Bertelli insegna lingue e letteratura italiana presso l’International Studies Institute at Palazzo Rucellai, Firenze. Collabora con «MInimaetmoralia», la sezione secondo Novecento della «Rassegna della letteratura italiana», l’«Indice dei libri del mese» e cura una rubrica mensile intitolata Librazioni sul blog Tono metallico standard. Nel 2005 ha pubblicato la raccolta di poesie L’imbuto di chiocciola (Edizioni della Meridiana). Un suo racconto, Il sogno di Amanda, sta per uscire in Toscani Maledetti (Edizioni Piano B, a cura di Raoul Bruni).

 

Il Re del Trottoir

$
0
0

di Giovanni Cocco*

(ispirato a CUSSESUMAIAMI)

764900 DEGRADO ALL'HOTEL DEI MONDIALI '90Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.

Ho appena parcheggiato la Uno vicino alla Stazione Garibaldi, tra il Loola e l’Hollywood. Le tasche che avevo a disposizione sono tutte Sold Out: accendino Bic viola, fazzoletto della mamma, pacchetto di Lucky Strike, cellulare Telit, portafogli, Vigorsol Senza Zucchero e Pocket Coffee. “Last but not least” la Spalding Bros che Michelle mi ha regalato due giorni fa: appisolata nel taschino della camicia celeste che ho comprato ieri all’“Incendio” per soli 20 euro. Semaforo Rosso. Il baule è chiuso a chiave, l’autoradio sotto il sedile. Si alza altissimo il rombo dei motori. Infilo i guanti, prendo il manoscritto e sistemo la sciarpa. Semaforo Verde. Si parte.
Il tipo del chiosco che sta dirimpetto all’entrata della Stazione sembra particolarmente indaffarato di fronte all’orda di persone che gli ordina panini dai nomi cazzuti: Diavolo, Milano, Tirolese. Vorrei dirgli che Diavolo Cane, anzi Caldo Cane, la formula Wurstel+Crauti+Senape e/o Ketchup significa Hot Dog! E che quindi la parola Tirolese con quel panino ha la stessa attinenza che un preservativo ha in un rapporto sessuale: non c’entra un benemerito cazzo. Mi limito tuttavia ad osservarlo un istante, chiedendo alla signora dell’edicola la strada più breve per arrivare in Corso Garibaldi, laddove incontrerò finalmente il Maestro.
Soluzione 1: Metro, una fermata soltanto, Moscova, che non è un insetto e nemmeno un’alcova, soltanto una zona vicino a Brera.
Soluzione 2; a piedi attraverso Corso Como, mezzo chilometro o poco più, fino ad arrivare in Corso Garibaldi.
Opto per la seconda.
Attraverso Corso Como camminando in fretta, fa freddo, è il 28 dicembre dell’anno più freddo da quando sono al mondo. Dimenticavo, sono al mondo da 9162 giorni, il che significa che ho 25 anni e che ho buttato via un sacco di tempo, visto che i giorni buoni che ricordo non arrivano a formare due centinaia. La mano destra sorregge una Confezione Regalo contenente una bottiglia di Vecchia Romagna. Era il regalo di Natale per lo zio Bruno, poi mi sono scordato di portarglielo ed eccolo tornato buono per questa occasione. La mia mano sinistra, che non è il titolo di un film StrappaLacrime e StrappaOscar ma l’arto con cui scrivo, mangio e mi masturbo, sorregge un plico rilegato contenente alcuni racconti scritti nell’ultimo periodo. Piccola chiosa sul Racconto Breve: l’ErreBi è un desaparecidos nel panorama editoriale italiano, l’unico genere letterario che ha l’assoluta certezza di non venire non solo mai pubblicato, ma probabilmente nemmeno letto da alcuna casa editrice. A questo punto il mio caro, defunto e diletto Mordecai aggiungerebbe una frase di questo tipo: “È forse questo il motivo per cui scrivo solo racconti brevi”. Gli rendo omaggio.

Breve Reportage del Viaggio da Corso Como a Corso Garibaldi.
Considerazione e riflessione numero 1: il termine Via, a quanto pare, non è stato abolito del tutto dalla toponomastica milanese; è stato solamente relegato all’interno dei quartieri populares per eccellenza: Bovisa, Lambrate, Quarto Oggiaro. Nelle zone da fighetti vicino al centro è buona cosa utilizzare il termine Corso, termine nobile, elegante, mancino, tipicamente “a foglia morta”.
Considerazione e riflessione numero 2: entrare all’interno di un qualsivoglia bar o Caffè della zona implica uno sforzo fisico non indifferente per coloro che come me provengono dalla provincia e sono abituati al Bar dello Sport.

bar-garibaldi

Varlin (Willy Leopold Guggenheim), Bar a Porto Garibaldi.

Mi sono fatto questi 800 metri su e giù almeno un paio di volte nella speranza di trovarne uno un poco schifiltoso, di quelli in cui mi trovo pienamente a mio agio: luci livide, insegna con lettera mancante (tipo Ciro B r Sport), tavolino ancora sporco e poche, pochissime persone all’interno. Risultato della ricerca: Nulla, Niente, Nada, Game Over. Insert Coin: ho gettato il cuore oltre all’ostacolo, dopo essermi fatto un’accurata anestesia locale con un sorso del brandy che dovevo regalare. Sono entrato nella Taverna dei Poeti credendola l’Osteria dei Poeti, il nome era accattivante, le luci abbastanza soffuse. Mi hanno risposto indicandomi l’orologio con un cenno del capo e aggiungendo qualcosa del tipo: “Ma Lei cena sempre all’ora delle Galline?”. Sarebbe stato inutile spiegare loro che il mio unico desiderio attuale è quello di pisciare, di fumarmi una sigaretta seduto su uno sgabello e bermi una Nardini corretta caffè in santa pace, visto che sono le cinque e mezza ed ho un appuntamento per le sei e mezza venti metri più avanti. Mi sono sincerato del fatto che Le Trottoir, il luogo in cui ho il mio appuntamento è esattamente nel punto indicatomi: Corso Garibaldi Numero 1. Proprio all’inizio di Corso Garibaldi. Perfetto, lo sapevo già. È un vero peccato avere parcheggiato l’auto esattamente dalla parte opposta. Estraggo dal taschino interno dei jeans il mio personalissimo Rosario delle Bestemmie, e mi lancio in una preghiera che abbraccia idealmente tutto l’orbe terracqueo.
Riflessione numero 3: Porca Troia, cosa cazzo faccio fino alle sei e mezza?
Fine delle Riflessioni e inizio dell’Azione
Azione
Ore 18.30.
Scruto Le Trottoir da lontano, sorseggiando l’ultima sigaretta appoggiato al semaforo che tra poco renderà possibile il mio Safari sul dorso di una Zebra. Il significato escatologico della presenza di ben due vigilesse proprio dinanzi alla mia persona ancora mi sfugge. Ma non dispero. Scelgo l’entrata laterale del locale, quella di sbieco per me reso bieco dal freddo. La saletta al pianterreno è di quelle da mettere i brividi: l’Istituto dell’Aperitivo, inutile sottolinearlo, anche qui ha messo radici. La fauna che lo accompagna è, tuttavia, parecchio più indisponente di quella che solitamente ritrovo dalle mie parti, in posti come l’Hocus Pocus di Erba o il Coccodè di Inverigo: femmine fatali appositamente discinte sono infatti qui accompagnate da quello che rimane degli yuppies di Craxiana memoria, mentre artisti, art director e copywrighter, da bravi creativi, dipingono stronzate verbali mica da ridere. Ci vorrebbe Raymond Carver qui al mio fianco, a sorreggermi, e mi sento oltremodo stronzo nell’ascoltare da solo queste immani stronzate.
Non ho individuato la persona che sto aspettando e che forse mi sta aspettando, e che, tra l’altro, non ho neppure mai visto ma che conosco di fama. Proseguo senza esitazioni verso il primo piano, quello che tutti i comuni mortali chiamano Secondo, e visto che l’Epifania è vicina, per l’occasione vengo guidato da una Magica Stella, quella disegnata sul culo in jeans di una avvenente cameriera. Scopro con grande piacere un secondo bancone bar e con altrettanto dispiacere un secondo barista uomo, capelli riccio-corvini brizzolati, camicia slacciata sul petto modello Leone di Lernia®, sguardo tra il magnetico e il patetico. Ordino un Bailey’s e mi guardo intorno. È passato un quarto d’ora, mi sono quasi rassegnato alla disfatta. Sento un rumore in fondo alla sala, nella zona più appartata del locale. Mi basta un’occhiata per scorgere, accanto ad una compagnia di ragazzi e ad alcuni distinti commensali, un profilo decisamente diverso.
Primo piano. Zoommata repentina nell’angolo.

Il vecchio Hackmuth con il suo cipiglio e i capelli con la riga in mezzo, il grande Hackmuth con la penna come una spada, che mi guardava dalla parete dove avevo appeso la sua fotografia, firmata a caratteri cinesi. Crede che ce la farò a scrivere come William Faulkner?

wolz

Varlin (WIlly Leopold Guggenheim), Wolz al biliardo

Cappello ocra da cow-boy di dimensioni gigantesche, come l’intera figura; giacca di velluto a coste olivastra; camicia bianca; pantaloni grigi; cravatta con palle da biliardo coloratissime. Chino sul tavolo. Sul tavolo una sacca beige semiaperta, fogli, un libro, un telefono cellulare. Boccale di Birra, una Media Chiara ad occhio e croce. “Pinketts?” sussurro da una distanza rassicurante, tre o quattro metri. Il tizio alza la testa, adesso ne scorgo i lineamenti del viso. Pinketts. Porca Troia ho fatto centro al primo colpo. È proprio lui. Il mio idolo letterario, lo scrittore di noir più famoso d’Italia. E non solo. Uno dei personaggi più strani che vi siano in circolazione. Mi fa cenno di avvicinarmi. Lo assecondo, non potrei fare altrimenti e non solo perché si tratta di un mio mito personale. Mi rendo subito conto che fare a botte con lui non sarebbe proprio una passeggiata. Meglio non farlo incazzare. “Porca Troia” penso, “l’ho già fatto incazzare, e di brutto”. Ricordo a me stesso di essermi presentato qualche giorno fa al telefono dicendogli che negli ultimi due romanzi aveva scritto solo un sacco di stronzate. E aggiungendo che io scrivevo decisamente meglio di lui.

Avvertenza:
A questo punto il lettore, in maniera del tutto legittima, si starà domandando: “Ma cosa cazzo ci fa uno squattrinato studente delle Montagne a colloquio con uno scrittore di successo che pubblica i suoi romanzi per la più grande Casa Editrice italiana?” Ed ancora: “Come diavolo avrà fatto il nostro ad avere il numero di telefono di Andrea G. Pinketts, visto che afferma di averlo contattato telefonicamente?”
È buona cosa soddisfare la curiosità e l’incredulità del lettore e per fare questo mi limiterò a questo breve ma esauriente

Antefatto:
Venerdi 21 dicembre. Vacanze di Natale. Ore 16 circa. Erba, a metà strada tra Como e Lecco. Villa S. Giuseppe. Biblioteca Civica.
È dall’apertura della Biblioteca che me ne sto seduto sulla mia seggiola all’interno della sala di lettura. Leggo solo narrativa italiana degli ultimi dieci anni, giusto per vedere se c’è qualcuno che scrive meglio di me.
Il silenzio rigoroso è rotto, di tanto in tanto, da “Jingle Bells” e “Piva Piva l’Olio d’Oliva” sparati a palla dal Presepe allestito nel cortile sottostante dagli artigiani del quartiere, desiderosi di mettere i propri Talenti al servizio della collettività nella ricorrenza del Santo Natale.
La lettura dell’ultimo libro di Pinketts, un autore di noir a me caro, è intervallata ogni quaranta minuti da una sigaretta consumata di fronte al distributore automatico del Caffè, da queste parti il luogo migliore ove fare amicizia. Ho quasi tutti i libri di Pinketts, ne ha scritti otto in tutto: fino a quando pubblicava per la Feltrinelli, nelle splendide edizioni della Tascabile Economica, non ho perso un colpo. Adesso che è passato alla Mondadori le cose si sono fatte più complicate. Mentre mi accingo a leggere “Fuggevole Turchese” con le stesse modalità con cui mi sono avvicinato a “L’assenza dell’assenzio”, ovvero mediante prestito della Biblioteca, non so se il verme sono io, squattrinato cronico, o il prezzo di copertina, 14 euro, decisamente troppo elevato per qualsiasi ragazzo desideroso di passare la serata in qualche locale della zona, tipo il “Tartaruga” (ingresso 12 euro, senza consumazione) o l’Ombelico (stasera 20 euro, c’è Irene Grandi). Ho iniziato a sfogliare il romanzo, decisamente gradevole, in alcuni punti addirittura pirotecnico, come nel Pinketts degli esordi, il migliore per ritmo narrativo e verve. A pagina 5 mi sono imbattuto in un numero di telefono, un cellulare presumibilmente. Me lo sono appuntato, così per la mia solita manìa di appuntarmi ogni cosa, come un solerte appuntato al primo appuntamento. Ci ho chinato sopra il crapino senza badarci, salvo poi svegliarmi nel sonno col dubbio che quello fosse un numero vero, esistente nella realtà. Ho subito inviato a quel numero questo Sms:

“Caro Pinketts, non ti riconosco più! Scrivi facendo il verso al primo Pinketts. Reciti interpretando sempre te stesso. Il mio autore preferito ridotto a cliché. Sob!” Volutamente, fottutamente provocatorio. Balzano come la mia idea che quello potesse essere davvero il numero di Andrea G. Pinketts.
Non ci ho più badato.

Sabato 22 dicembre, ore 15 circa. PonteLambro. Caffè Stazione.

milano periferia

Amanda veste la solita camicia senza maniche che arrapa i sessantenni. Francesco, con la solita aria affranta, distribuisce limoncelli e Braulio. Solito giro di caffè.
“Corretto Grappa!” urla Luis.
Sul Tavolo Centrale si misurano a Scopa la coppia ArmandoNoemio e quella formata da FaustoPina e Vittorino. Non siamo al Madison Square Garden, ma poco ci manca. I due tavoli vicino alla porta sono quelli destinati alla Briscola. Tutto esaurito anche alle slot, nel corridoio oscuro che le ospita. L’attrazione del pomeriggio, tuttavia, è un’altra. Gli anticipi di Serie A, su Stream e Telepiù. In Sala 1 siamo una ventina, e quasi tutti juventini a parte i soliti gufi milanisti. Sala 2 è appannaggio degli interisti, risorti a nuova vita dopo il recente rientro in campo del Fenomeno.
La Juve, al solito quest’anno, fatica un casino nel primo tempo, pur trovandosi di fronte il Perugia, quart’ultimo in classifica. Passiamo con Trezeguet, colpo di testa imperioso su cross dalla destra di Lilian Thuram. Raddoppia Del Piero, grazie ad un assist generoso dello stesso Trezeguet, solo davanti a Mazzantini. 2-0. Il primo tempo sta per concludersi. Mi alzo dalla sedia avvicinandomi al bancone del bar. “Amanda, un Baileys per favore!” e allungo tre euro.
Suoneria musicale del cazzo nel taschino.
“L’anello che non tiene” direbbe Montale. Estraggo dal giubbetto di jeans il cellulare. È proprio il mio a rompere i coglioni. Sento la chiamata e ne vedo altre due non risposte visualizzate. “Porca Troia, ho perso due chiamate. Non le ho proprio sentite. Sarà stato il casino che c’era di là” penso tra me. Perdo anche la terza, nel frattempo, forse perché si tratta di un numero sconosciuto.
Stranamente ho il telefonino non ancora scarico e così decido di richiamare il numero misterioso per togliermi la curiosità di sapere chi c’è dall’altra parte.
“Pronto!” esclamo.
“Chi sei?” aggiungo.
“Chi sono?!” risponde il mio interlocutore. “Sei tu a chiamarmi e mi chiedi chi sono? Sei proprio un bel tipo” aggiunge. Silenzio.
Ghiaccio tra i due.
È evidente che entrambi i contendenti stanno tentando di ricostruire l’esatta dinamica dell’incidente telefonico.
Poi l’altro continua: “Sei forse quello che mi ha mandato un messaggio ieri?”
Silenzio sempre più torvo da parte mia.
“Comunque sono Andrea Pinketts” conclude, in tono perentorio questa volta, da duro.
“Porca Troia chi cazzo sei?!” dico io in preda a qualcosa di simile all’euforia.
“Sei Andrea Pinketts?!! Scusa, ehm, sono imbarazzato, non so cosa dire” taglio breve.
“P- P- Pinketts?! Andrea G. Pinketts?!” chiedo in maniera retorica.
“Sì” risponde lui categorico.
La telefonata finisce poco dopo. Lo richiamo il giorno successivo, a casa. Mi risponde la mamma, la mitica MammaDiPinketts presente in tanti romanzi. Parlo con Lui. Ci diamo appuntamento per il 28 alle 18.30 a Milano. Corso Garibaldi. Il locale si chiama Le Trottoir, “il mio studio” suggerisce Pinketts.

Fine dell’antefatto.
Il lettore ha di che essere soddisfatto.
Fine dell’Avvertenza.

Mi avvicino al suo tavolo. La prima impressione è stata quella di trovarmi di fronte Dick Tracy, l’eroe dei fumetti. Appena Pinketts prende parola questa impressione scompare. Ho davanti un gangster, un duro, un misto tra Al Capone e Fred Buscaglione ed il suo modo di parlare incute timore, riverenza.
Mi siedo sul seggiolino che ho davanti, in modo da essergli perfettamente di fronte. Il seggiolino è basso, arrivo a stento al tavolo. Mi sento un perfetto coglione, inutile negarlo. Lui capisce immediatamente il mio disagio, si alza e afferra dal tavolo a fianco una sedia. Un gesto solo, il suo: risolutivo, senza esitazioni. Quelli del tavolo di fronte, il classico branco di ragazzi della mia età giunti lì per l’aperitivo e per scambiarsi cazzate, mormorano qualcosa. Pinketts gli rivolge solo il ciglio chiedendo in tono perentorio: “Problemi?”. Nessuno fiata, la situazione e questo angolo del locale sembrano sotto il suo più completo controllo. Inizio a farfugliare qualcosa del tipo: “Non so cosa dire. Mi sento in soggezione”. Cerco nervosamente una Lucky nella tasca destra della giacca. “Cosa bevi, una birra?” “Bailey’s, grazie”. Si alza, si avvicina al bancone e, come direbbe mio nonno, “comanda” un’altra birra, una “Pinketts” dice lui, che qui le birre si chiamano col suo nome. Anche il mio Bailey’s è in dirittura d’arrivo. Er Pecora, il barista, annuisce col capo. Il Capo, qui in sala, è un altro e lui lo sa bene.

Mi voltai verso la fotografia di J. C. Hackmuth, che mi guardava dalla parete. “Alla tua salute, Hackmuth! Cin cin”.

Lo attendo seduto al tavolo, immobile, senza girarmi. Accendo la Lucky di prima. Frugo nervosamente nelle tasche, alla ricerca di qualche argomento. È lui a rompere il ghiaccio porgendomi il Baileys con ghiaccio. Lo tracanno in due sorsi per convincerlo che abbiamo almeno una passione, quella alcolica, in comune. Per il resto siamo agli antipodi: Pinketts è Pinketts e io non sono nessuno; Pinketts si trova a proprio agio quaddentro e adora Er Pecora mentre a me vengono i brividi e rimpiango la Stella Artois di Erba e quella deliziosa creatura chiamata Silvia Gandolfi. Pinketts sfoggia una Montblanc ed io una Spalding Bros; lui sembra Lee Van Cleef, io al massimo un Lucky Lucke che fuma Lucky Strike. Stringo la fiducia tra i denti, mentre lui mi osserva. Lo guardo negli occhi. È abbronzato, lampadato. Ha lo sguardo di un cattivo da film. Non sorride mai. Sembra nato apposta per fare l’attore. Ma fa lo scrittore. È uno scrittore. Insomma quello che uno si aspetta da uno scrittore vero, mica i fighetti delle ultime generazioni. Beve come Bukowsky, ha successo con le donne come solo Hemingway, è bello come un Dio, ricco, dannato come un poeta maledetto. La sua scrittura emana talento da ogni poro.

Parliamo dei suoi romanzi, di “Fuggevole Turchese” e di Pogo Il Dritto. Io adoro “Il senso della frase” e “Il conto dell’ultima cena”. Decido di fare il figo e gli muovo qualche critica. Riesco ad essere abbastanza lucido nello spiegargli i motivi che mi spingono a ritenere “L’assenza dell’assenzio” inferiore ai romanzi che l’hanno preceduto. Mi ascolta in maniera attenta, e prende la parola solo quando ho terminato le mie riflessioni per dirmi che lui, al contrario, lo ritiene il suo lavoro più riuscito. Tombola! Mi convinco sempre di più di essere un perfetto coglione. Riceve due chiamate sul telefonino: la Classica Amica Forse Incinta (SperiamoNonSiaStatoIo) e un ammiratore che, come me, ha rintracciato il suo numero tra le pagine del suo ultimo romanzo. Mi chiede di me e della mia vita. Gli consegno il mio manoscritto, rilegato, fogli azzurri della Copisteria di Leone, vicino alla Casa del Bimbo, Erba, direzione Piazza Mercato. Lo osserva, lo sfoglia mentre gliene parlo. Mi promette di leggerlo con attenzione. Ho vinto.
Altro giro di birre. Medie Chiare. Labatt intuisco. Faccio per andarmene, non voglio sembrare troppo invadente. Mi trattiene. Parliamo di altre cose. Il kendo. Richler. Il Racconto Breve. Addictions, la rivista di scrittura su cui scrive con Andrea Carlo Cappi. Gli editori a pagamento. Una persona che conosciamo entrambi, Simona Ostinelli di Caslino d’Erba. Parliamo e beviamo. Di Feltrinelli e Mondadori. MotoTopo e AutoGatto. Romeo e Giulietta. Bud Spencer e Terence Hill. Come nei Caffè letterari della Mitteleuropea scovati solo all’interno di libri di autori mitteleuropei che parlano di Pallosissime Minchiate Mitteleuropee. È passata un’ora e mezza. Me ne vado. Si alza, ci congediamo con l’impegno di sentirci il 7 gennaio. Faccio per andarmene: mi segue sulle scale per ringraziarmi della bottiglia di Brandy. “C’è una dedica per te all’interno” aggiungo come epitaffio Post Aperitivo. Certo non è Masters (Edgar Lee, mica He-Man e i Dominatori dell’Universo!) ma è già qualcosa. Mi faccio largo tra la folla del “Trottoir”, ormai saturo di spazio e clienti. Artisti e Curiosi. Baristi e Cameriere dal culo favoloso.
Esco dalla porta principale, stavolta, e mi sento come Clint Eastwood quando esce dal Saloon: sguardo ieratico che indugia sui passanti, prima a destra poi a sinistra. Vado a sinistra, come ho sempre fatto, del resto. E non solo perché stavolta devo tornare in Stazione Garibaldi.
Dieci passi, dieci metri forse. Stop. Sfilo il guanto destro. Afferro il pacchetto di Lucky. Ne estraggo una con le labbra. Alla James Dean. Anche se forse in questo momento ricordo meglio James Tont. Accendino. Fiamma. Primo tiro non aspirato e soffiato sul glande della sigaretta. Adesso è accesa come Dio comanda. Rimetto il guanto destro. M’incammino per Corso Garibaldi sicuro, lanciando il mio guanto di sfida a tutto ciò che incontro. Non incontro nessuno ma poco importa. Ho nove giorni per rileggere il mio racconto e per sognare. Seduto in macchina comincio a sfogliare una copia del manoscritto che ho consegnato a Pinketts. A pagina 2 ho ficcato due errori di ortografia: apostrofo al posto dell’accento. Un sommo Coglione. Coglione come Sommo che proprio adesso mi chiama e che si chiama Sommo non perché sia un Pozzo di Scienza ma perché ha una testa enorme a forma di Sommergibile.  Flip.

“Pronto? Sommo Vaffanculo! Non è il momento!”
Flip.Ho fatto Flop anche stavolta.

________________________________

 GiovanniCocco-1*Giovanni Cocco è nato a Como nel 1976. Ha pubblicato Angeli a perdere (No Reply, 2004), La Caduta (Nutrimenti, 2013) e Ombre sul lago (Guanda, 2013 in coppia con Amneris Magella). Vive a Lenno, sulla sponda occidentale del Lario.


La tecnica come strategia

$
0
0
2013HDV 16:9, duration: 9:23 min © 2013 Olafur Eliasson

© 2013 Olafur Eliasson

di Teresa Iaria*

L’arte contemporanea è specchio del suo tempo elastico e mobile, interconnessa ai nuovi modi di vivere e produrre. Non può che riflettere, interagire e suggerire questa visione. Stratificata e complessa, appare come un arcipelago di linguaggi privati che necessitano di un background storico sul campo per comprendere come nascono e in che lingua ci parlano le singole opere. La complessità del  sistema dell’arte contemporanea può essere osservata e vissuta con “uno sguardo-attraverso”, direbbe Wittgenstein,  con un “guardare dentro un filtro dall’ interno del filtro”[1]. Solo in questo modo ci si orienta riuscendo a cogliere tutte le infinite variazioni che ci appaiono. Gli artisti, costituenti attivi di questo sistema, in un moto perpetuo di anticipazioni e ripensamenti, interagiscono e rispondono con il loro operato ad una domanda di innovazione concettuale e stilistica. Per un artista la questione della tecnica ha a che fare con una “condizione della mente” che si svolgerà nella messa in opera del suo progetto. Nel suo operare l’elemento concettuale è strettamente connesso a quello operativo, per cui il medium scelto è un veicolo fondamentale per la messa in forma dell’opera. Rosalind Krauss  lo ribadisce in due suoi scritti, Reinventare il mediumL’arte nell’epoca postmediale[2] in cui il medium risulta un insieme di regole, una “matrice generativa” di convenzioni  derivate, ma non identiche, dalle condizioni materiali, uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all’artista. La tecnica viene dunque concepita come virtualmente sempre già presente al pensiero. Potremmo dire che l’artista non sceglie solo un modo di procedere ma sceglie soprattutto una strategia d’azione. E questo perché ogni artista, che sia pittore, artista concettuale o che utilizzi sofisticate tecnologie, determina con il suo operato, uno spazio d’azione per cui reinventa e sperimenta una serie di regole e procedure per esplicare al meglio la sua idea. E’ chiaro che questo non esclude il fatto che l’artista può scegliere di essere totalmente indisciplinato ed imprevedibile, sovvertendo di volta in volta il suo proprio modo di procedere. Il concetto di strategia è centrale perché identifica l’artista con un giocatore ideale che dialoga con un linguaggio visivo codificato storicamente, quindi ha per analogia delle regole con cui “giocare” e una forma di libertà strategica che gli permette di interpretare, riformulare e in alcuni casi stravolgere canoni e configurazioni precostituite. Nelle sue procedure l’idea rimane il nucleo fondativo, non è importante stabilire quanto il medium influenzi il progetto o quanto un’idea stabilisce a priori come deve essere espressa. Nel percorso di ideazione l’intersezione è elastica e si ribalta continuamente. La questione del medium è centrale in tutta l’Avanguardia del XX secolo. Nuovi media si sono succeduti ad altri, presentandosi come rivoluzionari nella possibilità espressive e comunicative. Più di recente la rivoluzione tecnologica è quella che ha inciso di più nel nostro presente, e comprende soprattutto  l’incontro di due tecnologie nate negli stessi anni: i mass media e l’elaborazione di dati attraverso il computer.

Negli anni Novanta il concetto post-mediale si è rivelato una chiave di lettura interessante per leggere anche l’impatto culturale delle nuove tecnologie. In particolare l’uso del computer e del Web hanno ampliato le possibilità interattive degli utenti, e soprattutto degli artisti. Come afferma in Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo il filosofo francese Nicolas Bourriaud.  L’artista contemporaneo opera come un dee-jay o un programmatore che si appropria di oggetti culturali o di frammenti di essi e li rielabora, montandoli e includendoli in nuovi contesti. Se prima l’artista si appropriava degli oggetti reali con gli ormai arcinoti “readymade”, ora si appropria di “readyinformation”, copiando e incollando a suo piacimento, ricreando una nuova rete di  significati. Quindi oggi non ha più senso ribadire la specificità mediale, o chiedersi quanto  una nuova tecnologia può influire sul modo di pensare e sentire, tutto ormai è irriducibilmente “intermediale”.  Cioè all’interno di ogni singola opera emerge una stratificazione concettuale e tecnica che rimanda ad una intersezione a diversi medium. Un video che accoglie sequenze cinematografiche, un testo letterario che rimanda ad un opera d’arte che a sua volta rimanda ad un’opera cinematografica che rimanda ad un fatto di cronaca. Frammenti culturali e medium di diversi ambiti concorrono insieme alla percezione di un’unica grande opera polifonica diretta con abile maestria, libertà espressiva e compositiva da un artista indagatore, un errante che sceglie di narrare una delle tante storie possibili. In linea con il nostro ragionamento, prendiamo come esempio Peter Doig artista scozzese che utilizza un medium tradizionale come la pittura, e come molti artisti della sua generazione è influenzato indirettamente dalla tecnologia cioè la usa per prepararsi al lavoro, e Olafur Eliasson, invece che utilizza sofisticate tecnologie esaltandone criticamente le potenzialità.

Peter Doig Echo Lake 1998 Olio su tela Tate Collection

L’influenza della tecnologia, che per alcuni è esplicitata in una canalizzazione della sensibilità, è più evidente in quegli artisti che la utilizzano ostentandola. Anche se dovrebbe essere chiaro che ogni opera non è di per sé una filiazione tecnologica o solo un “effetto speciale” per intrattenere un lunapark visivo e cognitivo. È bene sottolineare che l’arte si spinge sempre oltre l’illusione: l’arte guarda sempre altrove!  Peter Doig, è essenzialmente un pittore di paesaggi, viaggiatore e acuto osservatore di situazioni che lo circondano legate alla natura, all’architettura o all’uomo.  Queste visioni alimentano la sua capacità di individuare correlazioni con la tradizione modernista e la cultura popolare, che l’artista miscela sapientemente modificando il suo stile, a volte legato ad una astrazione gestuale, al fauvismo, a volte al ‘minimalismo’ di una certa pittura contemporanea. Doig pur avvalendosi di un medium tradizionale, prepara il suo lavoro con  immagini fotografiche e riprese video. Le fotografie scattate anche con teleobiettivi sono il suo punto di partenza per catturare frammenti di realtà che diventano atmosfere per la sua memoria che soltanto la pratica della pittura trasformerà in immagini nostalgiche, surreali e inquietanti. L’uso della macchina fotografica o della telecamera permette all’ artista di catturare un evento o un frammento ravvicinato modificando il tempo e lo spazio di osservazione. La tecnologia alimenta la possibilità di approcciarsi al reale in modi differenti contribuendo a rendere più plastica e relativa la nostra percezione. Tanto più che all’interno della ricerca di uno stesso artista, oggi è sempre più presente l’oscillazione tra figurazione e astrazione, intese non come estremità in contraddizione, ma come “scale” di rappresentazione che l’artista, in questo caso con strategia cognitiva, sceglie per indagare il reale . Olafur Eliasson, invece, utilizzando le più svariate tecnologie ricostruisce artificialmente eventi naturali riflettendo e portando ai limiti la nostra possibilità di percezione, avvalendosi nel suo studio della collaborazione di un gran numero di assistenti e di esperti in varie discipline, di ingegneri, architetti, tecnici, informatici, artigiani specializzati. L’artista è interessato ai “fenomeni effimeri”, eventi limitati nello spazio e nel tempo, come lo stato naturale delle cose e ai suoi possibili cambiamenti, convinto che “La natura non esiste di per sé, ma coincide con il nostro modo di guardarla”.

Tra gli allestimenti più spettacolari ricordiamo The Weather project del 2003, in cui Eliasson ha ricostruito il sole, un sole composto da duecento lampadine monofrequenza, uno specchio e fumogeni delle discoteche, trasformando l’enorme Turbine Hall della Tate Modern in un luogo surreale. Ancora una volta si ha la conferma di quanto alla base di ogni opera d’arte ben riuscita vi sia un progetto efficace, un materiale elementare come la luce che in questo caso diventa riferimento e  rimando interno alla Tate, ex centrale elettrica. La luce è di nuovo protagonista in Your black horizon del 2005, un raggio ad altezza dell’ orizzonte percorre un cubo di 400 metri quadri. L’artista ha campionato la luce della laguna veneziana dalle 4 del mattino alle 10 della sera e ha trasferito i dati in un meccanismo di illuminazione, compattando la sequenza di alba-pomeriggio-tramonto-notte ed accelerando di qualche minuto le singole variazioni del tempo dell’intero ciclo della luce della laguna veneziana. Più intima, al di là della spettacolarità, è l’opera Your embodied garden 2013 , un video di 9:23 minuti che nasce da un viaggio fatto da Olafur Eliasson ai giardini dello studioso cinese di Suzhou, con lo scrittore Hu Fang, il gallerista Zhang Wei e il coreografo Steen Koerner.L’opera è molto interessante perché mostra in maniera esemplare, con grazia e semplicità, la “poetica” di Eliasson, e di rimando di ogni artista contemporaneo che vive embodied con il suo tempo complesso. Nel video un uomo mette in scena una lenta danza cercando di diventare tutt’uno con l’ambiente, si mimetizza e dialoga con la natura, ma nello stesso tempo prende coscienza riflettendosi in uno specchio. Il dispositivo, che riflette e fa riflettere sui limiti e le potenzialità del nostro percepire, è l’elemento tecnico aggiunto che amplifica la distanza che ci unisce e separa dal fenomeno. L’ opera  d’arte è dunque un’indagine che si interroga sullo  “Stream of consciouness” mettendo l’accento sul fatto che noi siamo processi che indagano processi.            [http://vimeo.com/62347195]

 


[1] Il guardare attraverso è una espressione di Wittgenstein ripresa da Emilio Garroni nel suo Estetica. Uno Sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, pp.11-12.

[2] Rosalind Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte oggi, Bruno Mondadori, Milano 2005 e L’arte nell’era Post-mediale Marcel Broodthaers, ad esempio, Postmedia Books, Milano 2005.

______________________________________

Bibliografia

Emilio Garroni, Estetica. Uno Sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992

Rosalind Krauss, Reinventare il medium.Cinque saggi sull’arte oggi, Bruno Mondadori, Milano 2005

Ead., L’arte nell’era Post-mediale Marcel Broodthaers, ad esempio, Postmedia Books, Milano 2005

Nicolas BorriaudPostproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia Books, Milano 2002

Id., L’estetica relazionale , Postmedia Books, Milano 2010

Id., The Radicant, Sternberg Press, Berlin 2009

Ignazio Licata La logica aperta della mente, Codice Edizioni, Torino 2008

_____________________________________

teressssa*Teresa Iaria vive tra Roma e Milano. Artista, è laureata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma e in Filosofia con una tesi in Estetica, all’Università “La Sapienza” di Roma. Negli ultimi anni si interessa di fisica teorica, i suoi lavori sono stati pubblicati in prestigiose riviste come “Nature Physics” e “Plastik art & science” Univ-Paris1. È docente di Tecniche e Tecnologie della Pittura all’Accademia di Belle Arti Brera di Milano. Da sempre interessata all’intersezione dei linguaggi, dialoga con letterati, poeti e scienziati. È autrice di About the Anything Goes in Art in “Aesthetics in Present Future. The Arts and the Technological Horizon” Edited by Brunella Antomarini and Adam Berg, Lexington books New York 2013. E Regole e Fughe. Analogie, metafore e modelli nei processi creativi, Postmedia Books Milano 2013 (in press).


Viewing all 63 articles
Browse latest View live